Lukács ha scritto un libro (molto vasto) sul giovane Hegel. Si tratta di un libro di storia della filosofia, composto secondo lo stile marxista. Un tale tentativo, dice Hyppolite (Alienazione e Oggettivazione: a proposito del libro di Lukács sul giovane Hegel), è destinato al fallimento. Non si può ridurre la filosofia a ideologia, e spiegare tutto in base a criteri economici o sociali. Si tratta di un difetto già presente in Hegel – dice Hyppolite. Pretendere di ordinare la filosofia cronologicamente e filosoficamente, facendo di ogni stadio precedente una tappa dello sviluppo successivo, tale che ogni stadio successivo sussuma, superi, inglobi, lo stadio precedente, presentandosi come momento superiore, è un errore che in uno schema marxista diventa ancora più grave. Scontato questo difetto, dice Hyppolite, bisogna riconoscere che il libro di Lukács è di grande interesse.
Hegel aveva una passione fuori misura per i temi economici e sociali (sociologici! – il System der Sittlichkeit, scritto nel 1802-3, è a tutti gli effetti un trattato di ciò che, qualche anno dopo, a partire da Comte, si chiamerà sociologia). Attribuiva una grande importanza all’Economia Politica, al Lavoro, alla Ricchezza. Conosceva benissimo il libro di Adam Smith. Si informava su ogni cosa. Riteneva la lettura dei giornali la preghiera mattutina dell’uomo moderno.
Nel System analizza per filo e per segno il Bisogno, lo Strumento, il Lavoro, la Moneta, il Denaro, il Mercato, la Domanda, l’Offerta. Marx, le cui maggiori innovazioni sono legate proprio a questi temi, non poteva conoscere questo testo, pubblicato solo nel 1893.
Nello Strumento, scrive Hegel (System, 44), il soggetto crea un medio tra sé e l’oggetto. Questo medio è la razionalità reale del lavoro. Nello strumento il soggetto si separa dal suo ottundersi e dall’oggettività. Allo stesso tempo il suo lavoro cessa di essere qualcosa di singolo. Nello strumento la soggettività del lavoro è elevata a un universale. Ognuno può imitarlo e altrettanto lavorarlo.
Seguendo il bisogno, la brama, il desiderio, si affaccia il valore d’uso, analizzato con una sottigliezza ignota ad Adam Smith (e a Marx, che su questo punto segue Smith).
Come qui il soggetto, e il suo lavoro, si determina, altrettanto si determina il prodotto del lavoro, esso è singolarizzato. Diventa per il soggetto la quantità pura (System, 52).
Ma come è possibile questa mutazione, visto che il prodotto del lavoro è, rispetto al bisogno, qualitativamente determinato?
Il prodotto del lavoro diventa pura quantità perché la sua quantità, dice Hegel, non è in rapporto con la totalità dei bisogni del singolo, ma li oltrepassa, è quantità in generale e nell’astrazione. Il suo possesso ha perso il suo significato nel sentimento pratico del soggetto, per il quale non è più il bisogno, ma un’eccedenza. La sua relazione con l’uso è perciò universale. Questa universalità è pensata nella sua generalità – e ciò collima con l’uso da parte di altri.
L’oggetto generico è l’oggetto sociale (del genere).
Essendo per sé un’astrazione del bisogno in generale, allora è una possibilità universale dell’uso, non di quello determinato che esprime – dice Hegel.
Un singolo bene non consumato, o non consumabile, tenuto, perché ci si è trattenuti dal divorare, dal mangiare, si apre alla possibilità generale (d’uso). Il diventare generico – sociale – del bene passa per un trattenimento. La genericità (la socialità) è pura possibilità.
La genericità (la società) non è realtà effettiva. Non si presenta come realtà effettiva, come stato adamitico che il valore-sopraggiunto spezzerebbe. Al contrario. Il trattenimento apre la possibilità alla genericità e dunque alla società effettiva. Senza questa genericità – senza valore (d’uso) – non si dà alcuna possibilità di socialità. Ma la generalità è possibilità. Il legame sociale nasce dalla possibilità. E la possibilità dal trattenimento. La possibilità è idealità – valore.
Il valore d’uso, in quanto possibilità, è già da subito – nella possibilità – valore di scambio.
Hegel dice che tutto ciò deriva da una eccedenza. Si potrebbe far arretrare la comparsa del valore (d’uso), e dire che ogni seme, per il fatto stesso di essere seminato, che ogni solco, per il fatto stesso di essere scavato, che ogni segno, per il fatto stesso di essere profferito o tracciato, è già valore (di scambio). Un segno (seme) deve essere comprensibile (scambiabile) a prescindere da un destinatario effettivo. Il segno è tale se funziona anche in assenza di un destinatario reale o effettivo. (Husserl). Ma come è possibile computare le possibilità del possibile, se si fa conto solo a partire dal possibile? Conto impossibile. Origine impossibile del possibile.
Con il lavoro eccedente, in cui un bene non viene elaborato per il proprio uso, e dunque il bene non viene consumato e il lavoro non viene annullato nel godimento immediato (divorare), inizia il godimento giuridico (56).
Che cos’è il giuridico (la proprietà, il possesso)?
È la pura infinitezza del diritto, la sua indivisibilità, riflessa nella cosa, nel particolare stesso. È l’uguaglianza di una cosa con un’altra. L’astrazione di questa uguaglianza di una cosa con un’altra, dice Hegel, l’unità concreta e il diritto, è il valore, o piuttosto il valore stesso è l’uguaglianza in quanto astrazione, la misura ideale. La misura realmente ritrovata – empirica – è però il prezzo.
Nel superamento della relazione individuale, dice Hegel (56), resta a) il diritto, b) il diritto che nella sua determinatezza compare nella forma dell’uguaglianza, ovvero il valore. Tuttavia, l’oggetto, posto nella relazione individuale, perde questa relazione, e al suo posto subentra un altro oggetto che è in relazione con l’appetito (la concupiscenza), subentra qualcosa di realmente determinato.
