Annessione. L’ultima lezione di Vladimiro Giacché

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È da poco uscita per Diarkos una nuova edizione del fortunato libro di Vladimiro Giacché «Anschluss. L’annessione». Non si tratta di un raffinato esercizio culturale (alla francese), ma di un brutale abbattimento o de-costruzione (Rückbau) di tutti i luoghi comuni sulla Germania.
Il libro racconta la storia di come uno Stato, la RDT o Germania Orientale, orgoglio industriale del blocco sovietico, sia stato annesso alla Germania Occidentale e fatto regredire ad uno stadio preindustriale.
Dopo il passaggio del rullo capitalista, nei grandi centri industriali di Lipsia, Merseburgo, Magdeburgo, Vittimberga, Halle, Bitterfeld, Eggesin erano rimasti in piedi solo la pubblica amministrazione, l’artigianato, il commercio e il turismo.
Come conseguenza dell’annessione tutti i titoli di studio e le carriere apicali, come quelle degli amministratori delegati, dei quadri industriali, dei giudici, dei maestri e dei professori, degli avvocati, eccetera, furono azzerati. Stimati luminari, come il professore universitario Horst Klinkmann, quando non furono arrestati e condannati, furono sbattuti fuori dai loro posti di lavoro. Nemmeno il regime nazista era riuscito a far peggio.
La furia liquidatoria nei confronti della RDT giunse sino al punto di far pagare ai tedeschi orientali non solo i debiti contratti dal regime precedente, ma anche debiti inesistenti.
In una ragioneria impazzita il debito verso i soci di tutte le imprese della RDT, dunque il capitale di rischio, non venne considerato come il pareggio contabile dell’attivo. L’attivo venne assimilato ai rottami ferrosi, mera sopravvenienza di archeologia industriale di valore contabile pari a zero. Mentre il passivo venne assimilato a debiti verso terzi, debiti giustificati contabilmente da insussistenze passive, ovvero da ammanchi di cassa, dovuti a ruberie e distrazioni di fondi.
Tuttavia, il vero colpo di prestidigitazione messo in opera dalla Germania Occidentale riguardò la valuta. I furbi specialisti dell’Ovest (i Wessi) convinsero i fessi cittadini dell’Est (gli Ossi) che con un cambio di 1 a 1, che avrebbe riguardato i prezzi, gli stipendi, le pensioni e gli affitti, i poveri Ossi avrebbero incamerato valuta pregiata nella stessa misura di quanta cartastraccia tenevano nei portafogli – a patto di rinunciare alla loro valuta da straccioni.
In verità non si trattò di una manovra del tutto nuova e stracolma di intelligenza. La manovra era nota da tempo nel mondo dei pusher e dei loro clienti drogati. La prima dose veniva ceduta ad un prezzo di favore. Le dosi successive dovevano essere acquisite con una maggiorazione determinata dallo spacciatore.
Ignari della depravazione del capitalismo Occidentale, i poveri Ossi furono convinti facilmente a barattare i pochi spiccioli che avevano in tasca con la valuta pregiata che dava accesso ad una promessa di gioia infinita.
Le tasche dei poveri Ossi furono presto svuotate dagli affamati capitalisti della Germania Occidentale. Quando si presentarono dai Wessi e reclamarono un’ulteriore dose di valuta, questi risposero che bisogna «guadagnarsela» la valuta, che nel capitalismo niente è gratis, che non ci sono prezzi amministrati o sovvenzioni statali e prebende burocratiche o diritti acquisti; che bisogna guadagnarsi la vita col sudore della fronte; che bisogna lavorare e riuscire a piazzare sul mercato il prodotto delle proprie fatiche, e che solo a questo punto, sempre che il prodotto sia riuscito a superare una feroce concorrenza guidata dal sacrosanto principio della meritocrazia, solo a questo punto si acquista il diritto alla propria dose di valuta pregiata.
Gli Ossi non ci misero molto a capire, e, carichi di ingenuità, tornarono alle loro case e alle loro fabbriche, e piegarono la testa, e produssero tutto quello che sapevano produrre, ovvero macchinari di alta precisione, molto richiesti in Polonia e in Unione Sovietica, frigoriferi e altri elettrodomestici di alta qualità, apprezzati persino in Finlandia. Ma tutto ciò non servì a nulla, perché quando questi prodotti furono portati al mercato, i loro prezzi erano fuori di ogni grazia, e così elevati che nemmeno la loro superiore qualità era in grado di giustificare.
Non rimaneva che arrendersi, e elemosinare dallo Stato, Stato comandato dai Wessi, un misero sussidio di sopravvivenza. Sussidio che i Wessi concessero volentieri, ma solo a patto che fosse speso in Junk food prodotto nelle Fabbriche dell’Ovest.
