L’influenza del romanticismo – Hölderlin, Novalis, Schelling, von Schubert – sul giovane Foucault è evidente, perlomeno sino a Storia della follia. Il romanticismo tedesco arriva a Foucault attraverso il surrealismo, e in particolare attraverso Bataille e Blanchot. Bisogna menzionare anche L’anima romantica e il sogno, di Albert Beguin, testo nel quale confluiscono l’interesse per la tradizione romantica e quello per il surrealismo. Tutto ciò si mescola alla fenomenologia (Husserl), mediata da Merleau-Ponty, e all’esistenzialismo. Di Heidegger Foucault privilegia l’ontologia, il tema dell’autenticità, e una romantica nostalgia dell’origine (una lettura di Heidegger molto diffusa in Francia). Infine, per ciò che riguarda le influenze importanti, bisogna menzionare Hegel, visto che anche Foucault è stato allievo di Hyppolite.
Albert Beguin era direttore di Esprit, una rivista cattolica che si contendeva il campo dell’esistenzialismo francese con Les temps Modernes (Sartre), portavoce dell’esistenzialismo ateo, filocomunista e leggermente filo-sovietico.
Per Blanchot Foucault provava una profonda stima, gli riconosceva il merito di avergli fatto conoscere Bataille, e, attraverso Bataille, Nietzsche.
Negli anni Cinquanta, per un breve periodo, sotto l’influenza di Althusser, Foucault aveva aderito al Partito Comunista Francese, un partito rigido e pienamente stalinista.
Il surrealismo si era smarcato dalle promesse del socialismo reale, senza buttare alle ortiche il marxismo e la speranza della rivoluzione. Blanchot, ad esempio, credeva che la rivoluzione marxista, la socializzazione dei mezzi di produzione, fosse necessaria, ma che sarebbe stata una premessa alla rivoluzione vera.
Quando la rivoluzione socialista giungerà al suo termine, scrive Blanchot alla fine degli anni Quaranta, l’uomo dovrà affrontare il senso integrale della sua esistenza, la tragica sfida che è lanciata dalla sua totalità. Una volta risolto il problema del fardello economico, l’uomo potrà finalmente cercare la sua vera autenticità, la sua libertà, libertà che non si trova immediatamente nella socializzazione dei mezzi di produzione eccetera o nei bisogni materiali, o nei fini utilitaristici, o nel lavoro.
Insomma, dice Iofrida, Blanchot si poneva, a suo modo, nell’ambito del marxismo e del movimento comunista. Tuttavia, riteneva insufficienti sia la rivoluzione, sia il comunismo marxista, sia la politica in generale. Nessuna di queste istanze era in grado di risolvere il problema dell’esistenza autentica e totale. La rivoluzione poteva preparare il terreno, ma a completare l’opera ci avrebbe pensato la letteratura.
Nel 1949 Bataille pubblicò La parte maledetta. Nell’ultimo capitolo, dedicato al Piano Marshall, una lucidissima analisi geopolitica della situazione all’epoca dell’inizio della guerra Fredda, viene innestata sul tema surrealista dell’esistenza autentica e totale. L’Unione Sovietica non era certamente il luogo dove il progetto surrealista potesse avere speranza di realizzarsi. Né i pariti comunisti occidentali rappresentavano un’alternativa – soprattutto il PCF e il PCI, ancora pienamente stalinisti, nonostante i vari resoconti negativi sull’URSS, a cominciare da quello mirabile e sofferto di André Gide. L’attenzione era soltanto per l’Occidente. Nel piano Marshall Bataille vedeva l’avverarsi del Grande spreco, e nel grande spreco la fine del principio fondamentale del capitalismo, quello del profitto, del reinvestimento e della crescita. Tutto ciò avrebbe condotto ad una situazione in cui gli uomini, liberati dal fardello economico, avrebbero potuto, come prospettava Blanchot, dedicarsi interamente alla pura interiorità, sottraendosi alla tirannia del fine e dell’oggetto e realizzare il passaggio ad una umanità piena e total – in una sintonia involontaria con Keynes (Prospettive economiche per i nostri nipoti).
Non vi è dubbio, dice Iofrida, che in questa posizione di Bataille vi sia una dose di ironia (e auto-ironia): ci si schiera con l’occidente capitalistico proprio per esprimere una più convinta radicalità e un forte anticapitalismo.
Baipassando Sartre (Les temps Modernes) e i vari Partiti comunisti occidentali, Bataille lega la sua critica alla borghesia alle grandi culture della décadence e alle avanguardie di fine Ottocento, ritenendole più radicali del socialismo marxista (riformista e positivista). Le avanguardie non avevano mai creduto che la rivoluzione dei rapporti di produzione potesse risolvere i problemi umani, puntando, invece, su una trasformazione di sé stessi. La rivoluzione passava attraversa un cambiamento interiore.
