Non c’è niente da vedere. Jean Hyppolite e Hegel

Jean Hyppolite et Alain Badiou, 1965

Nel 1920 Jean Wahl, in un’opera pionieristica, Le malher del la consciene dans la philosophie de Hegel, propone la traduzione di qualche pagine su La coscienza infelice dalla Fenomenologia dello spirito di Hegel.
Dieci anni dopo, Alexander Kojève, pronuncia all’Ecole pratique des Hautes Etudes, le sue celebri lezioni sulla Fenomenologia, e pubblica anche lui degli estratti.
La prima traduzione francese della Fenomenologia – opera di Jean Hyppolite appare in due tomi. Il primo tomo, del 1939, contiene il testo compreso tra la Prefazione e il capitolo V sulla ragione. Il secondo tomo, del 1941, contiene i capitoli sullo spirito, la religione e il sapere assoluto.
Altre due traduzioni pregevoli appaiono in Francia nel 1991 e nel 1993.
Nel 1946 Jean Hyppolite pubblica, presso Aubier, Paris, il suo famosissimo commentario alla Fenomenologia dello spirito.
Hyppolite ha insegnato a Strasburgo, alla Sorbona, all’ENS, al Collège de France, e ha avuto tra i suoi allievi Gilles Deleuze, Jacques Derrida, Étienne Balibar.

 

I

Michel Foucault, succedutogli nel 1970 al Collège de France, nel discorso di insediamento [L’ordine del discorso], riconosce i suoi debiti verso Hegel e verso Jean Hyppolite.
Il mio debito, dice Foucault, va, in grandissima parte, a Jean Hyppolite.
Non è una frase di circostanza.
Con questo discorso Foucault abbandona lo strutturalismo.

So bene, dice Foucault, che l’opera di Hyppolite è posta sotto il regno di Hegel, e che tutta la nostra epoca, o con la logica, o con l’epistemologia, o con Marx o con Nietzsche, cerca di sottrarsi a Hegel. E anch’io, dice Foucault, con tutto quel che ho cercato di dire oggi, con il programma di studi che ho proposto per i prossimi anni qui al Collège, sono ben poco fedele al logos hegeliano.
Tuttavia, dice Foucault, bisogna sapere quanto costi sfuggire a Hegel, quanto costi staccarsi da lui. Bisogna sapere quanto ci sia ancora di hegeliano nello sforzo di staccarci da lui.
Bisogna attentamente misurare quanto ci sia ancora di hegeliano nei motti nicciani Volontà di verità, volontà di sapere e ordine del discorso.
Quando Foucault dice che il discorso, lungi dall’essere l’elemento trasparente e neutro nel quale la sessualità si placa e la politica si pacifica, è, invece, uno dei siti in cui esse esercitano alcuni dei loro più temibili poteri; quando dice che il discorso non è semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi; quando dice tutto ciò, e lo pone come programma delle sue ricerche future, non sta forse ripetendo quello che Hegel aveva raccomandato nella Introduzione alla Fenomenologia? Non sta forse rivitalizzando il cuore stesso della Fenomenologia dello spirito di Hegel?
S
i, certo.

II

Nel 1966 alla John Hoplins University di Baltimora viene organizzato un convegno dal titolo The languages of Criticism and the Sciences of Man. Al dibattito, tra gli altri, erano stati invita Jean Hyppolite, Georges Poulet, Jacques Lacan, Serge Doubrovsky, Paul de Man e Roland Barthes. Gli organizzatori, nemmeno troppo velatamente, credevano di celebrare lo strutturalismo, allora in voga nell’Europa continentale – soprattutto in Francia.
All’ultimo momento, Luc de Heusch – antropologo
belga – declinò l’invito. Al ché, Jean Hyppolite suggerì il nome di un suo ex allievo.
L’allievo era Jacques Derrida.
Il quale pronunciò un discorso che segnò il declino dello strutturalismo. Tanto che, nel 1972, quando gli organizzatori ri-pubblicarono gli atti del convengo, sentirono l’obbligo di cambiare il titolo in The Structuralist Controversy.
Sul John Hopkins Magazine [Structuralism’s Samson, 09/01/12 http://hopkine1.rssing.com/browser.php?indx=4562428&item=21], Richard Macksey, tornando a quella scelta, ricorda che all’epoca non aveva per niente capito che Derrida sarebbe stato il Sansone che avrebbe abbattuto il tempio dello strutturalismo.
Anche il rapporto di Derrida con Hegel passa attraverso Jean Hyppolite. In
Ponctuations: le temps de la thèse, Derrida parla di un progetto di «thèse d’Université» sulla «teoria hegeliana del segno, della parola e della scrittura nella semiologia di Hegel», progetto approvato da Jean Hyppolite e poi abbandonato.