Qui bisognerebbe aprire una lunga parentesi in cui produrre conti di ragioneria spicciola, ma sono già vicino al margine della prima delle due paginette che mi sono state concesse, dunque abbozzo solo qualche calcolo, non prima di aver illustrato un ultimo punto del meritevole libro di Giacché, libro che vi invito a comprare e a leggere sotto l’ombrellone o sotto un pino.
Cosa può insegnare oggi la storia di questa annessione?
L’Anschluss, dice Giacché – e qui apro una parentesi nella parentesi (cedendo a quel gusto francese per la letteratura e il frivolo, gusto che cattura e trascina il sano spirito demolitore [Rückbau] verso l’abyme – o la «mise en abyme») – l’Anschluss, dice Giacché nella Conclusione, ci impartisce una prima lezione, soprattutto a noi italiani, e poi ci impartisce una seconda e una terza lezione – e qui, cedendo ancora al ragionamento parentetico, noto come la Conclusione e la Premessa di «Anschluss» (che, per brevità, chiamo libro – il «libro») cintano il libro, rassicurando il lettore, come si faceva nel romanzo del Settecento, e come ripete Eco in «Il nome della rosa» o, in modo più subdolo, John Barth nel Coltivatore del Maryland, lo rassicurano che ciò che sta per leggere è un fatto veramente accaduto, e non un frutto della fantasia o, peggio, della propaganda.
Nella Seconda pagina del libro (dunque nella Prefazione) Giacché sente di dover rassicurare il lettore che tutto ciò che leggerà, a differenza delle versioni degli stessi episodi romanzati alla francese, tutto ciò che il lettore leggerà (cito) è stato raccontato in modo quanto più possibile aderente al reale svolgimento dei fatti; che tutto ciò che il libro riporta è raccolto direttamente dalla viva voce dei protagonisti – dei vincitori e degli sconfitti – verificando la corrispondenza dei racconti e delle tesi e dei punti di vista con i dati.
Da questo racconto, verificato con i dati, il lettore italiano, si dice nella Conclusione, dovrebbe imparare due o tre lezioni.

La Premessa si congiunge con la Conclusione, in un circolo in cui fa bella mostra la Ragioneria – se questa Ragioneria abbia a che fare con la Vernunft o il Verstand lo scopriremo presto.
I conti degli Ossi non restituivano il risultato atteso. E non perché, come è stato raccontato dalla propaganda dell’Ovest, gli Ossi non fossero bravi ragionieri, ma perché l’espediente contabile di cambiare i crediti nel rapporto di 1 a 1 e i debiti nel rapporto di 1 a 2, nascondeva una contabilità precedente, in cui il rapporto di cambio tra il Marco Wessi e il Marco Ossi era di 1 a 4,44.
Anche un ragioniere alla prime armi sa applicare questo coefficiente alle merci Ossi, e dimostrare come il loro prezzo nominale fosse lievitato in una misura tale da privarle di qualsiasi mercato. Come sa dimostrare che questi stessi prezzi, divisi per 4,44 (o 4,45) sarebbero potuti tornare (con gesto meramente contabile) ai livelli precedenti, realizzando così (cito) quella flessibilità del cambio, ossia quella possibilità di svalutare mediante quello strumento formidabile che avrebbe permesso alle proprie merci di stare sul mercato allo stesso titolo delle merci degli altri.
Perché non fu applicato questo espediente contabile?
Perché l’applicazione del coefficiente non è un’operazione di mera ragioneria. Perché, come sa bene Giacché (perché lo ha scritto a più riprese, sin dalla sua tesi di dottorato) il coefficiente, persino nella sua (presunta) neutralità numerica, non risponde ad una conformità di oggetto e rappresentazione, di cosa e pensiero. Il coefficiente non fotografa un dato di fatto. Il numero ha una struttura ontologica – e non gnoseologica.
Ciò non significa che il coefficiente, inteso come una fotografia di un presunto stato delle cose, possa essere tolto con un tratto di penna – cancellato. Questa cosa non è possibile (la realtà non si falsifica). Non solo perché i numeri, intesi in questa loro presunta neutralità, sono usati tutti i santi giorni. Ma soprattutto perché, e qui si misura la maggiore complicazione, questi numeri non si lasciano togliere se non adoperandoli, se non usandoli – non essendoci altro su cui poggiare i piedi per spiccare il salto mortale. Non c’è altra via per eliminare questi indici se non attraverso questi stessi indici. A meno che non si voglia dar credito a quelle forme di storicismo invertebrato tipiche delle narrazioni post-moderne.