Questo quadro, comune ad un’ala estrema della cultura francese, si farà sentire fino alla fine degli anni Sessanta, e farà da sfondo al lavoro filosofico di Foucault, almeno fino al 1968. Si tratta di un radicalismo eversivo, molto più estremo di quello di altri gruppi contemporanei (Marxismo ortodosso del PCF, trotskismo, antistalinismo di Socialisme ou Barbarie, eccetera).
In Storia della follia (1961) verranno ripresi questi temi romantici filtrati attraverso il surrealismo, sui quali si innesterà una tematica kantiana.
Tra le due guerre, dice Iofrida, il surrealismo, le avanguardia artistiche, l’esistenzialismo, avevano dato molto rilievo al tema della follia. Antonin Artaud, in particolare, aveva fatto da ponte tra gli anni Trenta e il dopoguerra, incarnando in modo esemplare la figura dell’artista folle. A ciò va aggiunta la crisi del modello sartriano dell’intellettuale engagé (impegnato).
Per chi aveva venti anni subito dopo la guerra mondiale, scrive Foucault (Colloqui con Foucault, Trombadori, Salerno), cosa mai poteva rappresentare la politica quando si trattava di scegliere tra l’America di Truman e l’URSS di Stalin? O tra la vecchia SFIO francese, o la Democrazia Cristiana eccetera…? Molti giovani intellettuali, e io tra questi, giudicavano poi intollerabile un avvenire professionale di tipo “borghese”, da professore, giornalista, scrittore, o altro. La stessa esperienza della guerra, ci aveva dato la necessità, e l’urgenza, di realizzare una società radicalmente diversa.
In questo clima, dice Iofrida, il baricentro si sposta dai temi filosofici e politici più canonici, dalle classi, in genere considerate portatrici di una istanza di rinnovamento, agli emarginati, ai diversi. In sostanza, era la crisi del comunismo come alternativa al capitalismo che questi giovani vivevano. L’idea che all’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione sarebbe seguita la libertà si era rivelata una illusione pericolosa: aveva dato luogo allo stalinismo. È abbastanza evidente, dice Iofrida, che il surrealismo, la letteratura eccetera, si prestavano a surrogare questa mancanza politica. Non a rappresentare una fuga nel sogno o uno spostamento nel piano dell’irrealtà, ma a costituire uno strumento vero di una nuova rivoluzione, che non potrà avvenire nelle forme tradizionali – partiti, la democrazia parlamentare, l’economia – ma attraverso un mutamento interiore, una radicale trasformazione di sé che si riversa nel mondo e lo rivoluziona.
La figura del folle acquisisce un significato completamente nuovo. Nel folle si concentra tutta la spoliazione e l’alienazione. È nel folle, e non nel proletario, che si trova il soggetto rivoluzionario. È a partire dalla follia che la società borghese potrà essere scardinata per dar luogo ad un mondo di piena libertà.
Il nocciolo di Storia della follia, dice Iofrida, è attinto dalla Nascita della tragedia di Nietzsche. È la perdita del nesso tragico fra dionisiaco (sragione-follia) e apollineo (ragione, normalità) a determinare l’inabissarsi storico e la repressione della follia. Il fatto è che ragione, logos, discorso, si sono separati dal dionisiaco, dall’aorgico, scindendo il nesso della totalità infinita e tragica in cui risiede la vera essenza del mondo e dell’essere. La Storia della follia si rivela subito come un progetto metafisico di ampia portata. È la storia della repressione che ogni civiltà e la storia in generale operano sull’essenza non storica e vitale del mondo, su un’origine e un fondamento primordiali.
Il Nietzsche di Nascita della tragedia, continua Iofrida, si sposa bene con l’ontologismo di Heidegger, come testimonia un testo di Foucault, scritto immediatamente dopo la Storia della follia: Introduzione all’Antropologia del punto di vista pragmatico di Kant.
Con la creazione del manicomio – Storia della follia, cap. Del buon uso della libertà – il folle finalmente viene trattato come un essere umano che merita rispetto e cura. In realtà, avviene qualcosa di ben diverso. Il folle viene identificato con la figura moderna di Uomo, e con la sua caratteristica essenziale, vale a dire la libertà. Libertà legata alla sua razionalità – il riferimento alle Critiche kantiane, dice Iofrida, è qui ovvio.
L’epoca che fa dell’uomo un essere libero (Illuminismo: libertà dal pregiudizio religioso e dal pregiudizio metafisico) fa anche dell’uomo un essere classificato, misurato, trattato alla stregua di un vetrino da laboratorio, ridotto a cosa.
