Era il 17 ottobre del 1920, quando il giornalista e scrittore J. Reed, dopo aver partecipato al Congresso dei popoli orientali, a Baku, si ammalò di tifo e lasciò la vita terrena, interrompendo le sue attività di ricerca su uno dei più grandi esperimenti sociale, al quale ebbe il privilegio di partecipare attivamente e di decantare le gesta e le trame di quegli avvenimenti, con una memoria visiva che somigliava ad una moderna macchina da presa e con una penna sagace che analizzava in profondità i movimenti conflittuali che scaturivano dalle dinamiche in corso.
Il suo libro sulla Rivoluzione russa è un’opera avvincente e di un elevato spessore narrativo, che ha ispirato, tra l’altro, in un contesto meno entusiasmante, il film Ottobre di Sergej Mikhajlovič Ejzenštejn, nel 1927. Dopo circa un secolo dalla sua pubblicazione riesce ancora a rompere la piatta noia quotidiana e ci sottrae alle mille sirene che ci orientano verso le chiacchiere frivole e vuote che alimentano, per la stragrande maggioranza, il dibattito politico attuale.
Sullo sfondo tre grandi avvenimenti che s’intrecciano tra di loro: la Grande guerra, la Rivoluzione politica e la Rivoluzione sociale. Sulla scena principale il proletariato che insorge e tanti protagonisti con le loro sfaccettature, le loro passioni, spesso, guidate dall’intelligenza. Userei le parole dell’autore per dire che il suo libro «è un brano di storia, per come lui stesso l’ha vissuta». Potremmo dire: un racconto del proprio vissuto o un racconto di cui si vive l’esperienza personale e interpersonale, le forti emozioni, la fredda logica e le situazioni paradossali che dissolvono i ragionamenti lineari e unidirezionali.
Partigiano e propagatore delle idee socialiste negli USA, senza cadere nelle trappole dogmatiche, John Reed ha abbracciato le lotte degli operai of his country, partecipando agli scioperi dei lavoratori dei setifici del New Jersey, nel 1913, diretti dagli Industrial Workers of the World e seguendo con dedizione gli scioperi dei minatori in Colorado. Scioperi che, nell’aprile del 1914, per l’asprezza e l’avarizia dei proprietari del Rockefeller’s Colorado Fuel and Iron Company, si trasformarono in una sorta di guerra civile.
Raccontò le nefandezze e le atrocità della Grande guerra, come inviato speciale del Mtropolitan Magazine, nei paesi dell’Europa orientale, ma furono le sue passioni orientate alla conoscenza dei movimenti rivoluzionari a guidarlo, dapprima in Messico, là dove seguì l’esercito di Panciovilla, e successivamente in Russia, attratto dagli avvenimenti di marzo, secondo il calendario gregoriano.(1)
Nella prima parte del libro, Reed ha posto l’accento sugli errori cardinali delle forze politiche che facevano parte del Governo costituito sulle ceneri dell’impero zarista. Infatti, i menscevichi e i socialisti rivoluzionari erano convinti che le masse non erano pronte, non erano educate alla presa del potere; essi proclamavano che la Russia non era matura per la Rivoluzione sociale.
Fu così – come ci ricorda Reed – che quando queste forze si vennero a trovare nelle circostanze che li spingevano nella direzione della presa del potere, rimasero, in qualche modo, paralizzate o non osarono.
Ma, forse, il più grande errore che commisero fu quello di credere che la Russia dovesse passare attraverso le stesse tappe politiche ed economiche dei paesi dell’Europa occidentale, per arrivare, infine, contemporaneamente al resto del mondo, al paradiso socialista.
Le forze rivoluzionarie che si trovarono alla guida della nazione, erano d’accordo con le classi possidenti, per fare della Russia una Repubblica parlamentare, come in Francia, o una Monarchia costituzionale, come in Inghilterra. Tuttavia, accadde – e non fu la prima e ultima volta – che in quest’accordo, le forze di sinistra (menscevichi e socialisti rivoluzionari) avevano bisogno delle classi possidenti, mentre queste ultime non avevano bisogno di loro.