III

In alcuni appunti scritti tra il 1938 e il 1939, poi uniti ad altri testi su Hegel e destinati al volume GA LXV delle sue opere complete [Heidegger, Hegel, Zandonai], Heidegger dice che la figura di Hegel si staglia definitivamente nella storia del pensiero – o diciamo pure: dell’Essere [Seyn] – come l’unica e ancora incompresa richiesta di confronto con essa. Nietzsche – continua Heidegger – che si liberò molto lentamente e piuttosto tardi della miserabile tendenza, ereditata da Schopenhauer, a diffamare Hegel, disse una volta: «Noi tedeschi siamo hegeliani, anche se un Hegel non fosse mai esistito». La filosofia di Hegel ha dispiegato un’efficacia storica la cui ampiezza e i cui confini non possiamo ancora valutare neanche noi uomini di oggi, poiché ne siamo sommersi da tutte le parti senza conoscerli in quanto tali. Il positivismo del XIX secolo e quello dei nostri giorni, continua Heidegger, non avrebbe mai raggiunto la stabilità e la semplicità che sono le proprie, senza la metafisica hegeliana. L’epoca in cui Nietzsche era radicato e imbrigliato non sarebbe nemmeno pensabile senza Hegel; per non parlare di Marx e del marxismo, che è ben più di una determinata formulazione del socialismo.

IV

Nel 1953 Hyppolite scrive Logica ed esistenza, un testo che avrà un certo peso per i suoi allievi. Deleuze, nel 1954, lo recensisce sulla Revue philosophique de la France et de l’étranger.
La filosofia deve essere ontologia – e nient’altro. Ma non ontologia dell’essenza. Deve essere ontologia del senso. Questo è il tema del libro di Hyppolite – scrive Deleuze. Un libro essenziale e potente.
La filosofia deve essere ontologia, ciò vuol dire, innanzitutto, che non deve essere antropologia. L’antropologia, dice Deleuze, vuole esser un discorso sull’uomo a partire dall’uomo empirico, in cui chi parla e ciò di cui si parla sono separati. La materia dell’empirismo è trattata come un fatto, al quale corrisponde, dal lato del soggetto e della conoscenza, un formalismo. La riflessione sta da una parte e l’essere dall’altra. La conoscenza non è quella della cosa, essa dimora fuori dell’oggetto. La conoscenza è allora una capacità di astrarre.
La soggettività sarà trattata come un fatto, dice Deleuze, e l’antropologia si costituirà come la scienza di questo fatto. E non conta che Kant arrivi sino all’unità sintetica di soggetto e oggetto. Alla fine Kant perviene ad un oggetto che è soltanto relativo a un soggetto. Kant, dice Deleuze, oltrepassa lo psicologico e l’empirico, ma resta arenato nell’antropologico.
Kant ha certo il merito di aver posto il pensiero come presupposto affinché tutti gli oggetti siano conoscibili. In Kant il pensiero e la cosa sono identici, ma ciò che è identico al pensiero è solo una cosa relativa, non la cosa in quanto essere, la cosa in sé.
In Hegel si tratta di innalzarsi sino alla conoscenza della vera posizione e del presupposto, fino all’Assoluto.
Nella Fenomenologia, dice Deleuze, Hegel parte dalla riflessione umana per mostrare che la riflessione umana, e ciò che ne consegue, portano alla conoscenza assoluta che presuppongono. Si tratta, come dice Hyppolite, di ridurre l’antropologico, di rimuovere dalla conoscenza l’ipotetico. La conoscenza assoluta è in tutti i momenti, all’inizio come alla fine. La differenza tra un presunto interno e un presunto esterno, diventa una differenza tutta interna. Non c’è fuori, il fuori è un ripiegamento del dentro.
Nel porre se stessi come Assoluto, dirà qualcuno, c’è un attimo di God Pride. Ma non è così – dice Deleuze. Perché l’Essere, secondo Hyppolite, non è essenza, ma senso. Dire che questo mondo è sufficiente, non è dire soltanto che è sufficiente per noi, ma che è sufficiente a se stesso. Ci si riferisce all’essere non come ad un’essenza oltre l’apparenza, non come ad un secondo mondo, che sarebbe il mondo intelligibile, ma ci si riferisce al senso di questo mondo qui. Quindi, secondo Hyppolite, non esiste un altro mondo, e questa è la proposizione principale della Logica di Hegel. Hegel trasforma la metafisica in logica: primo passo per trasformare la logica in logica del senso. Che non ci sia oltre significa che non esiste un aldilà del mondo (l’Essere è solo senso), e che nel mondo non c’è alcun oltre del pensiero (perché l’essere pensa nel pensiero).
Tutto ciò significa, dice Deleuze,
che nel pensiero stesso non c’è niente oltre il linguaggio.
Il libro di Hyppolite è una riflessione sulle condizioni di un discorso assoluto.
A questo proposito, i capitoli sull’ineffabile e sulla poesia sono essenziali. L‘Essere è senso, la vera conoscenza non è la conoscenza di un Altro, né di qualcos’altro. In un certo modo, la conoscenza assoluta è la più vicina, la più semplice, è qui. “Non c’è niente da vedere dietro la tenda” (p. 60), o, come dice Hyppolite, “il segreto è che non c’è alcun segreto” (p. 90).
Q
ual è la difficoltà di tutta questa posizione, una difficoltà che Hyppolite enfatizza con forza? Se l’ontologia è un’ontologia del senso e non dell’essenza, se non esiste un secondo mondo, come può la conoscenza assoluta essere ancora distinta dalla conoscenza empirica? Non ricadiamo nella semplice antropologia che abbiamo criticato?
No, dice Hyppolite. L’essenzialismo non è ciò che ci salva dall’empirismo. Al contrario. Ogni essenzialismo deve presupporre, come suo altro esterno, un empirismo, un materialismo. Quando l’essere diventa senso, la
differenza tra essenza e empirico diventa interna all’Essere. È l’essere che passa dall’uno all’altro, in modo circolare.
Hyppolite, dice Deleuze, prende posizione contro tutte le interpretazioni antropologiche o umanistiche di Hegel. La conoscenza assoluta non è un riflesso umano, ma un riflesso dell’Assoluto nell’uomo,
e l‘Assoluto non è un secondo mondo. L’Assoluto, nel transito da un momento all’altro, da una figura all’altra, si perde e si ritrova – nella storia. L’Assoluto come senso è un divenire.
Indubbiamente,
dice Deleuze, questo divenire non è un divenire storico.
Q
ual è, allora, la relazione del divenire della Logica con la storia, quando storia qui designa tutt’altro che il semplice carattere di un fatto?
La relazione tra ontologia e storia rimane indeterminata. Hyppolite, dice Deleuze, lascia aperta la questione.
Hyppolite
pensa che sia necessario reintrodurre la finitudine nell’Assoluto. Ma in questo modo, si chiede Deleuze, non si rischia un ritorno dell’antropologismo in una nuova forma?
Questa
difficoltà era forse già presente nella Logica di Hegel dice Deleuze.
I
n tutto ciò Hyppolite si mostra completamente hegeliano: l’essere può essere differenza solo nella misura in cui la differenza è portata all’assoluto, cioè fino alla contraddizione. La differenza speculativa è l’Essere che si contraddice. La cosa si contraddice perché, distinguendosi da tutto ciò che non è, trova il suo essere in questa differenza stessa. Si riflette soltanto riflettendosi nell’altro, poiché l’altro è il suo altro. A Platone come a Leibniz, Hegel rimprovererà di non essersi spinti fino alla contraddizione [riflessione], di essersi fermati uno alla semplice alterità, l’altro alla pura differenza. Il che indica non solo che i momenti della Fenomenologa e i momenti della Logica non sono dei momenti nello stesso senso, ma che ci sono anche due modi di contraddirsi, uno fenomenologico e l’altro logico.
Nonostante ciò
, dice Deleuze, il libro di Hyppolite è ricco e pieno di meraviglie.
Non si può costruire un’ontologia della differenza che non debba
spingersi fino alla contraddizione, visto che la contraddizione rappresenta un rilevamento della differenza, e non una proliferazione della stessa.
La
contraddizione, chiede Deleuze, non è forse soltanto l’aspetto fenomenologico e antropologico della differenza?
Secondo Hyppolite un’ontologia fondata su una pura differenza, o su una differenza irriducibile, ci riporterebbe a una riflessione puramente esteriore e formale, trasformandosi in un’ontologia dell’essenza.