Posta nell’indifferenza, l’eccedenza, come universale e possibilità di ogni bisogno, è il denaro. Allo stesso modo il lavoro diretto all’eccedenza è meccanico, uniforme, in quanto è rivolto alla possibilità della permuta generale e all’acquisizione di tutte le cose necessarie. Produce eccedenza, avvero quantità in generale e nell’astrazione.
La relazione del possibile (valore) con l’effettivo (uso) è impossibile, non numerabile, non contabilizzabile, e contabilizzabile perché non contabilizzabile. Hegel (Derrida, Glas) non smette di denunciare gli ebrei perché comprendono l’unità di possibile e effettivo in termini di uguaglianza numerica. Non c’è reciprocità (= uguaglianza) senza Legge, ma la legge, per l’ebreo, non può essere contabilizzata. Se l’Ebreo accusa Gesù di bestemmiare quando dice che il padre suo è entrato in lui è perché non comprende né il finito né l’infinito, né il misurato né l’immenso, né la parte né il tutto. Più precisamente quanto non comprende non è né questo né quello, è la commensurabilità o il passaggio tra i due, la presenza dell’immenso nel determinato, la bellezza e l’immanenza dell’infinito nel finito. Il legame con il padre è incalcolabile. L’essere, l’essenza (wesen) di Gesù, dal momento che lo unisce al padre suo «può essere afferrata nella verità solo attraverso il glauben»; il glauben, l’atto di fede, possiede qui una forza ontologica infinita.
Quando si dice «la x è» si dice «la x è negata». La x non è, in quanto la si pone (tesi). Questa è la tesi hegeliana: la filosofia, e porsi il porsi della morte [Nella tesi la negazione pone l’essere]. L’Aufhebung è l’ammortamento della morte. [Ammortamento = partecipazione alla produzione del bene capitale – il lavoro morto vivificato dal lavoro vivo – Aufhebung]. L’idealità – produzione dell’Aufhebung – è dunque un «concetto» onto-economico.
I soggetti, dice Derrida (Glas), devono accettare di poter subire una ferita, una lesione infinita. L’oltraggio, l’offesa, la violenza, la collisione, non si compie che con la morte.
Il soggetto pone il desiderio rischiando la morte.
Violenza totale e reale: il linguaggio vi è sicuramente implicato, ma non ci si accontenta delle parole. La guerra non è condotta a colpi di significanti linguistici. Forse di nomi: ma i nomi propri sono significanti linguistici?
La lotta per il riconoscimento si consuma tra corpi, ma anche tra forze economiche, beni, possessi reali (Derrida, Glas). L’elemento linguistico implica una idealità che non può che essere l’effetto della distruzione delle singolarità empiriche, un effetto e non un mezzo della lotta. Nella guerra pratica tra forze singole, le lesioni devono comportare espropriazioni effettive. Il campo del verbo non è sufficiente.
L’idealismo linguistico, il linguisticismo, possono sempre risorgere, dice Derrida – la tentazione è troppo grande – per edulcorare e cicatrizzare la lesione, per far dimenticare che il mezzo della carneficina non è ideale ma «effettivo».
Essi devono ledersi l’un l’altro. La violenza è necessaria. Senza violenza non si dà coscienza, nessun desiderio – nessun rapporto con l’altro potrebbe porsi.
L’azione etica, dice Derrida, comporta necessariamente il crimine, è morale in forza dell’omicidio.
Per essere conosciuti si deve passare attraverso la negazione – la conoscenza passa sempre attraverso la negazione della mera naturalità, o individualità infinita e muta.
Tutta una predicazione moderna sale in cattedra per condannare la rimozione – dice Derrida.
«La rimozione: è male» Chi parla di cosa?
Anche Hegel condanna la «rimozione»: in nome della libertà della coscienza spirituale, ecc. Ma – per la stessa ragione – prescrive la «rimozione» della spinta animale, che rende possibile la liberazione spiritualizzante.
La rimozione – qui il rilevamento – non è da una parte o dall’altra, a sinistra o a destra: essa «è» il rapporto tra questi due contagi, due registri, due operazioni di simile economia. [La rimozione – il rilevamento, l’aufhebung, precede il conteggio di valore, il valore si valorizza a partire dalla rimozione].
La rimozione proibitrice introduce solo una flessione di eterogeneità in più? Oppure un’eterogeneità che non si lascia più internare in una riflessione?
II
L’animale, dice Hegel, non lavora, divora, non pensa perché non lavora – mangia, si sazia, scoreggia, caca. Il piacere, che non è desiderio, si consuma consumando la cosa.
L’uomo pensa, perché risparmia, accumula un’eccedenza, capitalizza. L’idealità conservatrice risparmia il desiderato – (Derrida, Glas). Il desiderio umano è lavoro. In se stesso. Questo riguarda l’inibizione che lo struttura nel modo più interiore e più essenziale possibile.
Hegel, dice Derrida, deve descrivere – simultaneamente – l’emergere del desiderio umano e l’emergere della relazione pratica.
La teoria hegeliana del desiderio, dice Derrida (n.14 Il pozzo e la piramide), è la teoria della contraddizione tra la teoria e il desiderio. La teoria è la morte del desiderio, la morte nel desiderio, se non il desiderio della morte. Tutta l’Introduzione all’Estetica dimostra questa contraddizione tra il desiderio (begierde), che spinge al consumo, e «l’interesse teorico», che lascia essere le cose nella loro libertà.
Il tatto ha a che fare solo con la resistenza dell’individualità sensibile e materiale come tale. Il gusto dissocia e consuma l’oggetto. Mentre l’odorato lo lascia volatilizzare. «La vista – dice Hegel (Estetica) – ha invece con gli oggetti un rapporto puramente teoretico, per mezzo della luce, questa materia per così dire immateriale, che da parte sua lascia appunto gli oggetti sussistere liberi per sé, li fa vedere e apparire, ma non li consuma praticamente, come fanno l’aria e il fuoco, in modo inavvertibile o palese. Alla vista priva di desiderio si offre tutto ciò che esiste materialmente nello spazio in esteriorità reciproca, ma che, rimanendo intatto nella sua integrità, si palesa nella sua forma o colore».
