Chi studia la visione è d’accordo sul fatto che essa comporta un processo di costruzione. In condizioni normali questo assunto non appare così ovvio, ma in condizioni in cui la vista è impedita per una ragione o l’altra, nelle situazioni in cui siamo costretti a ricostruire il puzzle ovvero quando la confusione sovrasta la scena osservata, iniziamo ad avere la sensazione che il riconoscimento degli oggetti nel mondo richiede di mettere insieme le parti percepite in un intero coerente. Di solito, nessuno di noi si pone la domanda sul come vediamo, di contro, molto spesso, accade che, nel notare un peggioramento nel nostro campo visivo, ci rechiamo da uno specialista della visione, per ripristinare i parametri standard degli input sensoriali. D’altronde, un tale atteggiamento è naturale, spontaneo, e ci protegge dal rimanere paralizzati come il millepiedi che risponde all’interrogativo della formica: «in che ordine metti i piedi l’uno dietro l’altro?»
La soluzione di questa storiella Zen potrebbe essere proprio nel riconoscere che è la stessa domanda a essere sbagliata, ragion per cui non aborriamo qualsiasi domanda, anzi ci tocca individuare e rispondere a quegli interrogativi che, di volta in volta, ci consentono di esplorare la scena visiva.
Nello scorrere le pagine del bellissimo libro di Kevin O’ Regan, Perché i colori non suonano, è possibile trovare un’ampia e ricca trattazione di temi strettamente interconnessi tra di loro, che ci permettono di aumentare il nostro grado di consapevolezza sulle caratteristiche del processo visivo. Il suo lavoro spazia dalla cecità al cambiamento del sé cognitivo e sociale, dall’intelligenza artificiale alla nuova teoria sulla coscienza, dalla concezione della pura sensazione alle differenze tra il vedere, immaginare e ricordare, eccetera.
Ma credo che il piacevole stupore di questa ricerca derivi dalla capacità dell’autore di fornire delle risposte a degli interrogativi sul come vediamo l’intera scena visiva e la sua continuità.
Va da sé, com’è stato già evidenziato, che la gran parte delle persone non si pone minimamente questo problema, anche se è affetta da patologie visive, poiché nel momento in cui inizia a trapelare il quesito, si è assaliti dalla paura di rimanere bloccati, come in un incantesimo. Ed è proprio nel vivere l’esperienza della sensazione d’interezza e quella d’interruzione temporale, mediante la lettura di questo libro, che riemerge quella domanda di tanti anni or sono: «come vediamo quel che vediamo?»
Certo, il cammino è lungo e tortuoso, ma si avverte un sollievo, quando s’imbocca il giusto sentiero. Il corretto approccio, secondo O’ Regan, consiste nel partire dalla spiegazione dell’esperienza tattile, utilizzando un pragmatico esperimento: il gioco della mano nella borsa.
La sensazione di vedere l’intera scena
Risulta davvero difficile individuare degli oggetti che si trovano in una borsa, se non possiamo muovere le dita e non possiamo utilizzare gli occhi. Può capitare di notare che se l’apertura della borsa non è agevole, quando infiliamo la mano per trovare gli oggetti, ci rendiamo conto che giriamo a vuoto per un po’ di secondi prima di trovare l’oggetto di cui abbiamo bisogno, mentre se l’apertura della borsa è tale da poter vedere ciò che c’è dentro e la vista è in buono stato, allora i movimenti degli occhi individuano in modo più rapido dei movimenti delle dita della mano l’oggetto che stiamo cercando.
Ora, provate ad individuare una serie di oggetti (tra i quali un’armonica) che si trovano in una borsa chiusa, muovendo le dita della mano e vi renderete conto che i polpastrelli, man mano che vi addentrate nell’esperimento, iniziano a percepire la parte ruvida dell’armonica, poi la parte levigata, successivamente le scanalature, infine la convessità, in pratica prima di riconoscere l’intero oggetto avvertiamo le parti che lo formano. In seguito, all’improvviso, non avvertiamo più le parti sconnesse, ma l’intera armonica. Avviene un cambiamento qualitativo, nonostante l’input sensoriale che riceviamo attraverso le dita non cambia; al posto delle parti mescolate in un indefinibile puzzle, abbiamo l’oggetto intero.