V

Hyppolite propone una lettura esistenzialista di Hegel – heideggeriana.
Negli anni 30 a
veva seguito i corsi di Kojève sulla Fenomenologia dello spirito all’École pratique des hautes études. E anche la lettura di Kojève era un tantino esistenzialista.
Sia come sia,
in Vita ed esistenza in Hegel, Hyppolite dice che Hegel, a Jena, vuole pensare quella vita che prima aveva solo descritto.
Cosa vuol dire?
Vuol dire – spiega Hyppolite – che la speculazione e la vita non devono formare due sfere distinte: la vita sempre aldilà della speculazione, la speculazione sempre aldiqua della vita. Occorre che i due termini si identifichino.
L’identità di vita e speculazione si fa avanti nel capitolo della
Fenomenologia sull’Autocoscienza.
Hegel non inventa niente di assolutamente nuovo. Già i primi romantici, dice Hyppolite, sostenevano questa concezione della vita.
Hegel mette al centro la vita. Ma non si tratta della vita biologica. Della mera vita naturale.
Nella
Cosa della coscienza sensibile, le cui parti sono tutte esterne le une alle altre, la loro unità è un’unità astratta. Pure nell’intelletto le parti sono esterne le une alle altre e, quando si pone il tutto, se ne fa un essere separato dalla molteplicità.
L
onnipresenza del semplice nella moltitudine rimane un mistero.
L
’autocoscienza, invece, ritrova nella relazione tra la vita e il vivente, tra il genere e l’individuo, tra la sostanza e il modo (Spinoza), la non-separazione del tutto e delle parti, un’immanenza vivente che costituisce l’infinità.
Vita e infinito sono equivalenti.
L’originalità di Hegel, dice Hyppolite, sta in ciò, che le determinazioni finite non sprofondano nell’indifferenza.
Le determinazioni finite si oppongono tra di loro. Le opposizioni, dice Hegel, sono qualitative, e, poiché non esiste nulla al di fuori dell’assoluto, l’opposizione è essa stessa assoluta, e solo in quanto assoluta può trascendersi.
Quando, al contrario, l’infinito è disgiunto dall’apposizione concreta, non può essere altro che un abisso in cui spariscono tutte le differenze.
Q
uella di un assoluto che si scinde e si lacera per poter essere assoluto, dice Hyppolite, è un’immagine mistica. Dove mistico è da intendersi proprio come contatto del finito con l’infinito. In Hegel questa immagine mistica si traduce nell’invenzione di un pensiero dialettico. L’infinito non è aldilà delle opposizioni finite. Le opposizioni finite sono pensate come infinite. L’infinito, per Hegel, non potrebbe essere più inquieto del finito.
Hegel, dice Hyppolite, vuole pensare la
connessione di – connessione e non-connessione. E il concetto che gli permette di pensare la connessione, e non solo di viverla senza pensarla (perché si vive, se si vive, nella disconnessione o nella contraddizione della molteplicità), è il concetto dell’infinità.
L’infinito è dialettica, è azione, è polemica. Ma non azione e polemica che arrivano da fuori: presa di posizione che giunge da un Altro luogo – un luogo della critica, per esempio, un io penso, un io mi ribello, un io alzo la tesa, eccetera.
Cogliere una determinazione limitata come infinita, significa coglierla nell’inquietudine che permette di trascenderla nel suo divenire altro-da-sé. Questo altro verso cui si tende non è un aldilà irraggiungibile, non è un’idea di progresso infinito (cattivo infinito).
Questo altro è il medesimo che si lacera, che si sdoppia, che si divide, che si squarta. Il determinato, scrive Hegel, in quanto tale, non ha altra essenza che questa inquietudine assoluta di non essere ciò che è.
Ogni determinato si nega nel suo altro. Il suo altro è il medesimo diviso. La coscienza è autocoscienza – sé per il sé – ma il sé esce fuori da sé verso la cosa, in questo uscire fuori si mostra e appare – appare a sé come altro.