Da dove deriva questo paradosso? Paradosso che si riflette nella manicomio, struttura che vuole guarire il folle, restituirgli la sua essenziale libertà, rinchiudendolo, legandolo con la camicia di forza, sottoponendolo a trattamenti corporei obbligatori (cure), riducendolo infine a un mero oggetto.
Il paradosso risiede nel concetto kantiano di libertà.
La libertà è per Kant l’attributo di un essere essenzialmente razionale, ma la ragione, a cui la libertà è legata, è duplice.
Vi è, da un lato, la ragione della prima Critica. Una ragione che deve limitarsi al buon uso dell’intelletto. Una ragione oggettivante, che sottopone tutto (uomo e natura) a leggi naturali oggettive. Dall’altro lato vi è la ragione della seconda Critica, in cui la ragione è l’attributo di un ente assolutamente libero, di un noumeno.
Questi due poli, dice Iofrida, corrispondono alla natura ibrida dell’uomo, che partecipa con la sua corporeità al mondo fenomenico, ed è dunque oggettivabile, riducibile a cosa, e per il suo aspetto noumenico – morale – al mondo spirituale che non conosce causalità, leggi necessitanti. Questa struttura dicotomica comporta di fatto il restringimento della libertà, il suo incatenamento. La mia libertà non può mai eccedere i limiti di quella ragione (prima Critica) che, se applicata in campo morale, porta a stabilire una natura, un’essenza dell’uomo, che si oggettiva in una serie di valori fissi e ben determinati di moralità dell’uomo. Esiste, dice Iofrida, un modello normativo di uomo razionale, che è poi quello della società borghese e occidentale, e tutti coloro che non ne rispettano i valori non possono che essere delinquenti o malati. Il folle è qualcuno che fa cattivo uso della sua libertà, non rispettando i limiti imposti da quei valori, e con ciò stesso perde la caratteristica di uomo libero, si riduce ad un essere in preda alla necessità della natura ed è suscettibile per questo di essere privato della libertà, in modo tale che, paradossalmente, attraverso la coazione, possa recuperare la libertà perduta. Viene dunque ridotto a caso da classificare, su cui prendere informazione ed eseguire esperimenti. È ridotto a oggetto, tanto da perdere quel limitato diritto di parole che veniva concesso al folle nell’età pre-borghese. Le sue parole, adesso, diventano protocolli oggettivi del medico. Al medico, essere libero della coppia, è affidato l’incarico di condurre alla libertà il malato che ne è privo, con metodi puramente oggettivi ed essenzialmente coattivi. Il malato sarà libero quando avrà soddisfatto i criteri imposti dal medico, che solo può decidere se e quando la ragione del malato è di nuovo conforma ai criteri normali imposti da una ragione oggettivante che decurta la più vera e profonda libertà.
Se con la Ragione, con il Logos, con il Discorso, eccetera, si avvia la repressione della follia; se la storia in generale costituisce una repressione dell’essenza non storica e vitale del mondo, di un’origine e un fondamento primordiali, con quale linguaggio e con quali concetti si potrà scrivere una storia della follia? – obiezione di Derrida. Come scrivere una storia di ciò che è, per sua natura, non storico, anteriore e refrattario, logicamente ed empiricamente, a ogni storia? Come far parlare la follia, altrimenti che nel linguaggio della ragione?
Foucault, dice Iofrida, non dà una risposta coerente a queste domande, anche se è consapevole della loro portata quando propone, ad esempio, un’archeologia del silenzio.
Il dissidio fra Foucault e Derrida, dice Iofrida, può ricondursi alla rispettiva differente lettura dell’Origine della geometria di Husserl e di Heidegger.
Foucault era rimasto fedele al presupposto (romantico) del Fondamento. Al contrario, per Derrida non c’era più luogo per origini, fondamenti e sguardi all’indietro.
La critica radicale dell’origine da parte di Derrida, dice Iofrida, segna una novità che è tipica degli anni Settanta. È il declino delle posizioni neo-romantiche, è il configurarsi di una posizione che sposa un intellettualismo estremo con Heidegger, Nietzsche, Artaud, Bataille e Blanchot – autori cari anche a Foucault, ma che Derrida legge in modo molto diverso. La scissione, la lacerazione della totalità vanno risolutamente accettate come inevitabili e in questa consapevole accettazione risiede, in termini politici, la prospettiva stessa della liberazione: non il ritorno alla voce della follia ridotta al silenzio, non l’oblio e la nostalgia delle origini, ma l’avvento, in una prospettiva nettamente sbilanciata verso il futuro, di un messianico senza messia (spettri di Marx).
Il tema dell’origine e dell’essere, del fondamento eccetera, viene piagato al colpo di dadi nicciano-mallarméiano, in un cortocircuito tra Nietzsche e Heidegger.