Sul fatto che la Rivoluzione fosse scoppiata in Russia, ci furono tante critiche e in molti rimasero di stucco, poiché nel movimento rivoluzionario mondiale, e in particolare negli Stati Uniti, c’era la convinzione, il sospetto, la presunzione che la classe operaia russa fosse ignorante.
In realtà, – dice Reed – sebbene non avessero l’esperienza politica degli operai dei paesi occidentali, oltre a conoscere le implicazioni pratiche del socialismo, erano molto abili nell’organizzazione delle masse e il sistema dei Soviet ne incarnava la loro geniale capacità organizzativa.
Le condizioni di vita del popolo russo, nei mesi che precedono l’insurrezione del 7 novembre (25 ottobre nel calendario giuliano)
Disordini e tumulti, albergavano nelle strade delle grandi città, ma anche nelle campagne, al fronte i soldati mettevano in discussione gli ordini degli ufficiali dell’esercito del Governo provvisorio, che si era insediato con la Rivoluzione politica di marzo.
I grandi capitalisti russi consideravano la Rivoluzione come una malattia contagiosa che bisognava debellare, estirpare, poiché mai e poi mai avrebbero accettato i Consigli di fabbrica, per i grandi capitani dell’industria gli operai non erano degni e non potevano prendere parte alla direzione delle aziende, un simile atto era visto come una sorta di oltraggio alla proprietà privata, una forma di sconsacrazione dell’ordine imposto dalle classi possidenti.
Per scacciare il fantasma della rivoluzione, la borghesia russa e la morente aristocrazia speravano nel miracolo dell’inverno in arrivo – il freddo polare più volte nel corso della storia gli ha tolto le castagne dal fuoco – addirittura, gradivano con fervore l’arrivo dei tedeschi in Russia, i quali avrebbero provveduto a ristabilire “ordine e disciplina”, eliminando il caos che imperava su tutto il territorio.
Gli speculatori-approfittavano del disordine generale per ammassare ingenti fortune che poi disperdevano in orge fantastiche. I proprietari delle miniere di carbone, per sabotare la Rivoluzione, le incendiavano; i magazzini di grano della capitale che custodivano riserve per due anni, furono saccheggiati dagli speculatori, di conseguenza in essi vi erano provviste sufficienti solo per due mesi.
I soldati al fronte pativano la fame e il freddo, ma quando iniziarono a disertare furono accusati dai grassi possidenti russi di essere dei traditori, dei vigliacchi che meritavano la fucilazione. Davanti ai negozi si formavano lunghe file, per ottenere i beni indispensabili per vivere, e, molto spesso, la grande massa dei proletari non poteva permettersi di comprare un bene necessario come le scarpe, data la pesante sproporzione tra il prezzo di un paio di scarpe, pari a 100 rubli, e il salario mensile che si aggirava intorno a 40 rubli.
Ciò che legava le sorti dei proletari era il filo rosso della speranza e una potente capacità organizzativa. Perfino i camerieri erano organizzati e pronti per lottare e debellare il marciume che li circondava. Il loro stesso atto di ribellione si fondava sulla motivazione intrinseca e si esprimeva anche con il rifiuto delle mance, infatti nelle loro discussioni arrivarono alla sintesi che se un uomo, per guadagnarsi da vivere, doveva servire un altro uomo seduto a tavola, ricevere una mancia era come ricevere un insulto.
Ma ancor di più!
L’intera Russia, con la Rivoluzione di marzo, si svegliò assetata d’istruzione, ogni giorno un migliaio di organizzazioni politiche inondava, ogni angolo del paese, con centinaia di migliaia di opuscoli.
E la parola sembrava avesse raggiunto un potere liberatorio, come un fiume in piena attraversava le menti di coloro che ne erano affamati, al punto che la ricerca per soddisfare il bisogno di conoscenza, mediante la lettura e la scrittura, superava e sublimava il crudo bisogno della pancia vuota, si elevava al di sopra dell’asprezza e amarezza della fame. Era tutto un proliferare di discorsi, di comizi, di conferenze, di dibattiti, in ogni luogo pubblico.
“I torrenti d’eloquenza” di cui parla Carlyle, a proposito della Rivoluzione francese, non erano che bagattelle a confronto dell’ampiezza delle discussioni che si propagavano in ogni luogo e con ogni mezzo.