VI

Il fatto che l’essere umano sia lui stesso e possa dire io, scrive Heidegger [Hegel] e sappia di se stesso e abbia «autocoscienza», è da sempre risaputo nel pensiero occidentale.
Nella filosofia (metafisica) si tratta di conoscere il vero, ciò che è l’ente in verità. Per l’idealismo il vero ente è l’assoluto.
Nell’idealismo – a partire da Kant – alla conoscenza dell’assoluto viene premesso un esame del conoscere stesso – rivoluzione copernicana.
Hegel non nega che alla conoscenza completa dell’assoluto debba precedere un «esame» del conoscere. Ma ritiene che questo esame e l’essenza della conoscenza dell’assoluto, sottoposta a esame, possono determinarsi solo a partire dall’assoluto.
Quando ci apprestiamo a conoscere possediamo già un’idea del conoscere.
Se
la conoscenza è uno strumento, è uno strumento con il quale conosciamo l’assoluto, per poter stabilire l’idoneità dello strumento dobbiamo aver già conosciuto l’oggetto del conoscere. Il rapporto del conoscere nei confronti dell’assoluto è già presupposto.
Idem quando il conoscere è inteso come
medio tramite il quale la luce giunge sino a noi.
Strumento e Medio hanno il carattere di mezzi.
Se prendiamo
la conoscenza dell’assoluto come un mezzo, dice Heidegger, allora misconosciamo l’essenza e il senso del conoscere assoluto e dell’assoluto. È infatti proprio dell’assoluto includere in sé ogni relativo e ogni rapporto con il relativo – altrimenti non sarebbe assoluto. L’assoluto non può avere una parte che gli si contrappone come esterna – con un esterno non sarebbe assoluto, sarebbe limitato dalla parte che gli si oppone. Quindi l’assoluto non è qualcosa che si possa avvicinare con chissà quale strumento, come se esso assoluto non potesse innanzitutto essere presso di noi.
L’assoluto è già in sé e per sé presso di noi.
Il conosce non è un
medio tra noi e l’assoluto.
L’assoluto è già presso di noi.
Il sapere dell’essenza del sapere assoluto sa già se stesso come sapere assoluto.
L’assoluto non emerge, non inizia, non è una cosa che principia tra le altre cose. L’assoluto è tutto. Compresa la conoscenza che lo esprime.
L
infinito, l’intero di questo duplice movimento, non deve essere posto come un aldilà mai raggiunto. Ciò che è all’inizio si ritrova alla fine. Movimento circolare.

VII

La vita della relazione, dice Hyppolite, è la dialettica, e non si deve intendere, in Hegel, come un processo formale, che si può applicare dal di fuori a ogni contenuto. La dialettica è la vita del contenuto, è la vita stessa ad essere dialettica.
Come pensare la vita umana?
Questo è il problema che occupava il giovane Hegel.
Si parte dal vivente isolato, da ciò che Hegel chiama struttura distinta. Questo essere, dice Hyppolite, si stacca dal tutto e si afferma di per sé come indipendente. È ciò che Spinoza chiama un modo. Ma mentre il modo spinoziano è solo negazione, il modo hegeliano è in se stesso potenza negativa, attività, come la monade liebniziana. Il vivente isolato è, in quanto si separa dall’universale, in quanto si afferma contrapponendosi il tutto fuori di sé come sintesi del molteplice di cui esso è il termine negativo. La relazione tra l’universo e l’organismo, tra l’universale e l’individuale, si presenta nella relazione tra il vivente e il suo ambiente. E qui, dice Hyppolite, non si può non pensare alla descrizione che il giovane Hegel fa della coscienza di Abramo.
L’ebreo, come straniero sulla terra, si isola, si auto-afferma. Concepisce il tutto fuori di sé – la natura – come infinito. Una natura che, nello stesso tempo domina e teme. Per dominare una natura che teme, deve pensarla, concepirla, afferrarla. L’essere pensato è l’essere dominato.
Uscita – caduta – dall’immediatezza con la natura, dove si era cosa tra le cose. L’infinito media questa uscita. L’infinito, come negazione, media l’uscita dalla natura. La natura pensata, e il pensiero, si formano in questa separazione, in questa lacerazione. Il pensiero emerge là dove cessa l’immediatezza tra il desiderio e la cosa desiderata.
Il pensiero è desiderio differito. Anzi. Il pensiero è il dolore del differimento – del desiderio. Il dolore-pensiero – il masochismo – è desiderio differito. È il movimento che annulla lo stato di cose presente. Negatività astratta. Coscienza infelice.
L’individuo, dice Hyppolite, è in un presente sempre orientato verso l’avvenire che nega il presente. Da qui la contraddizione interna che, nello stesso seno del desiderio, si fa sentire come dolore. Il dolore è la contraddizione vissuta, l’esperienza biologica della dialettica.