Ma qui, direbbe qualcuno, si cade in un circolo.
Certo! Si cade in un circolo.
Ma noi non temiamo i circoli – risponderebbe Giacché. I nostri circoli non sono quelli della logica formale, ovvero della logica da salotto.
Rimane che per accettare un contenuto come vero, per accettare l’intero libro di Giacché come il racconto di fatti veramente accaduti, e non il racconto di fatti astratti, bisogna infine assicurarsi che il contenuto non sia mediato con un altro, che non sia finito, e che quindi esso si medi con se stesso, e così, in un sol tratto, si esprima come mediazione e relazione immediata con se stesso (Hegel, Enciclopedia § 74). Questo è il punto – dice Giacché. Questo è ciò che ho voluto dimostrare sin dalla mia tesi di dottorato.
Ora, la storia della RDT che ho raccontato dimostra proprio questa tesi. Dimostra che l’indice può funzionare solo e fintanto che è una protensione di un medesimo che si allunga e si media con se stesso, facendo girare l’economia con un moto auto-poietico. Quando invece l’indice è posto dall’esterno, tutto si muove per imposizione e secondo fini che non sono i propri, e che dunque non giovano alla propria economia, ma giovano all’economia di chi li ha imposti.
Cosa sia questo coefficiente del 4,4 credo sia chiaro a tutti, tranne che al ragioniere. Il quale si ostina a ritenere – nonostante la spiega chiara di Giacché – si ostina a ritenere questo 4,4 un numero neutro. Frutto di un calcolo matematico o di una fotografia di un presunto stato delle cose. Ma non c’è alcuno stato delle cose. Se volessimo essere perfidi (e francesi) diremmo che lo stato delle cose è creato proprio dal coefficiente; che il coefficiente, come tutti i numeri che il mesto ragioniere produce nel suo libro contabile, sono armi da guerra, e che dunque non c’è libro vero e proprio se non nella finzione neutralizzante di questo coefficiente di traduzione.
È evidente oltre ogni dubbio, e Giacché lo ha dimostrato in modo chiaro e preciso, che anche quest’uso ultimo del coefficiente (come arma da guerra) implica, nella sua differenza, un’intesa minimale sulla sua identità, e che, a questo stadio, ogni differenza non fa che rimandare ad una identità, in una serie di rimandi che rendono tutto il ragionamento dell’ultimo paragrafo uno scherzo infinito – senza nessuna allusione a D. F. Wallace, che in questa storia farebbe fatica a stare dalla parte degli Ossi, anche se non potrebbe stare da nessun’altra parte.
Fra gli Ossi, nessuno, preso singolarmente, era disposto a svalutare il proprio credito (stipendio, affitto, pensione, eccetera) di un quarto. Inoltre, in un tempo ristretto, nessuna forza sarebbe stata forte abbastanza da far accettare la riduzione di un quarto agli operai, ai pensionati, agli impiegati e ai professori. Ci si poteva provare, dice Giacché, ma la prova avrebbe richiesto almeno dieci anni. Per giungere a un allineamento delle due economie bisognava dare tempo agli Ossi di scegliere una delle due soluzioni possibili: 1) aumentare la produttività con gli investimenti, o 2) diminuire lo stipendio mediante la deflazione salariale. Ovvero evitare l’imposizione e l’eterodirezione, mediante l’auto-imposizione. Santa astuzia della ragione!
Insomma, una volta gettata la Premessa e caduti nelle spire dell’economico, non ci sarebbe stata altra strada se non la stretta via battuta dal Ragioniere, con i suoi calchi e i suoi calcoli. E anche se questi calchi e indici fossero apparsi come carenti e manchevoli, frutto di astrazioni dell’intelletto, non bisognava disperare, perché, se la Premessa è ben posta, l’azione del Ragionerie consisterà nel redigere un bilancio nel quale la Premessa si dilegua per ritrovarsi nella Conclusione, secondo quella dialettica in cui io, pratico e attivo, mi determino agendo, ossia ponendo una differenza. Questa differenza che io pongo mi appartiene, è interna alla struttura – la determinazione spetta a me. Il fine, la Conclusione verso cui tendo è una determinazione che mi appartiene, posta da me. In questo travaglio realizzo la mia libertà. Sono presso di me nell’altro. L’altro mi appartiene. Sono nell’altro allo scopo di tornare in me. La verità non è dunque l’adeguamento del pensiero con i dati di fatto, ma consiste nella capacità di muoversi nelle mezze verità della ragioneria per far ritorno presso di sé – non negarle e nemmeno usarle in quanto mezzi, ma viverle con passione. Amen.

 

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