Nella mia immersione, come lettore, nell’originale raccolta di testi ideata da Leo Essen, ho trovato molti spunti di riflessione che hanno stimolato l’arte del conoscere e messo a tacere, in un certo senso, le forti pressioni, a cui siamo esposti, per le forme di apprendimento per competenza, connesse, per lo più, con la matrice anglofona. Per l’altro verso, invece, ho colto l’opportunità di riprendere e articolare una breve rivisitazione di concetti chiave come valore, prezzo e plusvalore
Sebbene il linguaggio dell’autore sia ricco e acuto, denso e puntuale, rigoroso e complesso, per via dei tanti pensatori universali e ostici a cui fa riferimento (Hegel, Kant, Leibniz, Marx, Nietzsche, ecc.), senza dimenticare gli economisti della scuola austriaca di fine Ottocento, i modelli matematici di Sraffa applicati all’economia, le profonde e precise elucubrazioni di Keynes sulla moneta, e così via, si può affermare con scioltezza che lo scorrere del testo non subisce appesantimenti, ma richiede di approfondire la propria conoscenza, dedicandoci il tempo necessario e la giusta attenzione.
Il suo ritmo è incalzante e si muove con disinvoltura nel confrontare l’empirismo con l’idealismo; il pensiero filosofico è contaminato da quello economico e viceversa, non s’intravvedono cesure nette e lineari nelle varie forme di sapere che si dispiegano nel tempo e nello spazio: al momento opportuno, con un guizzo magistrale, trova la sintesi e i collegamenti tra valori e prezzi, ne evidenzia le implicazioni, stroncando le sterili polemiche. E su questo terreno che, per esempio, riesce a districare la complicata matassa della teoria dell’equilibrio, cogliendone pregi e limiti. I rappresentanti di questa scuola (Menger, Walras, Marshall) riconoscono che il valore emerge dal confronto tra le merci, una singola merce non ha alcun valore, non si danno prezzi singoli, mentre approdano alla conclusione che, attraverso la legge della domanda e dell’offerta, si arrivi al prezzo esatto, ossia rinunciano al prezzo giusto per trovare la formula del prezzo esatto. Formula che permette a Walras di gareggiare con Dio, nondimeno qualunque sia la potenza e la precisione del calcolo, è impossibile, come scrive Essen, abbracciare la serie completa delle compere e delle vendite, a meno di porsi fuori dalla serie, ma porsi fuori dalla serie significa porsi fuori dal tempo.
Sarà il mercato a verificare, se un determinato bene può essere scambiato al corrispondente prezzo, ma qualora questa convalida non dovesse avvenire, il bene perde il suo valore presunto. Ovviamente, in questo schema, ciascun bene troverà in modo automatico il prezzo esatto, pertanto quei beni che rimarranno invenduti non producono perturbazioni sull’equilibrio generale dei prezzi.
Gli equilibristi, nella loro perseveranza che tracima nella cocciutaggine, non si rendono conto che tutti i tentativi di ricondurre il valore al prezzo somigliano, per certi aspetti, alla quadratura del cerchio.
A questo punto, nel seguire il discorso di Essen, diamo spazio al pensiero di Marx, il quale sostiene che Il prezzo è il nome (di denaro) della quantità di lavoro spesa nella produzione della merce.
E nel passaggio dalla merce al denaro non c’è una strada tracciata che porti dal corpo della merce al corpo del denaro, ma si deve verificare un salto, un salto mortale. Quindi, non è detto che questo passaggio vada a buon fine – un po’ come succede nella comunicazione dei messaggi verbali – e non c’è nessuna equivalenza automatica tra il prezzo giusto e quello esatto, ci sono continue oscillazioni. Il prezzo nominale non corrisponde a quello reale come il valore di mercato non coincide con quello reale.
Le continue oscillazioni producono le crisi, crisi che, come ci rammenta Marx, a volte, sono violente e distruttive, tuttavia la differenza tra valore e prezzo permane, in quanto essa permette che si verifichi lo scambio.
E su queste note che Essen chiarisce due aspetti essenziali della relazione tra valore e prezzo, in primo luogo si chiede: «Cosa significa, per esempio, che il prezzo delle merci è costantemente superiore o inferiore al loro valore, e lo stesso valore delle merci esiste soltanto negli alti e bassi dei prezzi delle merci?».
La sua risposta, secondo me, è dirimente: «il valore non è, rispetto alle oscillazioni del prezzo, un terzo elemento cui rapportare questi scostamenti per valutarne lo scarto dal prezzo esatto o da esigere».
Se si pone il valore come un terzo elemento, si cade nel cattivo infinito, si finisce nel vortice dei giochi senza fine, interminabili.