Che cos’è successo?
Finché non mettiamo le parti nella giusta relazione l’una con l’altra – scrive O’ Regan – non avremo che confusione. Improvvisamente, quando abbiamo scoperto la struttura delle relazioni tra le parti, otteniamo un’esperienza tipo “aha” e l’oggetto si materializza dal caos(1). Il processo di riconoscimento dell’oggetto diventa più agevole, se la persona mette in atto un approccio attivo ed esplorativo.
Il riconoscimento dell’armonica nella borsa è facilitato, se ci viene consentito di muovere le dita, ma il suo riconoscimento sarebbe impossibile, se non possiamo muovere la mano e le dita. Inoltre, non è necessario «essere a contatto con tutte le parti di un oggetto, per riconoscerlo come un oggetto intero, ma basta la conoscenza del fatto che tutte le sue parti sono potenzialmente accessibili dalle nostre esplorazioni»(2).
E nel seguire il ragionamento di O’ Regan si può apprendere che la sensazione di avere l’intero oggetto, sebbene non siamo a contatto con tutte le sue parti che lo compongono, è simile alla sensazione di essere a casa.
Per sentirsi a casa, non c’è bisogno di essere ovunque, infatti si può essere comodamente seduti sul proprio divano e avvertire che si può accedere alle altre stanze e incontrare gli oggetti familiari. Lo stesso discorso vale per l’armonica. Infatti, possiamo sentire l’intero oggetto, anche se siamo in contatto con una parte di esso. Insomma, se si parte dal presupposto che non possiamo essere ovunque nella nostra casa, a meno che non viviamo in un monolocale, allora possiamo avvertire la sensazione dell’intera casa, anche se siamo seduti in cucina. Il trovarsi in un determinato luogo della casa non significa cancellare le altre parti che costituiscono il concetto di casa e che corrisponde a quel luogo che noi chiamiamo casa. Questa conoscenza ci consente di acquisire l’informazione sul fatto che tutte le parti, che formano un oggetto complesso come la casa, sono potenzialmente disponibili, quando ci spostiamo nello spazio delimitato.
In generale, se il sistema visivo funziona correttamente, poiché non ci sono difetti evidenti dovuti a lesioni cerebrali, a danneggiamenti dei tessuti che formano l’organo della visione o ad accomodamenti ambientali, quando osserviamo una scena visiva che si trova davanti ai nostri occhi, un determinato oggetto ricade nella fovea centrale, ossia nella zona di maggiore acuità visiva, pertanto esso sarà più nitido rispetto a quegli altri elementi che formano il quadro e che ricadono, a loro volta, nell’area periferica della retina (3).
Ora, l’impressione che noi vediamo l’intera scena è in relazione al fatto che tutti gli elementi di essa, che non rientrano nella visione centrale, costituiscono una serie di indizi disponibili, una serie di informazioni accessibili con i movimenti saccadici degli occhi.
Questi movimenti (4) permettono di spostare l’attenzione in modo rapido su altri oggetti della scena e quindi raccogliere altre informazioni sensoriali. Pertanto, in seguito alle nostre esplorazioni e manipolazioni di ciò che sta di fronte ai nostri occhi, la nostra percezione visiva si rafforza, in quanto anche se focalizziamo lo sguardo su un oggetto, gli altri oggetti non solo saranno immediatamente accessibili per formare l’intera scena, ma disponiamo di una serie di dettagli che abbiamo rilevato nel mondo esterno e che arricchiscono il nostro sistema visivo.
Tale processo, come ho già accennato, presuppone il naturale funzionamento degli occhi, ossia che essi siano in grado di svolgere i tre gradini fondamentali della visione, ampiamente illustrati da W. H. Bates: rilassamento, movimento e centralizzazione. (5)
Per centralizzazione s’intende la capacità degli occhi di mettere a fuoco le singole parti della scena osservata, i singoli elementi che compongono il quadro, senza fissare o bloccare lo sguardo e fermo restando che una siffatta capacità è in netta contrapposizione con la diffusione (6), vale a dire il tentativo di vedere tutto in una volta.
L’interruzione temporale e la continuità visiva
Cosa succede se la nostra mano, le nostre dita smettono di essere in contatto con l’oggetto che abbiamo esplorato?
