«Contro il lavoro», pubblicato da Franco Berardi (Bifo) nel 1970, è un’ottima sistematizzazione delle idee di Potere Operaio (operaismo). Si tratta di idee che hanno preso piede per la prima volta nelle riflessioni di Tronti pubblicate a partire del 1962 sui Quaderni Rossi.
Sono trascorsi 60 anni, per una corretta comprensione dei temi trattati è importante collocare queste idee nel loro periodo. Inoltre, bisogna tenere conto di due importanti temi che si imposero con forza negli anni Cinquanta: 1) il capitalismo monopolistico come forma di proto-socialismo, e 2) l’automazione come elemento dinamico del neo-capitalismo.
Nel 1942, in un libro che, qualche anno dopo negli USA, sarebbe diventato un best seller, Schumpeter dice, in primo luogo, che il Big Business, anche dal punto di vista della borghesia, è più efficiente della libera concorrenza. Agendo nelle condizioni proprie dello sviluppo capitalistico il regime della concorrenza perfetta crea sperperi (distruzione creatrice). L’azienda compatibile con la concorrenza perfetta è in molti casi inferiore come efficienza interna, specialmente come efficienza tecnica. La concorrenza perfetta, dice, è non soltanto impossibile, ma inferiore, e non ha nessun titolo per esser elevata a modello di efficienza.
Il Big Business è superiore, permette quelle economie di scala in grado di finanziare volumi di capitale costante necessari per implementare sistemi integrati di automazione.
In secondo luogo, dice Schumpeter, la moderna società per azioni (il big business), pur essendo un prodotto del processo capitalistico, socializza la mentalità borghese; riduce sempre più il campo d’azione del movente borghese; non solo, ma tende a intaccarne le basi.
Le grandi imprese sono organizzazioni burocratiche, dirette da persone che non hanno alcun legame con la proprietà. Il rapporto che legava il borghese alla proprietà dei mezzi di produzione si è sciolto. Il passo verso il controllo pubblico dei mezzi di produzione è per metà fatto – dice Schumpeter.
Il socialismo, dice, è, appunto, un quadro istituzionale in cui il controllo dei mezzi di produzione e della stessa produzione è devoluto a una autorità centrale – gli affari non appartengono più alla sfera privata, ma alla sfera pubblica. Dunque, il Big Business – il sistema delle imprese di grandi dimensioni dirette burocraticamente – prefigura un sistema socialista. Occorre solo fare l’ultimo passo, devolvendo allo Stato la proprietà e la gestione delle imprese.
Per quanto riguarda il tema dell’automazione, invece, l’operaismo porta in primo piano e generalizza alcune idee espresse da Marx nel capitolo del Capitale sulle macchine e in alcuni inediti dei primi anni Sessanta.
La critica operaista al socialismo di Stato, ridefinito Stato-Piano, è strettamente legata alla critica all’automutilazione. Lo Stato-Piano è la risposta alle lotte degli operai specializzati. La sostituzione degli operai specializzati con le macchine, la dequalificazione, la subordinazione dell’intera vita sociale alla produzione, sono facce della stessa medaglia. Il socialismo è lo stadio del capitalismo al tempo dell’automazione.
I sostenitori dello Stato-Piano (della pianificazione socialista) dicono che il capitalismo, con la sua distruzione creatrice, non è un sistema efficiente per gestire l’economia. Esso causa inefficienze e crisi cicliche. Il modo per salvare il capitalismo da se stesso è rappresentato dall’introduzione di una economia pubblica pianificata, posta sotto il diretto controllo dello Stato. Oppure, nella versione keynesiana, si dice che il capitalismo non è in grado di utilizzare tutte le risorse a sua disposizione; esso crea disoccupazione e distruzione di capitale. Lo stato sociale, sotto il diretto controllo pubblico, potrebbe mettere in circolazione le risorse inutilizzate (risparmio e forza-lavoro) e rimediare alle deficienze del capitalismo.