In secondo luogo, Essen, coglie la sintesi sul valore nelle principali opere di Marx (Capitale e Lineamenti), valore inteso come forza propulsiva delle oscillazioni a cui sono soggetti i prezzi delle merci e tenendo presente che esso esiste solo in questa variazione dei prezzi delle merci, e ne delinea il significato: «il prezzo è il fenomeno dal valore, senza valore non ci sarebbe fenomeno, visto che il valore fornisce la forza impulsiva – il Triebkraft. Ma il valore non è la sostanza del prezzo. Il valore è l’intero che si divide in valore e prezzo, è l’identità dell’identità e della non identità».
Essen mette in atto un metodo analitico che permette al lettore di immergersi nei gineprai di autori che hanno lasciato la propria impronta nella cultura economica, politica e sociale, come A. Graziani e J. Baudrillard. Inoltre, dal suo lavoro è possibile apprendere, per esempio, che Montesquieu spiega bene quel concetto di cui Von-Hayek, due secoli dopo, ha un gran timore: l’inflazione. Ebbene, essa non è «il rapporto di una quantità di una cosa x con una quantità di una cosa y, ma il rapporto di due cose in movimento». Ma apre anche uno spiraglio nelle complicate riflessioni di Colletti sugli sviluppi del pensiero marxista. Il disgusto di Colletti per il Diamat – scrive Essen – lo portò ad abbandonare Hegel per arretrare a Kant
Ora, io credo che i lettori curiosi e interessati, in questo saggio, potranno trovare molti spunti di riflessioni che s’intrecciano con i loro percorsi di ricerca, mentre io, prima di chiudere questa breve presentazione, porrei in evidenza un’altra questione rilevante che, in qualche modo, è collegata alla sintesi sul valore e prezzo.
Mi riferisco alla decostruzione, di Böhm-Bawerk, della teoria del Plusvalore di Marx,
Colui che è considerato uno dei padri fondatori della scuola austriaca di economia, nell’esaminare Il Capitale, rileva una contraddizione insanabile tra il primo e il terzo libro.
Essen rielabora questo tema, noto come «trasformazione dei valori in prezzi» o «determinazione del saggio medio di profitto», e individua una chiave di lettura interessante, che ci permette, in qualche modo, di reinterrogarci sulle difficoltà che esperiamo nella fase attuale.
Per Marx ciò che permette di commisurare e di scambiare le singole merci è il semplice dispendio di forza-lavoro che ogni individuo possiede in media nel suo organismo. Egli parla di lavoro socialmente necessario o lavoro semplice medio e tiene conto del tempo come unità di misura di questa quantità pura.
Una volta date queste due variabili, si chiede Böhm-Bawerk, che cosa permette di equiparare lavori qualitativamente diversi tra di loro, che cosa fa sì che il prodotto di una giornata di lavoro di uno scultore, equivale, in valore, al prodotto di cinquanta giornate del tagliapietre? In breve, in che modo vengono stabilite le proporzioni secondo le quali il lavoro qualificato viene ridotto a lavoro semplice?
Le argomentazioni di Marx al riguardo, secondo Böhm-Bawerk, sarebbero inconsistenti, al punto da compromettere l’intero impianto teorico.
Il fattore di riduzione, sostiene Marx, è determinato, dal, e solamente dal, rapporto reale di scambio. Il calcolo, in termini di lavoro semplice, dei valori delle merci prodotte dal lavoro qualificato non è determinato, né è determinabile, attraverso una quantità pertinente di quello stesso lavoro; piuttosto è il successo che decide, cioè il rapporto di scambio effettivo.
È il successo che determina il valore dei prodotti di lavoro qualitativamente differenti tra di loro. Per diventare un calciatore famoso, talento, intelligenza motoria e forza fisica non sono sufficienti, occorre che si verifichino una serie di eventi favorevoli e che spingano nella giusta direzione, infatti, delle centinaia di migliaia di giovani che ci provano, una percentuale irrisoria approda alla categoria più elevata. Ma chi stabilisce che C. Ronaldo guadagni 97 milioni di euro all’anno e un collaboratore ecologico incassi uno stipendio, che in un contesto sociale quale può essere una grande città, a volte, non è sufficiente a vivere una vita decorosa? Non dipende forse dal processo sociale che si è dispiegato nell’ultimo secolo? (1) L’apprezzamento dei calciatori professionisti che vengono ingaggiati nella prima divisione è connesso, non solo con la diffusione capillare di questo sport, ma anche dalla crescita esponenziale che ha caratterizzato la partecipazione del pubblico alla visione delle partite negli stadi o mediante i diversi canali televisivi. Di questo processo sociale, spesso, non ne siamo consapevoli, così come siamo ignari del fatto che il marketing indiretto del calcio riesce a veicolare l’illusione che ogni piccolo calciatore possa diventare come Ronaldo.
Tuttavia, come rileva Essen, Böhm-Bawerk non riesce a concepire che Marx riconduca il concetto di valore, in quanto riferito alla quantità pura che mette a confronto le varie proporzioni di differenti generi di lavoro, a un processo sociale che chiama in gioco l’essere.