Esso continuerà ad essere lì, noi abbiamo la sensazione che possiamo maneggiarlo e l’interruzione temporale non determina la perdita dell’oggetto. Forse, vi sarà capitato di osservare un pianista che muove le sue dita, pensando al suo strumento da cui si è temporaneamente separato, egli, nonostante la separazione, continua ad avvertirne la “presenza”.
La presenza di un oggetto con cui c’è stato un contatto tattile non viene meno, se, per esempio, lo poniamo fuori dalla nostra portata per un determinato arco temporale, la sensazione di continuità non cade nel vuoto. Quando pongo il mio libro negli scaffali della mia libreria, ho l’impressione che esso continui ad essere a mia disposizione, non c’è bisogno di toccarlo, ma nel momento in cui mi sorge un interrogativo, lo riprendo e cerco l’informazione specifica.
Lo stesso vale per l’oggetto che lasciamo scivolare dalle nostre mani, esso continuerà ad esistere e ne avvertiamo la presenza non appena proviamo a sincronizzarci con ciò che abbiamo fatto cadere e sintonizzarci con i cambiamenti che nel frattempo si sono verificati. Quest’ultimo «è un punto molto importante che mostra come la sensazione di continuità, progressività o “presenza” con l’oggetto non richieda il contatto continuo con esso». (7) Quello che richiede è che gli oggetti siano coinvolti nel processo di esplorazione.
Cosa succede sul piano dell’esperienza visiva?
«Benché io sbatta frequentemente le ciglia, i miei occhi si diano continuamente da fare compiendo movimenti saccadici da un punto all’altro, e questo sia causa di perturbazioni e momentanee assenze nell’input visivo, nondimeno ho l’impressione di vedere la scena in modo continuo». (8)
Se faccio caso al battito delle mie ciglia o ai movimenti dei miei occhi e se mi domando cosa vedo io in quel momento posso diventare consapevole delle mie perturbazioni. La maggior parte del tempo, però, se faccio caso alla scena, sono inconsapevole del battito delle ciglia e dei movimenti oculari e ho l’impressione di un mondo visivo continuamente presente.
In che modo può essere spiegato il fenomeno?
Esso non dipende dal fatto che noi produciamo un’immagine interna continuatamente presente nella nostra mente. «L’impressione di continuità deriva dall’immediata disponibilità delle informazioni relative agli oggetti che vediamo». (9)
È possibile captare il fenomeno della continuità visiva, ricorrendo alla metafora della luce del frigo: essa si accende, non appena apriamo la porta, mentre scompare una volta che la chiudiamo, ma se la riapriamo, siamo in grado di rivedere la luce, quindi abbiamo come l’impressione che essa sia sempre accesa, in realtà, si accende ogni qualvolta apriamo la porta.
Qualcosa di analogo, dice O’ Regan, accade nella visione: pensiamo di vedere in modo continuo, poiché ogni volta che ci chiediamo cosa stiamo vedendo, lo stiamo effettivamente facendo. «E ciò perché vedere corrisponde esattamente a questo: indagare il mondo esterno con i nostri occhi». (10)
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Note
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J. Kevin O’ Regan, Perché i colori non suonano. Una nuova teoria della coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012, pag. 34.
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Ivi, p. 35.
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Sebbene nella retina periferica l’acuità visiva sia più bassa, essa svolge un ruolo molto importante, in quanto ci consente di cogliere il movimento e di migliorare la percezione visiva durante le ore notturne.
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I nostri occhi si muovono incessantemente anche quando fissiamo un determinato oggetto, infatti, in questa circostanza, essi continuano a muoversi a piccoli scatti, se potessimo bloccare questi microscopici movimenti mentre fissiamo lo sguardo, la scena statica che osserviamo scomparirebbe dalla vista.
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W.H. Bates, Il metodo per vedere bene senza occhiali.
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Una caratteristica comune ai soggetti miopi è quella di sforzarsi a vedere contemporaneamente bene tutto ciò che ricade nel proprio raggio d’azione, invece di discriminare i vari dettagli e poi ricomporre il puzzle.
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Kevin O’ Regan, Perché i colori non suonano. Una nuova teoria della coscienza, cit., p. 36.
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Ivi, p. 41.
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Ivi, p. 46.
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10 Ibidem