Tuttavia, dice Derrida (Il pozzo e la piramide, 133), in Hegel, se la vista è ideale, l’udito lo è ancora di più. Esso rileva la vista. Malgrado l’idealità della luce e dello sguardo, gli oggetti percepiti dall’occhio, per esempio le opere d’arte plastiche, persistono al di là della percezione nella loro esistenza sensibile, esterna, ostinata; essi resistono alla Aufhebung, non si lasciano assolutamente rilevare, in quanto tali, dall’interiorità temporale. Essi frenano il lavoro della dialettica. È il caso delle opere plastiche, commenta Derrida, come lo sarà anche, si ha il sospetto, della scrittura come tale. Ma non della musica e della parola. L’udito è il senso più sublime: «Esso appartiene, come la vista, non ai sensi teorici e non a quelli pratici, ed è, anzi, ancora più ideale della vista. Infatti la contemplazione quieta, senza desiderio (begierdelose), di opere d’arte lascia sì sussistere in quiete gli oggetti per sé, come esistono, senza volerli annullare, ma quel che essa coglie non è ciò che è in se stesso idealmente posto, bensì, al contrario, quel che si è mantenuto nella propria esistenza sensibile. L’orecchio, invece, senza volgersi praticamente verso gli oggetti, percepisce il risultato di quella interna vibrazione del corpo, con cui viene ad apparire non più la quieta forma materiale, ma la prima e più ideale sfera dell’anima. Una tale superiorità rilevante, spirituale e ideale della fonia fa sì che ogni linguaggio spaziale – e in generale ogni spaziamento – resti inferiore ed esterno.
III
Non esiste lavoro animale. La prassi è umana. Il desiderio non è mai soddisfatto: è qui la sua struttura pratica. La prassi non è la teoria sommata alla pratica, non è il soggetto più l’oggetto, non è il passaggio dall’interpretazione alla trasformazione del mondo (ammesso e non concesso che l’interpretazione possa non essere prassi). Qui sono racchiuse tutte le difficoltà di comprensione di Hegel, dice Derrida. Non c’è in Hegel un passare dalle parole ai fatti – le parole sono immediatamente fatti e i fatti sono parole (come in una teoria degli Speech Act ante-litteram). «Nella sua operazione di annientamento, il desiderio non giunge mai al proprio soddisfacimento». Il suo oggetto rimane, non perché sfugge all’annientamento, mantenendosi, fuori portata, ma perché rimane nel suo annientamento: Aufhebung. Rimane in quanto non rimane. Operazione del lutto: consumazione idealizzante – ammortamento economico.
L’Aufhebung, dice Derrida (Glas), è la storia, il divenire della sua propria rappresentazione, della sua propria determinazione differenziante, ed è sottomessa alla legge, alla stessa legge di ciò di cui è legge: ecco cosa imprime al sistema hegeliano una forma piuttosto contorta e difficilmente afferrabile.
In che modo il desiderio diviene lavoro?
La coscienza pratica elabora nel luogo in cui annienta, e tiene insieme i due opposti della contraddizione. In questo senso il lavoro è il mezzo (il medium) [il termine medio del sillogismo] dell’opposizione intrinseca al desiderio.
È l’origine dello strumento, l’oggetto (produttore e prodotto) di lavoro. «Il lavoro è esso stesso una cosa (Ding). Lo strumento è il mezzo esistente e razionale, l’universalità esistente del processo pratico».
Non mangio, dunque penso (mangio, non penso). L’eccedenza non mangiata è elaborata, pensata, capitalizzata. Il lavoro rileva (si appropria) la cosa non consumata, l’eccedenza, e la elabora, la modifica, la trasforma: l’oggetto desiderato diventa oggetto elevato a universale.
Il prodotto del lavoro diventa pura quantità perché la sua quantità, dice Hegel, non è in rapporto con la totalità dei bisogni, ma li oltrepassa, è quantità in generale e nell’astrazione. Il suo possesso ha perso il suo significato nel sentimento pratico del soggetto, per il quale non è più il bisogno, ma un’eccedenza. La sua relazione con l’uso è perciò universale. Questa universalità è pensata nella sua generalità – e ciò collima con l’uso da parte di altri.
Lo strumento è un’universalità esistente. Universalità concreta. La generalità dell’utensile impedisce al lavoro di esaurirsi nei singoli atti di una soggettività empirica. Senza l’oggettività universale dello strumento, il lavoro sarebbe un’esperienza unilaterale. Si distruggerebbe e precipiterebbe nella molteplicità inafferrabile dei gesti. Lo strumento salvaguardia il lavoro dall’auto-distruzione. Lo strumento è il resto del lavoro che entra nella tradizione – la storia pratica.
Al contrario, in quanto singoli ed empirici, il desiderio e il lavoro scompaiono insieme ai loro oggetti. Si desidera, si consuma, si lavora. Tutto avviene e tutto muore.
La tradizione (dice Hegel) è ciò che resiste a simile perdita, costituisce l’idealità mantenuta. Ciò che rimane (il resto) non è l’oggetto finito ed elaborato, ma è lo strumento di lavoro, il quale, a causa della sua struttura di generalità, può ancora servire. Esso è dotato di un’identità ideale, riproducibile, perfettibile, dà luogo all’accumulazione, ecc.
L’utensile resiste alla consumazione, assicura la tradizione e nello stesso tempo agisce come costrizione esterna. Da qui l’idea (che ribalta questo schema) di una consumazione senza resto, di un dispendio assoluto, come contro-accumulazione anti-capitalista.
Inibizione del piacere – aufhebung –; inibizione che rileva il piacere per non distruggere l’altro [sublimazione], per non consumare sé e l’altro – non-godimento e impotenza essenziali: è quanto Hegel chiama amore.
Anche questa assimilazione senza avanzi si paga [come?].