VIII

In una comunicazione del 1946, tenuta alla Société d’ètudes germaniques, [L’esistenza nella fenomenologia di Hegel] Hyppolite richiama l’opera di J. Wahl, Le malher de la coscience dans la philosophie hégelienne, dove si mostra il carattere esistenziale delle opere giovanili di Hegel. Tutte queste opere preparano il capitolo della Fenomenologia sulla Coscienza infelice. Hegel stesso, dice Hyppolite, ha preso coscienza della tragica opposizione tra finito e infinito, tra uomo a assoluto; ha studiato nell’ebraismo e nel romanticismo le forme esistenziali di questa opposizione.
Le opere giovanili si ritrovano nella prima grande opera di Hegel, la Fenomenologia.
Ci domanderemo, dice Hyppolite, se in quest’opera non ci sia una concezione dell’esistenza che si avvicina a certi temi dell’esistenzialismo contemporaneo.
Prendiamo il capitolo sull’Autocoscienza – dice Hyppolite – e l’opposizione scoperta da Hegel tra l’autocoscienza – noi diremmo l’esistenza umana – e la vita in generale. A partire da questa opposizione appare la coscienza infelice.
La coscienza della vita, scrive Hegel, è soltanto il dolore per questo esistere.
Prendere coscienza della vita universale significa necessariamente, nello stesso tempo, opporsi ad essa e ritrovarla in sé.
Che cos’è la vita universale?
Non è vivere. È sentirsi vivere.
Come ci si può sentire vivere?
L’animale vive. È immediatamente vita. È tutt’uno con la vita biologica. È tutt’uno con il suo desiderio. Brama una cosa, la mangia o non la mangia.
L’animale sussiste.
L’uomo differisce il desiderio, percepisce il suo desiderio come suo, e può inibirlo.
Come viene introdotto l’uomo biologico alla percezione di se stesso?
Come si introduce lo sdoppiamento tra un io che desidera e un io che inibisce il desiderio?

Non c’è introduzione all’esperienza dell’assoluto.
Se si iniziasse con l’introdursi nell’assoluto, l’assoluto avrebbe di fronte a sé questa introduzione, come un alcunché di determinato. L’assoluto è tutto (ab-soluto). Avere fuori di sé un’introduzione significherebbe avere una interruzione – un’interruzione dell’assoluto.
Ogni interruzione dell’assoluto deve essere una interruzione nell’assoluto stesso. Ecco perché l’assoluto non ammette all’inizio una introduzione – un inizio. L’assoluto non ha inizio.
Se tuttavia vi è introduzione, questa introduzione è un’introduzione dell’assoluto – introdotta a partire dall’assoluto stesso.

