Secondo la definizione, che risale a Bodin, la sovranità è il potere supremo, giuridicamente indipendente e non derivato. Questa definizione, dice Carl Schmitt (Teologia politica), impiega il superlativo «potere supremo» per indicare una grandezza reale, benché nella realtà dominata dalla legge di causalità non possa essere isolato nessun fattore singolo al quale un simile superlativo sia applicabile. Nella realtà politica, dice Schmitt, non esiste un potere supremo, cioè più grande di tutti.
Questa dimostrazione è stata prodotta da Spinoza. Secondo Spinoza (Hegel, Lezioni) il singolare è qualcosa di limitato. Il suo concetto dipende da altro, non esiste per se stesso come qualcosa di vero. Con riguardo a ciò che è determinato, ovvero a ciò che, come dice Schmitt, è una grandezza reale, una forza effettiva, Spinoza stabilisce che «omnis determinatio est negatio». Dunque, è sovrano, ovvero assoluto, solo ciò che non è determinato, singolare. Sovrano è solo ciò che è universale. Solo questo è sostanziale e dunque veramente reale [reale, nel senso dato a questa parola della scolastica]. Al contrario, una forza, un potere, un’istituzione, un’unità territoriale, una burocrazia, eccetera, sono qualcosa di limitato, poiché sono cose singole. Ciò per cui una cosa è singola è negazione. Negazione vuol dire che essa è, solo in quanto è in relazione con ciò che non è – per esempio un’altra forza, un altro Stato, un’altra istanza, un’altra giurisdizione, eccetera.
Se la sovranità non può essere qualcosa di effettivo, in quanto ogni potere effettivo non può essere un potere sovrano, allora, dice Schmitt, la conciliazione del potere supremo di fatto con il potere supremo di diritto costituisce il problema di fondo del concetto di sovranità.
La grandezza di Schmitt sta proprio nell’avere posto questo problema in maniera chiara e netta.
Il bersaglio di Schmitt è il neo-kantismo, rappresentato al suo tempo da Kelsen, il quale, dice Schmitt, fornisce la dimostrazione più approfondita del concetto di sovranità prodotta negli ultimi anni. Tuttavia, dice, questa dimostrazione cerca di risolvere il problema in modo molto semplice, ovvero introducendo una disgiunzione fra sociologia (realtà effettiva) e giurisprudenza (teoria), qualificando così, mediante un’alternativa semplicistica, qualcosa come puramente sociologico o puramente giuridico. Tutti gli elementi sociologici (realtà) vengono esclusi dal concetto giuridico (teoria) e in tal modo viene costruito, con incontaminata purezza, un sistema di riferimenti a norme e a una norma fondamentale finale e unitaria.
Non è difficile riconoscere in queste obiezioni mosse a Kelsen lo stesso atteggiamento di Hegel verso Kant, atteggiamento che porterà Hegel a elaborare il suo concetto di esperienza; come non è difficile vedervi assonanze con Marx, con ciò che dice della verità, o del diventar vero – per esempio nell’Introduzione del 57.
Kelsen si tiene in equilibrio nella partizione tra personale e impersonale, concreto e generale, individuale e generale, autorità e qualità, e, dice Schmitt, nella sua definizione filosofica, tra persona e idea. E considera ogni atteggiamento autoriale e di comando come la negazione della norma avente validità obiettiva.
Kelsen, dice Schmitt, giunge al risultato, per nulla convincente, che per la considerazione giuridica lo Stato debba essere qualcosa di puramente giuridico, qualcosa di valido sul piano normativo, e quindi non una realtà qualsiasi o qualcosa di pensato accanto o al di fuori dell’ordinamento giuridico stesso, bensì nient’altro che l’ordinamento giuridico stesso.
Insomma, dice Schmitt, allo stesso modo in cui Kant pone l’io trascendentale o puro, distinguendolo nettamente da ogni io empirico o psicologico, Kelsen pone la sovranità pura, distinguendola da ogni fatto o entità empirica e psicologia.