Per il teorico della scuola austriaca, valore rimane sul piano della logica, mentre essere riguarda l’ontologia, l’equivalenza che viene stabilita sul piano astratto si deve verificare anche su quello concreto, altrimenti l’intero edificio teorico crolla.
È su questa base che Böhm-Bawerk – asserisce Essen – misura le contraddizioni di Marx, contraddizioni che egli interpreta non come esse sono intese da Hegel e da Marx, ovvero come contraddizioni metafisiche, ma, invece, come contraddizioni logico-formali.
Nonostante quest’ultima clamorosa confusione, l’economista austriaco lasciò il suo segno, nel senso che colse di sorpresa i marxisti, i quali non seppero replicare a quest’attacco, infatti dopo la prima guerra mondiale, spostarono il focus del dibattito dal tema del plusvalore a quello della reificazione.
Nel suo tentativo, in parte riuscito, di demolire la teoria del valore lavoro, Böhm-Bawerk avanzò la tesi che nel “mondo reale” capitali totali della stessa entità danno luogo a profitti uguali. Marx parte dal presupposto, invece, che il rendimento di capitali dello stesso ammontare dipenda dalla loro composizione organica, cioè dal rapporto tra capitale costante e capitale variabile. Ed è proprio la componente variabile (l’acquisto di forza lavoro) di identici capitali complessivi a genera profitti differenti.
Quest’ultima affermazione di Marx, secondo Böhm-Bawerk, come sottolinea Essen, sarebbe smentita nel capitolo 10 del terzo libro, in quanto perverrebbe alla conclusione che tutti i capitali, qualsiasi sia la composizione, tendono, sotto la pressione della concorrenza, ad eguagliarsi a quelli di composizione media. (2)
Pertanto, l’intero edificio teorico elaborato nel Capitale crollerebbe sulle sue fondamenta, poiché una volta si dice che le merci si scambiano secondo il lavoro in esse incorporato e di conseguenza non si verifica il livellamento dei guadagni dei capitali e nello stesso tempo si afferma che il livellamento dei guadagni di capitali si verifica, quindi il discorso che le merci si scambiano in base al lavoro in esse incorporato non si regge in piedi. Nella logica formale non trova posto un ragionamento che affermi e neghi contemporaneamente la stessa cosa, non c’è spazio per la contraddizione metafisica, intesa come movimento, come principio di ogni muoversi, come forza vitale.
Anzi, la coerenza formale del capostipite della scuola austriaca, considerata una vera gemma di analisi teorica e di rigore epistemologico (3), aborrisce la vitalità della teoria del valore-lavoro e insemina un tarlo nel marxismo che diventa dirompente nei primi anni 70 del secolo scorso.
A far precipitare la situazione contribuì, come scrive Essen, la sentenza di Marcuse, rinvenuta in un foglio dei Grundrisse. Ci riferiamo all’arcinoto frammento sulle macchine dove si afferma che il lavoratore non è più produttore di valore, egli sorveglia e regola il processo produttivo, mentre la creazione della ricchezza reale dipende in misura sempre maggiore dalla potenza delle macchine e in misura sempre minore dal tempo e della quantità di lavoro erogata.
La ricchezza creata dai lavoratori e dalle lavoratrici, si presenta come una misera base, se viene confrontata con quella prodotta dalle macchine, ma non si può dimenticare che queste ultime sono costituite da lavoro accumulato, lavoro oggettivato e che il “lavoro morto” trae linfa dal “lavoro vivo”. Come non si può trascurare, a mio avviso, che il sapere sociale generale, ossia l’insieme delle scoperte scientifiche, delle relative applicazioni tecnologiche e delle nuove forme organizzative, si è condensato nelle macchine, nella produzione automatizzata, e viene assorbito dal capitale fisso. Il cosiddetto General intellect diventa capitale fisso di cui si appropria il capitalista.
Purtroppo, le distrazioni furono molte, pertanto – come scrive Essen – non appena il lavoro dell’uomo cessò di essere la fonte della ricchezza, anche il tempo di lavoro smise di essere la sua misura. E su questa strada che l’archiviazione della questione del Plusvalore, e dunque dello sfruttamento, poteva considerarsi portata a termine.
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- Nel 1926, per esempio, un maestro della scuola elementare guadagnava 400 lire al mese, un magistrato 1.000 lire, mentre Fulvio Bernardini, che in quella stagione giocava ancora per la Lazio, incassava 606 lire, ma non certo come calciatore, perché la sua busta paga si riferiva all’impiego in banca, garantito – ovviamente – dal club d’appartenenza.
- Qui, su questo punto, penso che Marx si riferisca alla concorrenza perfetta come a un modello ideale.
- F. Piperno, Lavoro e tempo di lavoro in Marx, Uninomade, 2012.