Ovviamente, nella società russa, dopo lo scoppio della Rivoluzione di marzo, c’era ancora tanta vecchia ruggine che richiamava i valori dell’impero zarista, ma il fermento generale, che trasudava da ogni poro, iniziava a spazzar via il vecchio marciume derivante dalla decomposizione di quella cultura secolare e opprimente che, a lungo, aveva compresso ogni tentativo di ribellione.
La tempesta si avvicina
Intanto, la guerra infuriava alle porte, i soldati al fronte erano stremati, mentre la flebile e fallimentare richiesta del Governo provvisorio per una Conferenza di pace a Parigi, diede l’opportunità ai bolscevichi di porre l’accento sul fatto che la politica compromissoria dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari, con la classe possidente dei cadetti, avrebbe allontanato i tentativi di raggiungere l’agognata pace, rivendicata dalle organizzazioni del proletariato.
Tutto ciò non fermò i dibattiti pubblici, anzi in ogni angolo delle città, negli stabili abbandonati, nei teatri, eccetera, si tenevano discussioni, nelle quali intervenivano i membri dei Soviet locali degli operai e dei soldati. Questi ultimi, molto spesso, raccontavano con parole semplici ed argute le diatribe e l’agonia del lungo fronte occidentale ed approdavano a lucide conclusioni che spiazzavano i sostenitori del Governo in carica. Essi sapevano di scannarsi con i tedeschi, ma nello stesso tempo erano consapevoli di essere carne da macello dei banditi capitalisti della propria nazione.
A complicare le cose, sul finire del mese di ottobre, ci pensarono i cosacchi del Don, una forza reazionaria, militarista e antisocialista, diretta da nobili e grandi proprietari fondiari, sostenuta dai grandi banchieri e commercianti di Mosca. Con le loro scorribande trovavano piacere nel devastare e nel saccheggiare le sedi dei Soviet e dei sindacati di Rostov e di altre città. Tali azioni non vennero mai espressamente condannate dal Governo di Kerenskij, il quale ammiccò al loro capo Kaledin e gli svelò il suo disgusto per l’ascesa dei bolscevichi.
La vecchia Russia si stava disgregando: migliaia di soldati erano debilitati dal freddo e dalla fame, i trasporti erano paralizzati, scioperi e serrate scuotevano le grandi città, i contadini smisero di credere che la terra potesse essere distribuita, pertanto, spinti dalla disperazione, incendiavano i castelli dei nobili. Per sedare le rivolte dei contadini e i disordini causati dagli scioperi, il Governo provvisorio ricorse all’aiuto dei cosacchi.
Insomma, in quei giorni febbrili regnava il caos e la confusione: «tutti sapevano che stava per succedere qualcosa e nessuno sapeva cosa». (2)
Smol’nyi (3)
A Smol’nyi, in quei giorni turbolenti, sedeva in permanenza il Soviet di Pietrogrado. Esso era il centro della tempesta e le discussioni lunghe e intense propagavano onde alte e lunghe che iniziavano ad infrangersi sulle mura del Palazzo d’Inverno.
Nei primi giorni di novembre l’atmosfera divenne incandescente, una piccola scintilla avrebbe potuto far saltare il traballante Governo provvisorio, i cosacchi erano oramai stati arruolati per effettuare violente incursioni nelle miniere occupate, nelle fabbriche in sciopero e durante le riunioni dei Soviet del Donec.
La mentalità della stragrande maggioranza dei cosacchi, come quella di altre forze reazionarie, era proiettata all’indietro, non riuscivano ad accettare i cambiamenti derivanti dalla disgregazione dei legami feudali, infatti il 4 novembre organizzarono, a Pietrogrado, una processione per ricordare il ritiro delle truppe napoleoniche nel 1812, ma le loro intenzioni erano in contrasto con l’aria frizzante delle rivolte in corso. Nondimeno, i Soviet della città, in quei giorni, oltre ad essere in una situazione di fermentazione tumultuosa, intuirono la pericolosità di quell’aggregazione passatista, pertanto si rivolsero a quel popolo con un manifesto che metteva in evidenza le crescenti abilità comunicative dei loro membri e in particolare dei bolscevichi.