Un amore senza resti vieta l’accesso alla religione. La religione si lega sempre a un oggetto. Consumato senza resto l’oggetto mistico [e mistico perché c’è accoppiamento con un’entità trascendente] torna a essere soggettivo, ma cessa di essere un oggetto di adorazione religiosa. Una volta dentro, pane e vino sono senza dubbio soggettivati, ma ridiventano subito pane e vino, nutrimento digerito, di nuovo naturalizzato. Perdono le loro qualità divine [non sono più semi-trascendenti].
IV
La Fenomenologia di Hegel, dice Hyppolite, con la sua concezione della negatività, del lavoro umano che trasforma la natura umanizzandola; che eleva l’uomo dall’individuale all’universale, dandogli il senso dei rapporti collettivi e della resistenza della realtà effettiva, pone i temi che Marx approfondisce unendo filosofia ed economia politica, in vista di una nuova passi che concili le scienze speculative con il divenire storico.
Era importante ricordare queste relazioni di Marx con Hegel, dice Hyppolite, perché il libro di Lukács sul giovane Hegel si ispira continuamente all’opera giovanile di Marx. Più precisamente, dice Hyppolite, si confronta con tre temi: 1) lo stato socio-politico dell’epoca, 2) la scienza economica, 3) la filosofia hegeliana.
Lukács vuole mostrare come la filosofia di Hegel sia legata al capitalismo in ascesa in Inghilterra e in Francia. Nonostante il successo, Hegel mostra anche le contraddizioni di questo mondo nuovo. Hegel, dice Hyppolite, si ispira spesso a Adam Smith. La divisione del lavoro e la mano invisibile, sono progetti individuali che si attualizzano in un complesso e divengono un progetto nuovo, pieno di senso, e tuttavia non voluto come tale dagli individui.
A partire da queste considerazioni liberali, Hegel, dice Hyppolite, si sforza di rinnovare la dialettica, raggiungendo, secondo Lukács, un triplice risultato:
1) fornisce un quadro impressionante e lucido della nascente industria capitalistica;
2) produce una visione profetica delle contraddizioni di questa società, in particolare dell’alienazione;
3) evidenzia l’impossibilità in cui si trova il capitalismo a risolvere le sue contraddizioni.
Hegel non si accontenta di riprendere il sistema di Smith. Anche perché il sistema liberale di Smith rimanda a Hume, per il quale gli universali sono luoghi comuni. E la realtà economica effettiva non contiene, né da essa potrebbero essere ricavate, le determinazioni di necessità e universalità, per Hegel il senso comune che emerge dalla collisione degli interessi individuali rappresenta solo un pretesto, e la generalità non si raggiunge mai affidandosi alla mano invisibile.
Hegel, dice Hyppolite, non si accontenta di seguire Smith, o di sommare all’economia politica una filosofia della prassi. Riflette sull’alienazione, sul passaggio dall’individuo singolo alla sua forma universale. Esteriorizzandosi, oggettivandosi nel mondo, come dice Hegel (e si tratta del mondo degli altri, il mondo altrui, attraverso il quale solo, ci arriva la natura, perché il minimo strumento materiale suggerisce l’Altro, e senza dubbio, anche l’idea stessa di una natura in sé lo suggerisce), la coscienza singola si aliena, si fa altro: oggettivazione nel mondo e alienazione di sé, ecco, dice Hyppolite, i due grandi momenti della dialettica di Hegel.
L’alienazione – contraddizione tra sé e sé, sdoppiamento. Anzi, differimento – per Hegel si manifesta nel mondo attraverso contraddizioni economiche, contraddizioni che presentano un quadro diverso da quello armonico proposto dai liberali. Nonostante ciò, dice Hyppolite, Hegel non segue i reazionari romantici, i quali predicavano il ritorno di un nuovo medioevo, supera anche le analisi degli economisti e dei socialisti che devono ancora venire.
Mentre in Smith la mano invisibile compone gli interessi individuali (l’egoismo del singolo) realizzando l’armonia universale, in Hegel il risultato della divisione del lavoro, seppur positivo, in quanto l’individuo non dipende più dalla natura, è negativo, in quanto adesso l’individuo dipende dalla società che agisce su di lui come una forza cieca.
All’ambiente naturale si è sostituito l’ambiente sociale, alla mano di Dio, la mano invisibile. La società è opera comune, azione di tutti e di ciascuno. È la cosa stessa. Ma l’individuo è diventato, in questa cosa, estraneo a se stesso. È alienato. Questa alienazione, per Hegel, fa tutt’uno con l’oggettivazione. L’esteriorizzazione dell’uomo nel lavoro, dice Hyppolite, permetterà a Hegel di porre il problema umano in tutta la sua ampiezza.
Nell’analisi del lavoro Hegel si spingerà molto più in là di Smith.
Indotto ad aumentare le ore di lavoro l’individuo si troverà di fatto sempre più povero. Il lavoro, dice Hegel – annunciando con ciò la legge bronzea – è una merce che vale sempre di meno. In più, dice Hegel, il lavoro, per il suo carattere astratto, diventa sempre più meccanico e assurdo. La macchina sostituisce lo strumento, ingannando la natura. Ma questo inganno si rivolta contro il singolo, trasformando il lavoro intelligente e completo in un lavoro cieco e parziale, formale e inumano – dice Hegel. L’umanizzazione della natura ha come conseguenza la disumanizzazione del lavoratore. La produzione spinge sempre più verso la ricerca incessante di altre macchine e di altri sbocchi, e tutto ciò senza fine.
Hegel scrive nel 1803. I toni non sono molto diversi da quelli che userà Marx.
La grande massa dei lavoratori, attratta verso l’industria, finisce per essere spinta verso la povertà. Allora sulla scena del mondo sorge l’opposizione tra la grande ricchezza e la grande povertà.
Con la divisione del lavoro nessun singolo è nella condizione di provvedere per se stesso alla totalità dei bisogni (System, 126).