IX

L’hegelismo, dice Hyppolite, si è sviluppato in un’atmosfera romantica. Hegel, come Schelling, come Holderlin, ha voluto pensare questa vita infinita che si esprime nella moltitudine dei viventi determinati. Senza dubbio questa vita è una in tutti, ma le sue espressioni sono diverse. Ogni vivente particolare esprime bene in sé la totalità della vita, l’Universale. Proprio per questo, continua Hyppolite, muore nel dare la nascita ad altri viventi. Di più. Dà la nascita proprio perché muore. Il moto della vita universale appare nell’incessante e monotono muori e divieni; ma ogni essere, se muore, non sente questa potenza infinita che lo spinge a separarsi senza posa e a dare origine a nuovi esseri, non è ancora coscienza della vita infinita, del , ne è solo la realizzazione parziale – è negatività naturale. L’animale ignora il suo morire. Tuttavia, la morte non è altro che questa negazione del determinato e del limitato, attraverso cui si manifesta, nel flusso degli esseri viventi, la potenza assoluta della vita infinita e semplice. L’infinità della vita si manifesta attraverso la morte, altrettanto bene che attraverso la riproduzione, ma questa negazione della negazione (la negatività infinita, il no al no che enuncia veramente il sì) viene ignorata dall’essere vivente. La vita animale, ribadisce Hyppolite, non è l’esistenza, perché non è cosciente della morte.
L’animale (come Dio) non ha altre possibilità in riserbo, oltre quelle che consuma, e consuma senza riserva – non capitalizza. Quello che può essere, coincide perfettamente con quello che è. Non ha delle aspirazioni, delle voglie insoddisfatte, delle brame inconfessabili.
Tutto ciò che per Dio è possibile è verità effettiva, stato di cose. Non si dà per Dio il possibile. Dio è assoluto. Per l’essere finito, invece, si dà sempre la possibilità di non essere, di morire. Pur se esistente, non ha ancora esaurito tutte le possibilità, ha, tra le altre, la possibilità di non essere o di essere qualcosa di diverso da quello che è. Mentre Dio, per essenza, non può non essere.
L’animale sussiste – non esiste – perché non sa di morire. Si riproduce, ma non si rigenera. Non conosce il genere.
L’uomo esiste. Sa di morire. Si rigenera. Nel figlio rivive il padre, il nonno e tutta l’intera genia. Nella parte rivive il tutto. La vita non nega l’uomo come fa con l’animale – negatività naturale.
L’uomo che sa dell’intero della vita, non è più l’uomo ingenuo.
Nell’uomo la vita arriva al sapere di sé, ma proprio allora l’esistenza dell’uomo emerge da questa vita, e coglie in sé l’opposizione più tragica. La coscienza della vita, esiste in margine alla vita ingenua e determinata.
L’uomo emerge dall’immediato della vita biologia – dice Hyppolite. L’immediatezza si guasta. Il continuum si frattura, emerge la coscienza della vita. Nel vivente finito, emerge la coscienza della vita infinita.
La coscienza della vita, dice Hyppolite, non è più la vita ingenua, è il sapere dell’Intero della vita, come negazione di tutte le sue forme particolari, il sapere della vita vera, ma, nello stesso tempo, è sapere che questa vita vera è assente.
L’uomo mira ad entrare nell’infinito, ma l’infinito è interdetto ad una vita limitata. Tutto lo sforzo per cogliere se stesso come incondizionato (libero) giunge ad uno scacco.
Pensare l’infinito, significa pensare tutte le possibilità, fino alla possibilità di non essere più – la morte.

X

Si può capire meglio questa opposizione tra la vita immediata e la coscienza della vita, dice Hyppolite, tornando a certi lavori giovanili di Hegel sul popolo ebreo e su Adamo.
Per Hegel il popolo ebreo è il popolo infelice della storia.
A differenza dei greci, i quali riescono a conciliare immediatamente la vita finita e il pensiero, Abramo si innalza a una riflessione così radicale che si stacca da ogni forma particolare di vita. Lascia la terra dei padri, attraversa il deserto e vuole esistere per sé, ma questa riflessione lo innalza al di sopra della vita immediata.
Abramo non sa più amare – scrive Hegel.
Non può più legarsi ad una cosa finita e limitata. La vita si riflette in lui, ma come totalità, come negazione di tutte le forme determinate. Per questo, dice Hyppolite, Abramo concepisce Dio aldilà dei viventi determinati, un Dio infinito, incapace di esprimersi in una figura concreta.
Il popolo ebreo si rappresenta Dio sotto la forma della trascendenza assoluta, poiché ogni espressione determinata di questo Dio, di questo Universale, è una forma di idolatria.
Riflettendo sulla vita, il popolo ebreo non arriva ad altro che ad opporsi alla vita ingenua che conduce i popoli della storia a legarsi ad una terra particolare, a perdersi in una determinazione. L’Ebreo concepisce l’Universale, il Tutto della vita, ma nello stesso tempo questa concezione lo allontana dalla vita.
Se la malattia, dice Hyppolite, è, nell’animale, la traccia visibile di questa negatività, il momento in cui esso nega se stesso in quanto particolare, l’uomo, dice Hegel, è l’animale ammalato. Egli sa la propria morte, ed è prendendo coscienza di questa morte che diventa capace di essere per sé ciò che questa vita non è che in sé.