In fondo, i bolscevichi, nel tentativo di persuadere i cosacchi, si chiedevano: «A chi interessa la guerra? A chi giova?», forse ai contadini, agli operai e ai soldati? O ai bambini, alle donne e agli anziani? Certo che no! Essa serviva a rimpinguare i banchieri, i generali, i grandi proprietari terrieri, gli usurai, i nobili, i ricconi, ossia tutti coloro che lucravano sulla guerra.
Il Soviet di Pietrogrado invitava i cosacchi a togliersi le bende dagli occhi e riconoscere che il popolo cosacco era nelle mani dei grandi proprietari terrieri.
Negli stessi giorni, la guarnigione di Pietrogrado si rifiutò di partire per il fronte, essa era formata da circa 60.000 uomini stanziati nella capitale e aveva costituito il Soviet dei soldati. Il loro supporto fu decisivo, sia negli avvenimenti di marzo, sia nel fermare il colpo di Stato di Kornilov, nel mese di settembre.
Tali contrasti emergevano anche attraverso i giornali che rappresentavano le diverse fazioni in lotta: la stampa monarchica inneggiava alla repressione sanguinosa, quella borghese metteva in allerta i capitalisti per gli attacchi alla proprietà privata, mentre la voce potente di Lenin tuonava: «È l’ora dell’Insurrezione! Non si deve più aspettare!».
Sul piano delle strategie militari, invece, i bolscevichi affidarono ad Antonov, un ex ufficiale zarista – in seguito diventato rivoluzionario – ma anche matematico e giocatore di scacchi, la definizione del piano per la presa della città. La Guardia Rossa si stava mobilitando e ciascun reggimento aveva individuato gli obiettivi strategici: la centrale telefonica, l’agenzia telegrafica e la banca di Stato.
Sul fronte opposte il Governo provvisorio corse ai ripari, chiamando l’artiglieria dei Junker a difendere il Palazzo d’Inverno, anche se il fatto di trovarsi in una morsa gli divenne più chiaro: da un lato, una serie di questione rimaste irrisolte, come la fame, la guerra e il nemico alle porte, dall’altro, l’insurrezione in corso dei bolscevichi.
Nella notte del 6 novembre il Comitato di salute pubblica della Duma municipale di Pietrogrado tappezzò le mura delle città con una serie di manifesti rivolti agli operai e ai soldati con l’invito di schierarsi contro l’insurrezione, ovvero mise in atto – come scrive Reed – una vera e propria dichiarazione di guerra ai bolscevichi.
Questi ultimi, non stettero a guardare, non demordevano e iniziavano ad assaporare il gusto della vittoria, la minoranza perseguitata, in seguito alle rivolte del mese di luglio, diffondeva con volantini, manifesti e giornali tre semplici parole d’ordine: potere ai Soviet, terra ai contadini e fine della guerra.
I bolscevichi dichiaravano con forza la fine del sanguinoso conflitto mondiale, nel mentre stavano con le armi in pugno per espugnare il Palazzo d’Inverno
Reed riesce a dare una descrizione dettagliata degli avvenimenti concitati di quei giorni, senza perdere di vista il quadro generale, il suo libro scorre tumultuoso come un fiume in piena e la sua penna sembra essere più efficace di una potente macchina da presa, il cui operatore mette a fuoco il primo piano dei protagonisti, senza mai dimenticare lo sfondo. Alla descrizione di un volto, seguono le parole che il soggetto pronuncia, la descrizione del luogo in cui si svolge l’azione e il panorama che si vive nelle strade, di giorno come nella notte buia, con pochi lampioni e con il forte rischio d’inciampare.
Si odono fucili che sparano, si vedono autoblindati, si vedono soldati che marciano e discutono animosamente, si assiste a discussioni interminabili, a scontri verbali, risate chiassose, applausi, ovazioni, ma non si vedono scene con scontri sanguinosi. Certo, ci furono i morti e i feriti! Ma in questi giorni, in questo assalto al cielo, il verbo trasmuta il corpo dei proletari e li rende invincibili, in quanto, finalmente, sta per andare in scena il sogno di una vita, l’agognato riscatto dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, l’emancipazione dalla condizione di schiavitù che relega il salariato alla stregua di un animale da soma, costretto ad accollarsi fatiche immani sulle proprie spalle.
