Italia, terra di santi, di poeti e navigatori, ma soprattutto di ragionieri.
Da quando i dati sono largamente accessibili nella loro presunta forma grezza (o neutra) tutti ci siamo riscoperti analisti economici.
Basta accede a una della banche dati disponibili – Eurostat, Banca mondiale, Ocse, Banca d’Italia –
per dotarsi di una razione ragionevole di dati per dimostrare qualsiasi teoria.
L’impresa sulla quale si stanno misurando in molti in questi giorni su Facebook è la dimostrazione, dati alla mano, della teoria che assimila il debito pubblico italiano a uno schema Ponzi.
Nello Schema Ponzi (wikipedia) a una persona che ha una certa quantità di denaro liquido viene proposto un investimento dal quale ricaverà un guadagno facile e veloce e superiore ai tassi di mercato. Dopo poco tempo, all’invertitore viene pagata una discreta somma, facendogli credere che il sistema funzioni. Si sparge la voce, altre persone aderiscono al Sistema Ponzi e investono i loro risparmi. Con una parte dei soldi via via incassati dai nuovi aderenti si pagano gli interessi ai vecchi aderenti. Tutto funziona finché le richieste di rimborso del capitale versato non superano i nuovi investimenti.
E possibile – questa è l’ipotesi che ho letto su un profilo Facebook (luca foresti) – che il debito pubblico italiano funzioni come uno schema Ponzi?
Vediamo la dimostrazione (dati alla mano).
«Il PIL italiano del 2019 è stato di 1787 Mld€. Il calo del 2020 sarà circa del 11,2%, ovvero -200Mld€. Il deficit previsto sarà dell’11,1% del PIL, ovvero 198Mld. Le entrate di cassa nel 2021 e 2022 dal Recovery-Fund saranno di 209Mld, con un aumento di debito di 161Mld, ovvero l’equivalente di un altro +9% di rapporto debito/PIL. Il debito pubblico Italiano arriverà al 159% del PIL a fine anno, con un tasso di interesse medio dell’1,5% circa. Molto probabilmente anche nel 2021 il deficit sarà superiore al 5%. O questo paese fa riforme strutturali potenti che ci mandano su crescite elevate (almeno il 3%) per molti anni, oppure – conclude l’utente Facebook – questo è uno schema Ponzi»
Lo Stato italiano chiede in prestito soldi agli investitori, gli investitori – poveri caproni! – non sanno che stanno prestando soldi a Mister Ponzi, anche perché il Signor Ponzi li gratifica con un interesse superiore a quello che pagano Francia, Germania e Olanda. Sono contenti quando intascano gli interessi, ma non sanno che, quando si presenteranno per chiedere l’incasso del capitale versato, lo Stato italiano butterà giù la maschera, e dirà loro la verità sui conti, ovvero che la cassa è vuota, che i soldi avuti in prestito sono finiti nel pagamento di interessi, e che il tutto era una truffa, e via discorrendo.
Questa dimostrazione non fa una piega. I dati prodotti confermano ogni punto della teoria. Senonché non siamo in presenza di un’analisi economica, siamo in presenza di un mero calcolo aritmetico, degno di un modesto ragioniere. Si potrebbero avanzare svariate obiezioni a questa dimostrazione, ma la migliore è la più semplice. Ma gli investitori – assicurazioni, banche ordinarie e banche centrali, fondi pensione, fondi sovrani – sono davvero così ingenui?
Prendiamo il caso della banca centrale. Cosa fa la banca centrale quando compra titoli del debito italiano? Stampa un po’ di soldi e li dà allo Stato italiano. Con questi soldi lo Stato paga stipendi e pensioni (e interessi). La banca incassa gli interessi, e si cura del capitale solo nella misura in cui esso svaluta proporzionalmente i crediti e i contanti in circolazione. Che cos’è per la banca il capitale investito? È fiat money – moneta creata dal nulla.
Dire che è moneta interamente creata dal nulla è una esagerazione, visto che parte della ricchezza dirottata verso pensioni e stipendi proviene da una erosione delle posizioni attive (e negative) pregresse. Quando la banca centrale compra titoli, tira un bel pacco – subito, senza aspettare il signor Ponzi – a tutti quelli che hanno un saldo positivo o vantano un credito.