XI

L’animale non conosce la totalità infinita della vita come totalità, l’uomo invece diventa il per sé di questa totalità, interiorizza la morte. L’animale non percepisce il proprio limite, dunque non ha possibilità di riserva. Non si riserva.
L’uomo vive, ma la sua vita gli è estranea. L’intero della vita – la vita infinita del genere – lo rende estraneo alla sua vita particolare effettiva. Nel mentre prende coscienza della vita infinita, nega la vita finita. Questa negazione di ogni alterità (del limite), dice Hyppolite, ricomincia continuamente nel desiderio negatore. Essa è il motore del desiderio, e questo desiderio ha come orizzonte lontano la possibilità di porre se stesso in modo assoluto. Ritrovare se stesso nel cuore della vita, cioè ritrovarsi come unità della vita universale, come l’essere per sé di questa vita, che continua a disperdersi nelle forme viventi, questo è lo scopo supremo del desiderio.
Come si realizza tale scopo? Come si supera il limite del vivente, come si vince la morte?
La si vince ritrovandosi in un altro vivente, in un altro io.
Alienarsi in un altro io. Piantare il proprio seme, lavorare. Riprodursi.
Ritrovarsi come unità della vita universale.
Tale scopo, dice Hyppolite, non può essere raggiunto altro che se la vita di fronte a me si presenta come un altro io. L’io si trova nel cuore della vita solo se la vita gli si manifesta al di fuori come fosse un Io. Non vi è autocoscienza, esistenza dell’uomo, altro che se due autocoscienze si incontrano. L’Io si sa, allora, oggettivamente nell’altro Io, e questo Altro è ancora lui stesso.
Accade ciò che per l’ebreo è l’impossibile: l’universale concreto.
La presenza nel simbolo (finito) dell’infinito: il vitello d’oro – il Cristo – l’incarnazione del padre nel figlio – Dio che si fa uomo.
L’autocoscienza dell’uomo, dice Hyppolite, sorge in questa opposizione, essa si riconosce agevolmente nell’Altro, ma, nello stesso tempo, ci si vede come un essere esteriore e determinato – contraddizione. Eliminare la contraddizione. Ma la contraddizione è l’altro io. L’eliminazione della contraddizione passa attraverso la messa a morte dell’altro. La morte dell’altro Io non è una mera soppressione, è un soppressione ri-levante: una elevazione, una resurrezione.
L’autocoscienza, dice Hyppolite, tende a sopprimere, a negare questa forma di esistenza estranea nella quale essa appare a se stessa come Altro. Essere se stesso, cioè puro essere-per-sé, ma nello stesso tempo essere un Altro, una forma determinata, un oggetto vitale, ecco ciò che è inammissibile, e tuttavia l’autocoscienza sorge in questa situazione, in quanto essa è nello stesso tempo una pura autocoscienza inserita in una forma vivente.
L’Ebreo pianta le tende e diventa cristiano – si territorializza – produce i suoi simboli. Diventa stanziale. Segna i confini, recinta il perimetro – Negazione determinata.
L’infinito si incarna. Dio diventa uomo. Ma in quanto uomo ha in serbo la possibilità estrema: la morte.
La morte è il limite. Più propriamente, la morte è l’altro che si oppone e mi limita: è la messa a morte. La condanna. Condanna della quale il sovrano se ne lava le mani. Ma non per codardia, al contrario, perché la condanna è inscritta nel limite stesso.
L’esistenza umana, dice Hyppolite, emerge nella lotta tra le autocoscienze. Ognuna di loro vuole la morte dell’altra, poiché ciascuna vuole sopprimere il proprio essere limitata dall’altra. Questa lotta a morte è una condizione della storia. Sembra avere delle cause accidentali, spiega Hyppolite, ma la causa profonda è la necessità dell’autocoscienza di provare all’Altro e di provare a se stessa di non essere solo una cosa vivente, una semplice vita animale. Così l’esser-per-sé, e potremmo dire l’esistenza nel senso moderno (da-sein), si attualizza nella lotta come puro essere-per-sé come assoluta negatività.
Chiusura del circolo – resurrezione – ritorno del figlio al padre.
Morte di Dio (Cristo), fine della storia.

XII

Eppure, dice Hyppolite, la storia non può finire così.
Dal momento che sono un essere vivente, non posso non essere nello stesso tempo una cosa determinata, per un altro, e non riflettermi in un altro come una cosa. Il mio essere-per-altri mi investe in modo insopportabile e tuttavia è la mia condizione d’essere-nel-mondo. L’uomo esiste solo per mezzo di questa negatività, assume l’operazione della morte e ne fa l’atto con cui supera e trascende ogni situazione limitata. Il suo esistere è questo stesso atto.
Tuttavia, ribadisce Hyppolite, l’uomo non può rinunciare completamente al suo essere-nel-mondo, a questa alterità senza di che non avrebbe nemmeno la potenza di negare o di negarsi. Rinunciando alla vita per provare che si è un puro essere-per-sé, si sparisce semplicemente dalla scena, come l’animale. Bisogna dunque, nello stesso tempo, conservare la vita e la sua alterità, e negare questa alterità. Bisogna trovare una morte che non sia una morte biologica.
Questa morte che non è una morte la si trova nel lavoro.
Nel lavoro, dice Hyppolite, il lavoratore imprime all’esser-altro, al mondo oggettivo, la forma dell’autocoscienza, ne fa un mondo umano, il suo mondo, e, al contrario, dà al proprio essere-per-sé, sempre negato, la consistenza e la stabilità dell’essere-in-sé. L’opposizione che talora esiste fra l’essere-in-sé e l’essere-per-sé è risolta dall’individualità che assume il proprio essere-altro e lo rifà secondo la forma dell’essere-per-sé.
L’esistenza dell’uomo, dice Hyppolite, non è più l’esistenza animale, in quanto l’uomo prende su di sé l’operare negativo, che, nella vita, si manifesta con la morte, e nega, in sé e fuori di sé, ogni essere determinato (negatività assoluta). L’uomo si sforza di riguadagnare o di assumere le determinazioni. Le nega, come la morte nega il vivente determinato, ma le conserva anche, conferendo loro un senso nuovo. Così l’esistenza umana genera la storia, in cui i momenti parziali sono sempre negati, ma anche sempre ripresi, per essere superati. La vera vita dello spirito non è solo quella che esita davanti alla morte, è quella che interiorizza la morte e possiede il magico potere di convertire il negativo in essere. Questo potere corrisponde a ciò che Hegel chiama Soggetto. Un soggetto che porta la storia umana nel proprio divenire, e che non si limita alla sola storicità vivente.
Attraverso la tragedia sempre necessaria, dice Hyppolite, appare dunque la rivelazione di un Universale concreto, che si manifesta attraverso la storia. Questa unità della trascendenza e dell’immanenza, questo Dio che muore nell’uomo, mentre l’uomo si innalza al divino mediante la storia, che lo giudica, questo superamento delle esistenze che compare alla fine della Fenomenologia è forse il contrario di una filosofia esistenzialista, come ha creduto Kierkegaard?
Questo imprimere alla cosa finita (effettiva) la forma dell’autocoscienza cos’è?