L’io puro, l’io trascendentale, non è, e non può essere, per le ragioni che ha riconosciuto lo stesso Schmitt, un fatto empirico. Di più, ogni esperienza è resa possibile proprio da questo io puro. La personalitas psychologica, dice Kant, presuppone la personalitas trascendentalis.
In questo quadro kantiano, la sovranità, ovvero la competenza più elevata, non pertiene ad una persona o, dice Schmitt, ad un complesso di potere psicologico-sociologico, bensì soltanto allo stesso ordinamento sovrano, nell’unità di un sistema di norme.
L’intero impianto giuridico di Kelsen è retto da una tautologia: la sovranità è la sovranità. Kelsen, dice Schmitt, risolve il problema del concetto di sovranità semplicemente negandolo. Ad essere sovrano non è lo Stato, ma il diritto. Non viviamo più sotto la signoria di persone, ma sotto la signoria di norme. In ciò, dice, si manifesta l’idea moderna di Stato. Lo Stato non è una struttura empirica con una forza e degli apparati che ne costituiscono i tentacoli; né tanto meno è una volontà effettiva dalla quale promana la norma. Semmai è vero il contrario. Da ciò, dice, discende il progressivo sviluppo del decentramento e dell’autonomia amministrativa. Lo Stato è la norma. Ovvero il manuale di istruzioni per produrre altre norme.
Anche se così fosse, rimarrebbe da giustificare l’origine di questo manuale d’uso.
Questo è il problema che Kelsen dà per scontato. L’argomento decisivo di Kelsen, ripetuto continuamente e sollevato contro ogni avversario, rimane sempre lo stesso, dice Schmitt: il fondamento, ovvero l’origine, per l’efficacia di una norma può essere solo una norma.
Ma anche se si supponesse che la Legge è già da sempre a disposizione – il che non è – rimarrebbe da dimostrare come si accede alla Legge.
In ogni caso, se si vuole derivare la norma dalla norma, e dare origine ad uno Stato partendo da questi presupposti, bisogna garantire, dice Schmitt, che questa origine sia pura.
La sfida che Schmitt lancia al kantismo è proprio questa. Dare la dimostrazione di un’origine pura della norma, senza relegare o ridurre l’elemento psicologico ed empirico ad un ché di solamente pensato (noumeno).
Ogni caso concreto, dice Schmitt, deve essere deciso in modo concreto, anche se come criterio di misura viene offerto soltanto un principio giuridico nella sua generalità astratta. Anche se noi avessimo la Legge già disponibile, e non ci interrogassimo sulla sua provenienza, dunque sulla sua legittimità, rimarrebbe sempre da dimostrare come possa e debba avvenire il passaggio dalla Legge generale la Caso concreto.
Ogni volta che questo passaggio si determina, dice Schmitt, si verifica una trasformazione. In ogni trasformazione è presente una auctoritatis interpositio. La Legge, da sola (ma non ha alcun senso dire la «Legge da sola», perché la Legge non è un questo o un quello o un qui), non può disporre nulla. Può disporre di un qualcosa o un qualcosa solo attraverso un braccio secolare.
Ricordiamo che qui è in gioco la fondazione della Sovranità, e che, come è stato detto all’inizio, non c’è speranza di fondare la Sovranità su un’autorità psicologica (sociologica), perché ogni realtà effettiva è dominata dalla legge di causalità, e dunque non può esservi isolato alcun fattore singolo che possa dirsi assoluto, ovvero slegato da un potere precedente che lo ha determinato. È evidente che una entità che ha in una causa la sua ragione di essere non può dirsi sovrana.
La sovranità deve essere assoluta, il suo inizio deve essere semplice. Non insisto su questo punto, e rimando alla Logica di Hegel. Come non insisto sulla relatività nella quale immette la contraddizione determinata, riassunta dal motto di Hegel «Cattivo infinito».
Insomma, dice Schmitt, non è possibile ricavare dalla semplice qualità giuridica di una massima una esatta determinazione di quale persona individuare o quale concreta istanza possa pretendere ad una autorità del genere. Questa è, dice, la difficoltà che si continua ad ignorare: il passaggio dalla norma al caso concreto, il salto dalla Legge alla storia.