Il lavoro, capace di soddisfare la totalità dei bisogni, non assicura più questa soddisfazione. La completa soddisfazione è ancora garantita dal lavoro, ma ciò che concretamente si verifica è indipendente dal lavoratore ed è mutevole. Non c’è alcuna certezza che l’offerta incontri la domanda. In più, il prodotto del lavoro è ora tutto e soltanto eccedenza. Se la divisione del lavoro mi assegna la produzione di spilli e di nient’altro, tutta la produzione è eccedenza, eccedenza eventualmente valorizzata da una domanda potenziale.
Il valore della produzione, dice Hegel, quello che esprime la relazione dell’eccedenza e del bisogno, è indipendente dal produttore di spilli, in più è mutevole. Nulla è certo. Men che meno la soddisfazione dei bisogni basici. Il valore del singolo dipende dalla totalità dei bisogni e dalla totalità delle eccedenze. E questa totalità (System, 126) è un potere poco riconoscibile, non visibile, imprevedibile per il fatto che è in relazione con la quantità. È una somma infinita di tante singolarità in relazione con la qualità composta di tante qualità, infinite.
L’influenza reciproca del singolo sul tutto e del tutto sul singolo è una fluttuazione continua che sale e scende. Ogni singolo genere di eccedenza, dice Hegel, è nel tutto indifferenziato. Con questa assunzione nel tutto commisurato al tutto del bisogno universale viene assegnato al singolo il suo posto e il suo valore. Il singolo non è in grado di determinare il valore tanto della sua eccedenza quanto del suo bisogno; non è in grado di mantenerlo indipendente, al di fuori del rapporto con il tutto rimanente, come qualcosa di stabile e sicuro.
In questo sistema, dice Hegel (System, 127), ciò che governa sembra essere la totalità dei bisogni, priva di coscienza, cieca, e del modo dei loro appagamenti. Ma di un tale destino, privo di coscienza, cieco, deve potersi impadronire l’universale e diventare governo. Altrimenti, dice Hegel, la possibilità che ci si possa nutrire diventa aleatoria. Per sé l’equilibrio economico naturale si mantiene con oscillazioni piccole e grandi. In quest’ultimo caso il governo deve adoperarsi contro la natura, la quale provoca un tale movimento per mezzo di eventi accidentali, empirici. La diminuzione del valore di un bene prodotto in eccedenza, rende incapace il singolo lavoratore di supplire alla totalità del bisogno. Poiché, dice Hegel, una parte del popolo, ponendo la sua fiducia nell’universale, ha legato a questa capacità la sua esistenza, ora questa incapacità distrugge e compromette la fiducia. A questo punto deve intervenire il governo. Esso detiene il potere. Il governo è il tutto reale indifferente nei confronti delle parti, e dunque del tutto indifferente nei confronti dei singoli generi di beni in eccedenza. È un potere che è indifferente alle eccedenze, ma che non è indifferente all’esistenza dei lavoratori che producono queste eccedenze.
Il cittadino, dice Hyppolite, si pensa come genere e come libertà più nello Stato che non nella moneta – universale collettivo diventato cosa. La fiducia riposta nella moneta viene minata dall’incapacità di questo universale di mediare positivamente eccedenze e bisogni. Nella moneta, come nel linguaggio e nell’opera, l’uomo continua ad alienarsi. Proprio questa alienazione è il problema principale di Hegel, la chiave della futura Fenomenologia.
Come superare l’alienazione?
V
La parte più interessante del libro di Lukács – dice Hyppolite – è senza dubbio quella in cui analizza la critica che il giovane Marx conduce ad Hegel.
Secondo Marx, Hegel avrebbe confuso [questo tema si trova in Mazzetti] oggettivazione (o, se si vuole, esteriorizzazione dell’uomo nella natura e nel mondo sociale) e alienazione. Tale confusione servirebbe a spiegare tanto l’insufficienza dell’analisi sociale di Hegel, quanto la sua incapacità ad arrivare a una soluzione effettiva dei problemi intravisti. Hegel ci innalza fino al cielo speculativo, ma ci lascia vivere nelle capanne della realtà (Kierkegaard).
Il pensiero di Hegel, sostiene Lukács, è una presa per i fondelli, quando pretende di sormontare ogni alienazione con il sapere assoluto del filosofo.
La critica di Lukács è talmente interessante – dice Hyppolite – che vale la pena seguirla passo passo.
L’oggettivazione è il processo con cui l’uomo si fa cosa, si esprime o si esteriorizza nella natura per mezzo del lavoro e dell’operare. L’alienazione è il processo con cui l’uomo, così esteriorizzato, si scopre diventato estraneo a se stesso, si trova nella propria opera come altro-da-sé, o piuttosto non ritrova più se stesso, non può riconoscersi. Il non riconoscimento di se stessi nel sé esteriorizzato è la grande infelicità dell’uomo. L’individuo non si riconosce né nella propria opera né negli altri. L’opera non funziona come medio, dunque l’individuo non può pensarsi come genere, ma solo come individuo sperduto, schiacciato dalle stesse cose che è riuscito a costruire con le sue stesse mani. Questa è la coscienza infelice che, secondo Marx, Hegel non è riuscito a superare, se non con la filosofia.
Secondo Marx (Hyppolite), l’oggettivazione non è un male. Rappresenta il solo mezzo per unire l’uomo alla natura. L’uomo non consuma la cosa, non la distrugge, la lavora, la segna, la solleva, la universalizza. Questo universale concreto e generico, posto come eccedenza, apre lo scambio, apre la società. L’uomo trasforma la natura e ne fa l’espressione dell’umano. In questa trasformazione, l’uomo naturale (il singolo, il signor nessuno), si universalizza, si innalza propriamente al genere (come aveva ben visto Hegel).
Nel sistema di Hegel il lavoro ha un ruolo centrale. Senza lavoro non si dà Io penso. Di più. Senza lavoro non c’è umano vero e proprio. Prima (prima non c’è storia, prima del lavoro non c’è tempo,) prima del lavoro non c’è separazione. Non ci sono da una parte l’uomo e dall’altra la natura come materia prima, oggetto da lavorare, eccetera. La separazione e il lavoro sono contemporanei.