II
Nei manoscritti del 1861-63 (V-205) Marx dice che il macchinario è inventato e impiegato contro gli scioperi, contro le rivendicazioni di aumento del salario. Dice che gli scioperi si verificano per lo più per questo, o per impedire la riduzione dell’orario o per strappare un aumento del salario o per fissare i limiti della giornata lavorativa normale. Con gli scioperi, dice, si tratta sempre di contenere entro certi termini la massa assoluta o relativa del tempo di pluslavoro o di far sì che il lavoratore stesso si appropri di una sua parte. Contro di ciò il capitalista introduce il macchinario. Qui, dice, la macchina si presenta direttamente come mezzo per accorciare il tempo di lavoro necessario; idem come forma del capitale – mezzo del capitale – potere del capitale – sopra il lavoro – per reprimere ogni pretesa di autonomia da parte del lavoro. Qui il macchinario entra in scena anche intenzionalmente come forma del capitale ostile al lavoro; i selfactors, nella filatura le wool-combing-machine, il cosiddetto condenser al posto della «slubbing machine» girata a mano (anche nella tessitura della lana) e così via, sono tutte macchine inventate per reprimere gli scioperi.
In questo passo di Marx ci sono tutti gli ingredienti dell’operaismo. C’è la polemologia, l’autonomia, il conflitto, lo sfruttamento, la repressione, soprattutto, c’è un’idea di differenza, di differenza come motore della storia.
Una classe da sola, dice Bifo, non esiste. Un pensiero della differenza: questo è il punto di partenza dell’operaismo. Il capitale si muove perché c’è differenza. Differenza tra lavoro vivo e lavoro morto, tra capitale fisso e capitale variabile. Questa differenza è irriducibile. L’idea di equilibrio generale, di uno stato pianificato, o di un capitalismo programmato, è ideologia, utopia, mito. Il capitale avrà sempre bisogno di muoversi in questa differenza, non potrà mai eliminare il lavoro vivo, in quanto è proprio e soltanto il lavoro vivo che alimenta le sue performance.
A cosa serve allora la pianificazione? Serve a gestire il conflitto, a renderlo compatibile con gli interessi del capitale.
Il capitale pianificato, dice Bifo, raggiunge l’equilibrio facendo funzionare la classe operaia e la pressione complessiva del lavoro vivo come momento di interna ristrutturazione. Usa la lotta come motore di sviluppo.
Se la pianificazione è un metodo di integrazione del conflitto nelle dinamiche di sviluppo, allora gli operai sono contro lo sviluppo, vogliono rifiutarlo.
Allo stesso tempo, rifiutano l’idea di una presa del potere, di un controllo dello Stato, di una direzione della società. Far funzionare le classi come una società è interesse del capitale.
Potere, dice Bifo, non vuol dire presa del potere, direzione della società, gestione costruttiva dello sviluppo. Gestire lo sviluppo significa accettare la subordinazione del lavoro vivo al lavoro morto. Invece, dice, si tratta di scegliere l’insubordinazione, il disordine organizzato.
In ogni caso, bisogna sempre considerare che proprio in quanto l’operaio non vuole subordinarsi al lavoro morto, il processo di ristrutturazione si avvia.
Qui farebbe scandalo l’inoperosità suggerita da Deleuze. Ma l’operaio lavora, dunque si oppone. E in questa logica oppositiva, il capitale lo riprende. Ci vorrebbe un bel I prefer not to – ma l’operaio ha bisogno di lavorare. Non ha scelta, non può scegliere di lasciarsi andare.
L‘operaio insubordinato, l’operaio in sciopero, viene sostituto con le macchine: machines do not go on strike – dice Bifo.
L’automazione e la cibernetica, dice Bifo, sono introdotte e usate contro l’insubordinazione. Il lavoro vivo non può essere totalmente eliminato. Le macchine portano il capitale a un livello di maggiore produttività. Rilasciano, ma non creano, valore. Dunque, si deve cercare sempre qualche espediente di controllo e di repressione per integrare il lavoro vivo nella fabbrica automatizzata.
Qui vengono in aiuto il sindacato e lo Stato.