XIII

 

È qualcosa di molto antico, dice Heidegger, qualcosa che ha segnato tutta la storia della filosofia.
La scolastica, dice Heidegger [I problemi fondamentali della fenomenologia], interpreta l’ente effettivo richiamandosi all’effettuazione, vale a dire, non rivolgendosi al modo in cui ciò che già sussiste viene appreso come effettivo, bensì considerando come il sussistere, ciò che in seguito può essere appreso, proprio in quanto sussistente (Vorhandenes) sia in generale sotto mano (vor die Hände) e quindi manipolabile. Si mostra anche qui, sia pure in modo indeterminato, una relazione al “soggetto”, al Da-sein (Esserci): l’avere sotto mano ciò che sussiste in quanto prodotto di una pro-duzione (Her-stellung), effetto di una effettuazione. Ciò corrisponde al significato di actualitas e di ἐνέργειᾰ (enérgeia).
La scolastica ripropone un tema già presente nella filosofia greca.
Ciò che determina la cosalità di un ente è la sua figura – μορφή (morphḗ). Qualcosa assume questa o quella figura, diviene questo o quello. Col termine μορφή non ci si riferisce solo alla figura nello spazio, ma a tutti quei tratti a partire dai quali si desume che cosa un ente è. Conferendo una figura a ciò che deve essere prodotto, si fornisce al prodotto il suo aspetto, la sua forma. Nell’aspetto di una cosa, dice Heidegger, noi riconosciamo ciò che una cosa è, la sua cosalità, il suo avere un’impronta, l’impronta della produzione. Il vasaio dà alla creta la forma di una brocca. La formazione di una forma avviene seguendo il filo conduttore e la direzione costituiti da una immagine intesa come modello preformato. La cosa che deve ricevere la forma, l’impronta, è prodotta volgendo lo sguardo all’aspetto che viene anticipato. Un tale aspetto della cosa anticipato e scorto preliminarmente è ciò che i Greci intendono dal punto di vista ontologico con i termini εἶδος (eîdos) e ἰδέα (idéa). La forma, che prende forma secondo un modello, si configura come copia di questo modello.
Se la forma, l’impronta (μορφή), continua Heidegger, risulta fondata nell’εἶδος, ciò significa che questi due concetti sono compresi con il riferimento al formare, all’imprimere, al produrre. I due concetti sono fissati a partire dall’atto di formare e di imprimere, dalla necessità di scorgere preventivamente l’aspetto di ciò che deve essere formato. Il vasaio modella la creta secondo un modello che conosce bene già prima di intraprendere il suo lavoro. Nell’idea c’è già il vaso. L’immagine preliminare manifesta una cosa nel modo in cui è prima della produzione e nell’aspetto che dovrà assumere una volta prodotta.
L’immagine non si è ancora fissata, dice Heidegger, non è stata esternata in qualcosa di effettivo. È un’immagine dell’immaginazione, della φαντασία (phantasia), come dicono i Greci. Perciò l’aspetto anticipato, l’εἶδος, viene anche detto ciò che un ente già era. Ciò che l’ente già era prima del suo attuarsi, l’aspetto a cui si commisura la produzione, è anche ciò da cui ha veramente origine la cosa che riceve l’impronta. L’εἶδος, ciò che una cosa era già preliminarmente, indica la stirpe della cosa, la sua origine, il suo γένος (ghènos). Perciò la cosalità si rivela identica anche al γένος, e quindi questo, dice Heidegger, dovrà essere tradotto con stirpe o lignaggio.
Quel che rende possibili (generabili) le cose generate, i prodotti della generazione, è ancora una volta l’aspetto che deve assumere e far suo ciò che deve essere generato. Tutto ciò che è prima di essere attuato è ancora esente da quella incompletezza, da quella unilateralità e da quel farsi sensibile che necessariamente ogni effettuazione comporta. Il “che cosa”, dice Heidegger, l’aspetto determinante che è prima di ogni effettuazione, non è ancora assoggettato, come ciò che è effettivo, al mutamento, al nascere e al perire. Esso è prima, e perciò è sempre, è ciò che l’ente – costantemente concepito come producibile e come prodotto – era già fin dall’inizio, è la verità dell’essere di un ente. Questa verità è stata interpretata dai Greci anche identificandola con lo stesso ente vero, cosicché le idee, che costituiscono l’effettività dell’ente effettivo, vengono a coincidere in Platone con ciò che è effettivo autenticamente.
L’idea si incarna nel vaso, ma il vaso è solo una copia – è inautentico, autentica è solo l’idea. Nel vaso si ritrova formato ciò che era all’inizio, come essenza, solo nell’idea.
Al Principio, prima del lavoro, era il Verbo.

 

Articoli consigliati