La forza del proletariato eruttava una lava incandescente che apriva una breccia nella notte scura, nondimeno la confusione e il trambusto, che caratterizzavano l’insieme delle relazioni e delle interazioni, avvolgevano anche la brillante mente di Reed, al punto che lui stesso, nel momento in cui stava per entrare nel Palazzo d’Inverno, non era in grado di stabilire se le sentinelle appartenevano ai Soviet o al Governo in carica.
Ma i bolscevichi non erano ancora arrivati, Kerenskij era partito per il fronte, i Junker presidiavano il Palazzo e alcuni cadetti si espressero con tono vanaglorioso, affermando che avrebbero messo al tappeto quel gruppo di poltroni, in procinto di prendere il potere.
Completamente diversa era l’aria che tirava a Smol’nyi là dove stava per svolgersi il Congresso panrusso dei Soviet, qui gli animi erano eccitati e febbrili, quasi tutto il gruppo dirigente dei bolscevichi si era affrettato, ancor prima che iniziasse il dibattito, ad anticipare quel che stava accadendo: la sollevazione popolare e la fine del Governo provvisorio.
I soviet turbolenti si erano ribellati ai dirigenti del CEC e questi ultimi sentivano sul collo il fiato del Comitato militare rivoluzionario, sapevano, in fondo, che i loro compagni di partito che si trovavano al Palazzo d’Inverno stavano per cadere sotto i bombardamenti.
Ma anche qui, nell’apertura del Congresso, si stava per verificare l’uscita di scena dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari, una parte dei loro delegati si era accordata con i bolscevichi per l’elezione dell’Ufficio di Presidenza con metodo proporzionale. I bolscevichi ebbero la meglio: 14 membri contro i 7 dei socialisti rivoluzionari e uno degli internazionalisti.
La minoranza perseguitata e bistrattata divenne la forza che stava prendendo in mano le redini del potere. Kamanev si precipitò a comunicare l’ordine del giorno del secondo Congresso dei Soviet:
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L’organizzazione del potere;
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La guerra e la pace;
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L’Assemblea costituente.
Pochi minuti dopo si udirono i colpi assordanti dei cannoni, i vetri iniziarono a tremare e tutta l’Assemblea balzò in piedi e fu assalita da uno sconcerto impressionante.
I membri in difesa del Governo provvisorio presero il coraggio di dire che non aveva tanto senso continuare a discutere, quando nelle strade si combatteva una guerra civile, i socialisti rivoluzionari e i menscevichi chiesero a gran voce che il Soviet si schierasse per la risoluzione pacifica del conflitto in corso, altrimenti avrebbero abbandonato il Congresso. E così fu! La rottura nel CEC divenne insanabile e Trockij li apostrofò, con la sua lingua tagliente, come dei rifiuti che la storia avrebbe gettato nell’immondezzaio.
Il Governo provvisorio era giunto al capolinea e lungo le strade che portavano al Palazzo d’Inverno venivano lanciati volantini in cui vi era scritto che il potere era ormai nelle mani del Comitato militare rivoluzionario e che la causa per cui il proletariato era entrato in lotta, finalmente, trovava spazio sulla via del trionfo.
Nel vento che infuria e nell’urlo della bufera, le grandi doti di Reed sono quelle di seguire il flusso degli eventi, con i suoi i continui cambi di scena che si susseguono a ritmi impressionanti, nonché di cogliere il movimento dialettico che si dipana nelle trame profonde della società russa.
Nel momento in cui il rombo dei cannoni si attenua e la discussione del Congresso perde vigore e non trova uno sbocco creativo, lui intravvede le Guardie Rosse all’interno del Palazzo e la folla per le strade che si precipita in quella direzione.