Questo salto impossibile, è possibile. La decisione, ovvero l’eccezione, è il salto stesso, o la trasformazione della norma.
La forza giuridica della decisione, dice Schmitt, è qualcosa di diverso dal risultato del suo fondamento. Essa non si spiega con l’aiuto di una norma. Ogni concreta decisione giuridica, dice, contiene un momento di indifferenza contenutistica, poiché la conclusione giuridica non è deducibile fino in fondo dalle sue premesse, e la circostanza che una decisione è necessaria resta un momento determinante di per sé. Non si tratta della nascita causale e psicologica della decisione, bensì della determinazione del suo valore giuridico. In senso normativo, dice, la decisione è nata dal nulla.
La decisione contiene un momento di indifferenza rispetto al continuum storico. È svincolata dalla concatenazione delle cause e degli effetti, pur mantenendo un legame con la storia. Ha spezzato ogni legame con ogni entità psicologica e sociologica. È il prodotto di una sorta di io puro-empirico. Una vera eccezione – un miracolo – dice Schmitt.
Il tanto decantato stato di eccezione è questo: il miracolo di una decisione storica che spezza il continuum della storia; che non è fuori dalla storia e dal tempo, ma non ne subisce le condizioni.
Lo stato di eccezione, dice Schmitt, ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia.
Si possono riconoscere in questa idea di eccezione certe posizioni espresse da Benjamin in un testo del 1921 (Saggio sulla violenza), testo accolto con entusiasmo dal Schmitt, e lodato in alcune lettere private inviate all’autore.
La decisione assoluta, la decisione pura, non ragionata né discussa, dice Schmitt, non ha bisogna di legittimazione, e quindi sorge dal nulla. È in sostanza dittatura.
Ciò che qui Schmitt sta cercando di profilare è l’evento puro, il non atteso, il non previsto, il non calcolato, il non ragionato – l’arrivante per eccellenza, l’immigrato di cui non si sa nemmeno che è un immigrato. Il perturbante che non perturba, che non si annuncia; la creazione che non deriva da niente, che non ha legami con niente, che non si basa su niente. Il semplice. Ciò che Schmitt sta prefigurando è l’arrivo, in carne e ossa, dell’io trascendentale di Kant.
Come è mai possibile tutto ciò? Visto e considerato che ogni entità empirica è legata e concatenata con ciò che la precede e la segue. Ciò è possibile se si concepisce la Decisione come un atto di follia pura, un arbitrio totale, una follia molto più folle e romantica della follia raccontata da Foucault, per esempio – un’eccezione, insomma.
L’eccezione è ciò che dà fondo alla regola. E la regola è ciò entro cui si muovono i liberali, i quali, dice Schmitt, in ogni occasione politica, discutono e transigono, trattano, con una irresolutezza fondata sull’attesa. Scrivono sui giornali e blaterano all’infinito (cattivo infinito), in attesa (un’attesa disperata) che la partita si chiuda. Ma la partita non si chiude mai, nonostante l’impegno di tutti i burocrati e gli applicati del mondo, di tutti gli scienziati e i tecnici del mondo, e di tutto l’apparato scientifico-industriale impiegato al 100%. Tutti si affannano affinché l’inatteso arrivi. Ma non arriva niente. Più gli sforzi della scienza e gli affanni della burocrazia aumentano, più la decisione si fa attendere; più le analisi e le indagini scientifiche si intensificano più lo stato di eccezione, donde deriva la Legge, si sottrae. La decisione, se è tale, non solo è inattesa e imprevedibile, ma è totalmente contraria al ragionamento e alla scienza, i quali, con i loro metodi, pretendono di addomesticarla, ma senza riuscirci. Invece di affrettarne la venuta, la ritardano.
Dopo aver mostrato lo splendore e il rigore della dimostrazione di Schmitt, non c’è più tempo per mostrarne i limiti evidenti, limiti che condivide con la dottrina del Performativo di Austin.