Come è possibile tutto ciò?
Dal punto di vista del ragioniere una cosa del genere è totalmente incomprensibile.
Il ragioniere usa la moneta come il sarto usa il metro. Se ho registrato sul libro mastro un credito verso Tizio di mille euro, alla scadenza, pensa il ragioniere, Tizio mi pagherà niente più e niente meno che mille euro.
E così sarà. Potete crederci. I numeri sono numeri!
Una volta incassata la sommetta il ragioniere corre al negozio per comprare la bicicletta che tanto desiderava, ma mille euro non sono più sufficienti, il prezzo della bici è aumentato, e sarebbe aumentato ancora di più se, nello stesso lasso di tempo, i soldi di Tizio avessero fatto qualche altro acquisto prima di arrivare al ragioniere, o se fossero serviti come base per l’emissione di nuovi crediti-debiti.
La moneta di conto è anche denaro. Il ragioniere misura con moneta, e può star certo di misurare con precisione matematica. Ma quando passa all’incasso non riceve moneta, riceve denaro. E il denaro, a differenza della moneta, è determinato, finito, spicciolo. La banconota, il soldo di argento, la cripto-valuta, sono denaro spicciolo, determinato, finito.
Cosa vuol dire determinato?
Spinoza diceva che «omnis determinatio est negatio», e con ciò voleva dire che il valore di questo denaro «qui» varia col variare delle condizioni che gli si oppongono, e siccome le condizioni sono sempre diverse, il valore del denaro non è stabile.
Hayek, come tutti gli economisti austriaci – Menger, Mises, Böhm-Bawerk, che sprezzava ogni tentativo di introdurre concetti metafisici in economia – si atteneva alla realtà effettiva. Conosceva i capricci e l’inaffidabilità del denaro, sapeva benissimo che il metro si accorcia e si allunga in continuazione. Perciò, nel suo arcinoto studio sulla denazionalizzazione della moneta, suggeriva di tenere sotto controllo i movimenti con cervelloni elettronici e display interattivi installati in ogni negozio, su ogni scaffale, su ogni prodotto, più o meno quello che vorrebbe fare Facebook con Libra, la sua moneta elettronica denazionalizzata.
Per arrestare il movimento del mondo ci vuole più di uno stupido cervellone elettronico, o di un numero sterminato di minicomputer messi nelle mani dei consumatori. Ci vuole la capa tosta di un umile ragioniere che dà fiducia ai numeri, ovvero alla metafisica, alla sostanza. E quando dice che i conti non tornano, che si tratta di uno schema Ponzi o di cose di questo tipo, non bisogna affrettarsi a dargli torto.
Dopodiché – dopodiché, sono molte le obiezioni che gli si potrebbero fare. Come per esempio quella cara ai circuitisti.
Da dove arriva il capitale iniziale? Da dove arriva la moneta del primo acquisto? Se «il primo acquisto» si ripete in ogni acquisto – come è sfuggito di chiarire ad Augusto Graziani – le cose si complicano ancora di più, e usare il denaro come il sarto usa il suo metro diventa un’impresa che solo l’ingenuità di un ragioniere può permettere di affrontare con successo – più o meno.
Dopo aver vagato a destra e a manca non resta che chiudere con un keynesiano – Federico Caffè – il quale nel 1979 [L’economia contemporanea], riproponendo un passo di Kindleberger, diceva che i monetaristi moderni si trovano in difficoltà nel decidere se debbono definire la moneta con M1, contanti e depositi a vista; M2 costituita da M1 con l’aggiunta dei depositi vincolati; M3, formata da M2 con l’aggiunta di titoli statali con elevata liquidità; o qualche altra designazione. Mi si dice che alcuni studiosi sono giunti sino a M7. Ma il mio punto di vista, dice, è che il processo è senza fine: si fissi un qualsiasi M1, e il mercato creerà nuove forme di moneta in periodi di boom per aggirare il limite e creare la necessità di fissare una nuova variabile Mj.
Poi qualcuno dice in giro che lo Stato si comporta come un Mister Ponzi qualsiasi.