E riesce a superare gli ostacoli che trova lungo quella traiettoria, per descrivere ciò che avviene sulla cresta dell’onda. Approfitta della confusione, per aggirare il cordone dei marinai che impediscono alla folla di avvicinarsi al Palazzo e con la sua penna sottile delinea le azioni dei soldati che si apprestano ad appropriarsi degli oggetti di valore che trovano nelle cantine del Palazzo, ma si fermano, non appena delle voci fuori campo gli annunciano che tutto ciò che si trova lì appartiene al popolo e che un rivoluzionario non può comportarsi come un ladro.
Tuttavia, le azioni furono più veloci delle parole. Infatti, l’autore del libro, nel perlustrare le stanze si rese conto che gli armadi erano stati forzati e i vestiti portati via, per proteggersi dal freddo, mentre le pelli che rivestivano le sedie e le poltrone erano state strappate, per costruire delle scarpe.
L’istinto di sopravvivenza ebbe il sopravvento sull’autodisciplina delle truppe dei Soviet dei soldati che per prime misero i piedi nel Palazzo.
Malgrado le numerose dispute, la città era calma, come non lo era mai stata nel corso della sua storia, durante la notte del 7 novembre non ci fu né un delitto né un furto.
A Smol’nij, dove il Congresso panrusso continuava ad andare avanti, i menscevichi internazionalisti non accettarono il fatto che i Ministri del Governo provvisorio erano stati imprigionati e proposero all’Assemblea una soluzione pacifica alla guerra civile in corso.
La proposta fu rigettata e il Congresso, con l’appoggio della stragrande maggioranza dei Soviet degli operai, dei soldati e delle delegazioni di contadini presenti, ratificò la fine del Governo Kerenskij
Petrograd, giovedì 8 novembre 1917
«Il giorno si levò su una città al colmo dell’eccitazione e dello smarrimento, su una nazione tutta sollevata in una formidabile tempesta» (4)
In apparenza tutto sembrava calmo, la vita quotidiana continuava a scorrere lungo i sentieri della normalità, né la guerra, né le scosse rivoluzionarie sembravano aver interrotto i complessi rituali abitudinari della moltitudine delle persone che formavano l’organismo sociale.
In realtà, qualcosa di nuovo era nato da tutte le macerie accumulate e stratificate in quell’ibrido feudale-borghese a cui la società russa corrispondeva.
E in essa le acque continuavano ad agitarsi, non accennavano a placarsi, infatti il Comitato di salvezza nazionale corse subito al riparo, sferrando un duro attacco ai bolscevichi, accusandoli di aver rovesciato il Governo in carica e che presto i loro folli attentati terroristici avrebbero portato il paese, la patria, sull’orlo del precipizio.
A nulla valsero queste ingiurie, di cui erano tappezzati i muri della città, nella mattina dell’otto novembre, anzi, la Locomotiva correva forte sui binari, il Comitato militare rivoluzionario era lanciato in una corsa sfrenata, le cui scintille sulla strada ferrata producevano ordini, proclami e decreti che esautoravano i poteri di Kerenskij, in fuga, e neutralizzavano i suoi sostenitori.
L’intera nazione, il mondo intero, ebbero modo di sentire quel vento che si trasformava in bufera, ebbero l’opportunità di percepire la Rivoluzione della Rivoluzione.
Ma fin da subito, gli scontri con i sostenitori del Governo deposto si fecero duri, i socialisti rivoluzionari di destra e i menscevichi continuavano ad accusare i bolscevichi di essere dei controrivoluzionari, di essere dei traditori e montavano dicerie (fake news) che sfioravano l’assurdo, come quella, per esempio, che l’assalto al Palazzo d’Inverno era guidato dai tedeschi e dagli austriaci.
I partiti borghesi, invece, aspettavano gli insorti al varco e si scagliavano contro i socialisti con parole cariche di sdegno e nei loro sproloqui gli sbraitavano in faccia: «noi ve l’avevamo detto di non fidarvi dei bolscevichi!».
Mentre, nelle file di questi ultimi si diffondeva con veemenza la sensazione di essere accerchiati, isolati, ragion per cui Lenin e Trockij dovettero sfoggiare tutta la loro intransigenza per tenere a bada le spinte al compromesso.