Senza esteriorizzazione non si dà possibilità di pensare. Nella cosa esterna l’individuo si riflette. Ma l’individuo non si dà prima della riflessione: è la riflessione stessa. Idem per la cosa esterna. All’inverso, ogni tentativo di fusione, ogni tentativo di cancellazione dell’oggettivazione, ogni tentativo di rifugiarsi in ciò che si ritiene un’esperienza pura, per assaporarvi il godimento puro della propria singolarità, sarà un vivere piuttosto che pensare (Hyppolite, Logica ed esistenza). Questo vivere spensierato non è il godere che sa di se stesso, ma è l’avanzare e il resistere, il flusso e il riflusso, il riempirsi e lo svuotarsi di una vasca, di un invaso, di una cassetta di scarico. «La natura organica non ha storia; dal suo universale, la vita, si precipita immediatamente nella singolarità dell’esserci» [Hegel, PhG I, 247]. Essa sa che «grigia è ogni teoria e verde l’albero d’oro della vita», disprezza l’intelletto e la scienza, i doni supremi dell’uomo, si consegna allora al diavolo e deve far ritorno al fondamento. Aspirando all’immediato, come Faust, la coscienza aspira, senza neanche saperlo, a dileguare.
Dando al temine Logico il suo senso hegeliano, scrive Hyppolite (Logica ed esistenza), si potrebbe dire che l’esperienza umana, secondo Hegel, non può che essere logica (e d’altra parte lo è anche quando non ne è consapevole). Il puro vissuto, il ritorno alla natura, non significa propriamente niente, e la coscienza è sempre senso, discorso, là dove l’ineffabile è, come limite assoluto, il nulla.
VI
Il lavoro è eccedenza, e l’eccedenza è valore, ma sin tanto che il valore rimane fissato in questa sua esteriorità, è misura realmente ritrovata – empirica: è prezzo.
Nel superamento della relazione individuale, dice Hegel (System, 56), resta a) il diritto, b) il diritto che nella sua determinatezza compare nella forma dell’uguaglianza, ovvero il valore. Tuttavia, l’oggetto, posto nella relazione individuale, perde questa relazione, e al suo posto subentra un altro oggetto che è in relazione con l’appetito (la concupiscenza), subentra qualcosa di realmente determinato.
Posta nell’indifferenza, l’eccedenza, come universale e possibilità di ogni bisogno, è il denaro.
Il denaro, unità del corpo significante e dell’idealità significata, diviene una sorta di incarnazione. L’opposizione di anima e corpo, e, analogamente, quella di intelligibile e sensibile, condizionano la differenza tra il significato e il significante. Parola vivente. Carne spirituale (Cfr. qui e oltre Derrida, Il pozzo).
Hegel sapeva che questo corpo proprio e animato del significante era anche una tomba. La tomba [lavoro morto] mette al riparo, tiene in riserva, tesaurizza la vita, marcando che la sua continuità è altrove. Sepolcro di famiglia: oikesis. Della vita, esso consacra la scomparsa attestandone il perseverare.
Il corpo del denaro diviene così il monumento in cui il valore sarà racchiuso, custodito, mantenuto, tenuto in mantenimento (tempo), presente, significato. Nel fondo di questo monumento, il valore-lavoro si conserva vivo, ma non ha bisogno del monumento se non nella misura in cui esso si espone – alla morte – nel suo rapporto vivente col suo proprio corpo.
Il difetto del denaro è un residuo simbolico non riducibile.
Il simbolo (Saussure) ha per carattere di non essere mai completamente arbitrario. Non è vuoto, implica un rudimento di legame naturale tra il significante e il significato. Il simbolo della giustizia, la bilancia, non potrebbe essere sostituito da qualsiasi altra cosa, per esempio un carro. Al contrario, il segno (si suppone) essere arbitrario.
Arbitrarietà del segno vuol dire assenza di ogni rapporto naturale di somiglianza, di partecipazione o di analogia tra il significante e il significato, cioè, in questo caso, fra la rappresentazione (bedeutung) e l’intuizione, o anche fra il rappresentato e il rappresentante della rappresentazione per mezzo di segno. Nel segno lo spirito è libero, nel simbolo esso è un po’ più esiliato nella natura.
Nel denaro lo spirito è esiliato nella natura. Da questo sito d’esilio (esteriorizzazione) vuol comandare sull’uomo. Per essere libero, l’uomo deve sopprimere tutto ciò che vi è di simbolico (di naturale, di spaziale, di tangibile) nel denaro, ma senza sopprimere il denaro.
Da una parte ogni residuo fattuale ricaccia nell’empirismo, e l’empirismo nello scetticismo. La naturalità del simbolo è la condizione della sua polisemia. Nel simbolo – Hegel – la verità è ancora intorbidata e velata dall’elemento sensibile. D’altra parte, non si può eliminare definitivamente il denaro, perché ogni eliminazione dell’universale ri-caccia nella mera natura, e la natura organica non ha storia.
Il significante (denaro) deve cancellarsi, svanire davanti alla Bedeutung, davanti all’idealità significata (al valore-lavoro o al valore-d’equilibrio), pur conservandosi e conservandola; e solamente nel tempo, o piuttosto come il tempo stesso, questo rilevamento può trovare modo di passare. [Tutto grazie all’arbitrarietà – supposta la purezza dell’arbitrarietà. Se non ci fosse arbitrarietà e ci fosse, come nel simbolo, un minimo di legame tra naturale e culturale, lo spazio non potrebbe passare nel tempo senza lasciare un resto, una spoglia – una crisi]. Portando l’interno all’esterno, non ve lo abbandona semplicemente, come una scrittura. Custodendolo all’interno in sé proprio nel momento in cui lo emette all’esterno, la presenza (Dasein) alla rappresentazione interna, essa fa esistere il concetto (il significato). Ma, nello stesso tempo, in quanto interiorizza e temporalizza il Dasein, dato dell’intuizione sensibile-spaziale, il valore eleva l’esistenza stessa, la rileva nella sua verità e opera così una sorta di promozione di presenza. Esso fa passare dall’esistenza sensibile all’esistenza rappresentativa o intellettuale, all’esistenza del concetto.