Fu in queste circostanze che Lenin entrò in scena, accolto da applausi scroscianti e calorosi. Egli – ci rammenta Reed – «aveva il potere di spiegare le cose profonde in modo semplice, di analizzare concretamente la situazione e possedeva la più grande audacia intellettuale». (5)
Nel prendere la parola al Congresso, si espresse nella direzione di edificare l’ordine socialista e nel pronunciare il discorso sulla necessità di raggiungere la pace con tutti i paesi belligeranti riuscì, con voce calma e ferma, a scuotere gli animi dei presenti e persuadere tutti i delegati (socialdemocratici ucraini, socialisti polacchi e lituani, eccetera) sulla sostanza della proposta indirizzata, non solo ai Governi europei coinvolti nel conflitto mondiale, ma soprattutto agli operai, ai contadini e ai soldati, ossia a tutti i proletari che continuavano a perire nel sanguinoso conflitto.
Il decreto sull’assegnazione della terra ai contadini, invece, incontrò qualche resistenza tra le forze politiche presenti, ma fu soprattutto l’occasione, per alcuni delegati al Congresso, di riaprire la polemica sulla legittimità di formare il nuovo Governo e destituire quello di Kerenskij.
Nel corso del dibattito ci fu un affondo da parte di un delegato dei ferrovieri, il cui sindacato non si era schierato con i bolscevichi, pertanto denunciava la mancanza del numero legale del Congresso, dopo che le delegazioni dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi avevano abbandonato l’aula.
Kamenev replicò a quest’attacco, sostenendo con voce serena che il numero dei delegati presenti al Congresso, dopo che le sopracitate forze uscirono dall’aula, era superiore a quello designato dal vecchio CEC.
Si passò, quindi, all’elezione del nuovo CEC, Trockij annunciò che 70 membri erano bolscevichi, gli altri 30 rappresentavano i contadini o i gruppi dissidenti, dichiarò, inoltre, che avrebbero accolto tutti quei gruppi che accettavano il loro programma.
Fu proprio su queste note che si sciolse il secondo Congresso panrusso dei Soviet e i loro protagonisti si diressero in lungo e in largo per il paese, per raccontare gli avvenimenti a cui avevano preso parte attiva.
Molti dei delegati, nel ritrovarsi nelle vetture dei tram, apparivano preoccupati agli occhi di Reed, forse perché, come lui stesso ha ipotizzato, pensavano: «Eccoci padroni! ma come faremo a far eseguire le nostre decisioni?». (6)
Da qui in avanti, il percorso divenne sempre più tortuoso e pieno d’insidie, le vicende e le diatribe che si propagarono da questo epicentro hanno influenzato la vita associata di milioni di persone in tutto il modo, hanno condizionato le tattiche e le strategie politiche di Governi contrapposti, ma soprattutto hanno contribuito a creare nuovi movimenti culturali che, spesso, sono entrati in collisione tra di loro.
Ora, penso che la spinta a scrivere quest’articolo non sia tanto legata alla possibilità di rivivere, mediante la lettura, l’esperienza dell’autore che narra determinati fatti storici e il quale ammette apertamente che le sue simpatie non sono neutre, quanto al desiderio di stimolare la curiosità di tutti quei lettori che non seguono vie maestre e che trovano il tempo, lo spazio e la forza di confrontarsi con quegli avvenimenti che, come dice J Reed, hanno sconvolto il mondo in quel periodo storico.
—— NOTE
1. L’edizione online curata dall’associazione culturale Larici, per le date fa riferimento al calendario gregoriano e quindi segue l’ordine degli eventi tracciato nella versione originale dell’opera di Reed. J. Reed, Dieci giorni che sconvolsero il mondo, traduzione italiana del 1961, www.larici.it
2. J. Reed, Dieci giorni che sconvolsero il mondo, traduzione italiana del 1961, p. 35.
3. Smol’nyi è l’edificio disegnato dall’architetto G. Quarenghi nel 1806. Prima di diventare il quartiere generale dei Bolscevichi, durante la Rivoluzione sociale, fu la sede del primo Istituto per l’educazione delle nobili fanciulle russe.
4. J. Reed, Dieci giorni che sconvolsero il mondo, cit., p. 81.
5. Ivi, p. 90.
6. Ivi,