La soppressione del denaro, o la sua sostituzione con un denaro puro (perfettamente arbitrario), e il suo rimpiazzo con un valore-lavoro o un valore-d’equilibrio, non può avvenire senza esteriorizzazione. Dovrebbero ormai sospettarlo i monetaristi, da sempre alla ricerca – disperata – di una moneta pura.
Il denaro puro è l’elemento semplice e irriducibile, completo, che è portatore, nella segno, dell’unità del valore-uso e del valore di scambio, della domanda e dell’offerta, dell’eccedenza e del bisogno. Grazie ad esso si fa a meno ad un tempo dell’immagine e dell’esistenza sensibili. Ma oggi sappiamo (cfr. Derrida, Il pozzo) che la moneta non ha più la dignità che le si è quasi sempre riconosciuta. Essa è un’unità relativa, ritagliata empiricamente fra unità più grandi o più piccole (Nietzsche). Questo fatto non è solamente un fatto empirico, non è un fatto che si può eliminare, un fatto contingente, è l’esempio di una legge essenziale che limita irriducibilmente la realizzazione di un ideale teleologico.
Il denaro (l’oggettivazione, l’esteriorizzazione) non può essere eliminato se non eliminando anche il valore d’uso – la verità del valore d’uso è la sua soppressione (decrescita felice, ecologismo, anti-consumismo, eccetera).
Fin qui Hegel.
VII
L’oggettivazione non è un male. Al contrario, rappresenta il solo mezzo per unire l’uomo alla natura – dice Marx.
L’uomo trasforma la natura e ne fa l’espressione dell’umano. L’uomo naturale, confinato nei singoli bisogni biologici, si universalizza e si innalza al genere (come in parte, dice Hyppolite, aveva ben visto Hegel). Tutti i suoi bisogni – nutrirsi, vestirsi, ammucchiarsi – non sono più bisogni singoli, sono bisogni umani, sono bisogni mediati. Questa mediazione è necessaria affinché esista l’uomo e la ragione.
Tuttavia, dice Hyppolite, come mai l’uomo esteriorizzato è ancora infelice, perduto ed estraneo alla propria opera? Perché la società non gli appare come l’espressione della sua stessa volontà, ma come una volontà estranea? A questo punto – dice Hyppolite – Hegel e Marx si separano.
Per Hegel l’opera mantiene un residuo irriducibile, questo residuo trascina l’individuo nell’assolutamente empirico, lo manda alla deriva. L’uomo è abbandonato, sperduto, schiacciato dalle cose che è riuscito a costruire con le sue stesse mani. L’opera persiste nella sua esistenza sensibile, esterna, ostinata. L’opera resiste alla Aufhebung, non si lascia assolutamente rilevare, in quanto tale, dall’interiorità temporale. Frena il lavoro della dialettica.
Il valore è la misura ideale. La misura realmente ritrovata – empirica – è il prezzo. Il valore-lavoro, senza volgersi praticamente verso il mercato, oppure il valore-d’equilibrio volgendosi verso il mercato, ma immaginandolo come composto di atomi e non di forze (cfr. la critica di Nietzsche all’atomismo), restituisce il risultato della spazialità rilevata. Una tale superiorità rilevante, spirituale e ideale, del valore, fa sì che ogni valore spaziale (prezzo, moneta, eccetera) – e in generale ogni spaziamento – resti inferiore ed esterno.
Marx, dice Hyppolite, contrariamente ad Hegel, crede di poter mostrare che l’oggettivazione non è un’alienazione altro che all’interno di certe circostanze storiche, che, nate dalla storia, nella storia potranno sparire.
Quando Marx dice che soltanto nella trasformazione del mondo oggettivo l’uomo si mostra come essere generico, non fa altro che prolungare Hegel. L’oggetto del lavoro è l’oggettivazione della vita dell’uomo come essere generico. In questa esteriorizzazione – qui Marx inizia a differenziarsi da Hegel – l’uomo si raddoppia non soltanto nella coscienza, intellettualmente, ma anche attivamente, effettivamente, e si guarda in un mondo da esso creato.
L’uomo progetta la cosa e la realizza. A questo punto dovrebbe essere felice. E invece no. È ancora infelice, in quanto il lavoro viene infuso nell’oggetto creato, e l’oggetto gli viene estorto – alienato – nel sistema capitalistico. L’uomo è infelice non tanto perché l’assoluto non ritorna ancora in sé, ricomponendo la scissione che, avendolo posto fuori di sé, lo aveva gettato alla deriva nella storia (Hegel). È infelice perché il lavoro, dopo aver gettato l’uomo nella storia, ora lo tiene legato a un cippo a faticare per ricreare sempre più potente quel mondo che continua a deprivarlo di ciò che gli appartiene (alienazione), rendendolo sempre più povero (Marx). Non c’è alienazione senza esteriorizzazione (come in Hegel). Ma in Marx l’alienazione non si toglie e supera, per così dire, nella testa, si supera nei fatti. La scissione non si supera con un moto verso l’interno, ma con un moto verso l’esterno.
Nel sistema capitalista, commenta Hyppolite, il lavoratore viene frustrato dal suo prodotto. È spossessato, è alienato. L’oggettivazione appare nei fatti come la perdita di sé – non si tratta solo del sé differito (anche se in Hegel la differenza deve per forza di cose spazializzarsi) – l’oggettivazione appare come la servitù nei confronti dell’oggetto, e l’appropriazione dell’oggetto (da parte del capitalista) appare come una alienazione, come una spoliazione (del lavoratore). La realizzazione del lavoro prende l’aspetto della non-realizzazione, il lavoratore si vede spogliato fino al punto di poter morire di fame. Di più, commenta Hyppolite. Il lavoro stesso diventa un oggetto di cui l’operaio riesce a impadronirsi solo con enormi sforzi e con interruzioni molto irregolari. Il sistema capitalista creato dall’uomo schiaccia l’uomo. Hegel, pur avendo intravisto i caratteri tragici dell’esistenza umana, è stato incapace di spiegarli con un’alienazione storica, con l’avvento del capitalismo, e per questo, continua Hyppolite, fa di tutta l’oggettivazione un’alienazione e di ogni alienazione un’oggettivazione, e il suo sistema si spiega completamente con questa confusione. Hegel non sopprime l’alienazione effettiva.
Il problema di Marx e di Hegel è lo stesso: sopprimere l’infelicità dell’uomo, sopprime l’alienazione.
A cosa conduce la Fenomenologia?
Al sapere assoluto, al trionfo dell’auto-coscienza intellettuale. L’alienazione viene superata nel pensiero e non nei fatti. La speculazione pura non ha risolto un problema storico particolare che può risolversi solo con una rivoluzione storica.
Questa prima illusione di Hegel (l’illusione di risolvere il problema dell’alienazione con il pensiero) ne nasconde un’altra, l’idea che la natura è un’alienazione dello spirito. Qui, secondo Marx, Hegel delira, mette l’universo con la testa in giù. Hegel è portato a considerare ogni oggettivazione, e specialmente la natura bruta e il mondo delle cose, ovvero il mondo esterno all’uomo, come una specie di alienazione. Tutto l’idealismo hegeliano è dunque fondato su uno spirito assoluto la cui natura oggettiva sarebbe l’alienazione.
Infine, dice Hyppolite, Hegel mantiene l’alienazione perfino nella concezione stessa dell’assoluto. Nell’Assoluto non vi è sintesi senza la continua presenza di un’antitesi interiore. Per Marx, al contrario, c’è nella storia una sintesi definitiva, che esclude la permanenza dell’antitesi. È il comunismo: la soluzione dell’enigma della storia, consapevole di essere questa soluzione.
Lukács giustifica Hegel, mostra come Hegel non potesse far altro che rendere eterna una contraddizione, un’alienazione, che incontrava di fatto nella storia del suo tempo. E non trovò le condizioni tecniche per superare questa alienazione perché queste condizioni non erano ancora maturate.
VIII
Hegel ha confuso oggettivazione e alienazione. Questa è la tesi del libro di Lukács. Questa tesi, dice Hyppolite, è una semplificazione del pensiero di Hegel.
Non vi è dubbio, dice Hyppolite, che al centro della filosofia di Hegel c’è il concetto di alienazione. Questo concetto non è riducibile immediatamente al solo concetto di alienazione dell’uomo nel capitale, come lo intende Marx. Questo è solo un caso particolare di un problema più universale, che è quello dell’auto-coscienza umana che, incapace di pensarsi come un cogito separato, si trova solamente nel mondo che edifica. Ma questo modo di trovarsi nell’altro, questa esteriorizzazione, è sempre più o meno un’alienazione, una perdita di sé e nello stesso tempo un ritrovarsi. Esteriorizzazione e alienazione sono inseparabili, e la loro unità non può essere altro che l’espressione di una tensione dialettica che si vede nel movimento stesso della storia. Né si deve credere che Hegel rifiuti la storia. La storia del mondo è il tribunale del mondo – scrive Hegel. Nessuno – dice Hyppolite – si mostra più severo di Hegel verso una interiorità che resti interiorità, senza esteriorizzarsi, verso una legge del cuore che resti ragione del cuore, senza diventare legge sociale oggettiva. Non c’è alcun cogito, alcun soggetto, alcuna ragione, non c’è intelletto, scienza, nemmeno opinione, al di fuori o prima dell’esperienza. L’esperienza umana non può che essere logica (e d’altra parte lo è anche quando non ne è consapevole), e la logica non può che essere esperienza. Tuttavia, nonostante la dialettica, il differimento e lo spaziamento; nonostante non possa darsi alcuna interiorità senza differimento e spaziamento, dunque senza esteriorizzazione e alienazione, nonostante ciò, anzi, proprio a partire da ciò, può essere immaginato e posto un contrario della storia, quasi una libertà negativa, che sarebbe la filosofia della sconfitta di fronte all’epopea della vittoria. Ma questa sconfitta, dice Hyppolite, non è il segno di un altro mondo, è solo il niente e la dissoluzione sempre possibile. È l’anima bella che compare alla fine della Fenomenologia.
Perché appaia il sé umano, dice Hyppolite, è una necessità ineluttabile l’esteriorizzazione, l’impegnarsi in un’azione nel mondo. Azione senza la quale la stessa autocoscienza (umanità dell’uomo) sarebbe impossibile, dato che la riflessione esiste per l’uomo solo come riflessione di sé nel mondo, prima di poter esistere come riflessione separata nelle meditazioni metafisiche di Cartesio. L’esteriorizzazione, e con essa l’alienazione, è dunque necessaria – dice Hyppolite.
Cosa manca all’anima bella che, volendo conservare la sua innocenza, si rifiuta all’impurità dell’atto? «Le manca (Hegel, Fen.) la forza di alienarsi, la forza di ridurre se stessa a una cosa e sopportare di esserlo». Hegel insiste continuamente sulla esigenza dell’esteriorizzazione, ma nella riconciliazione scopre sempre una forma inevitabile di alienazione, un destino che l’uomo deve affrontare e sopportare. Il concetto hegeliano di alienazione, dice Hyppolite, non si confonde, come in Marx, in una sorta di perdita completa di sé in una nuova natura. C’è un problema filosofico dell’alienazione, sempre unito al problema dell’esteriorizzazione, che non potrà sparire con una data trasformazione storica.
La spiegazione marxista di Lukács, che accusa Hegel di aver confuso l’esteriorizzazione che è la felicità dell’uomo e il suo fine ultimo nella natura ritrovata, con un’alienazione di sé che concerne solo un momento particolare dello sviluppo della storia, quello del sistema capitalista, non ci sembra, dice Hyppolite, rendere giustizia all’analisi filosofica di Hegel.