In questo conflitto, dice Bifo, si inserisce il sindacato, come mediatore, come istanza di ricomposizione del conflitto e di gestione positiva dello sviluppo. Con la contrattazione il sindacato congiunge ristrutturazione e sviluppo, sviluppo e integrazione.
Il piano è dunque il tentativo di regolare gli elementi in conflitto come parti integranti e complementari. Lo Stato è il luogo della mediazione del conflitto. È il luogo della neutralizzazione del conflitto.
L’equilibrio, la programmazione, la riduzione degli sprechi, tutta la politica volta e controllare o a eliminare le crisi, tutto il socialismo reale e ideale, ogni idea di pianificazione, hanno di mira l’integrazione del lavoro vivo nella fabbrica automatizzata. Se questa integrazione dovesse saltare, non ci sarebbe più produzione di valore. Che le macchine possano produrre valore, dice Bifo, è solo un mito, un’utopia. Le macchina rilascino valore, si ammortizzano, solo il lavoro effettivo le vivifica.
Dunque, dice Bifo, bisogna sopprimere il lavoro produttivo. Il lavoro vivo deve lottare contro se stesso. In quanto la forza-lavoro è funzione interna del capitale e sviluppa il lavoro morto, bisogna suonare la campana a morto per la forza lavoro. Il salario – inteso come domanda – ristruttura e rilancia di continuo le possibilità di sviluppo e di consumo, quindi lavora per la produzione.
Il piano è la previsione, la legittimazione e la codifica del conflitto, che viene di continuo riassorbito nell’equilibrio complessivo. Ma non c’è un piano alternativo.
Non c’è un contro-piano operaio, come ci sarebbe, per esempio, una contro-informazione. La controinformazione è ciò che il sindacato è per il capitalismo: un’agenzia di sviluppo.
III
La polemologia di Bifo (e di PotOp) passa innanzitutto per la decostruzione dei residui teleologici del marxismo meccanicistico e volontaristico.
Se esistono delle leggi di sviluppo che guidano il rapporto tra forze produttive e rapporti di produzione, delle leggi scientifiche, quali la caduta tendenziale, la concentrazione, la crisi, eccetera, qual è allora, dice Bifo, il ruolo dell’organizzazione operaia? Essa deve solo attendere, e accettare tutto, accettare persino le purghe, lo sfruttamento, eccetera, perché tutto, persino l’internamento, conducono scientificamente verso l’eliminazione delle classi e dello sfruttamento?
Se la storia si muove secondo una necessita scientifica, allora non rimane che attendere, e nell’attesa lasciarsi scivolare addosso tutto, vuol dire che della libertà dell’individuo, della sua dignità di uomo, non è rimasto niente?
Nel meccanicismo, dice Bifo, il soggetto è ridotto a semplice appendice interna dello sviluppo.
Questo meccanicismo corre in tutta la storia del socialismo realizzato e del socialismo ideale: nell’effettiva gestione socialista dello sfruttamento e nell’ideale pace socialista fondata sulla rassegnazione al lavoro. Rassegnazione del lavoro.
Il meccanicismo, dice Bifo, si muove nell’ipotesi che lo sviluppo economico-tecnologico conduca a una esplosione dei rapporti di produzione, e a una loro crisi in cui le forze di lavoro produttive, sovvertendo le attuali forme di proprietà dei mezzi di produzione, si dispiegano interamente.
Il meccanicista riduce la classe a effetto diretto della macchina produttiva. La tecnologia viene vista come mero sviluppo di conoscenze, e non come il risultato della dialettica capitale/lavoro. La tecnologia non viene letta in relazione alle esigenze di repressione dei movimenti di classe. Per il meccanicismo ogni innovazione tecnologica trova in sé la sua ratio. L’innovazione è semplice accumulazione, ha in se stessa il proprio motore. La tecnologia è neutrale.
E, invece, come dice Marx, la tecnologia è sollecitata dal conflitto tra capitale e lavoro. È introdotta nella produzione per disinnescare il conflitto. Il suo sviluppo non deriva da una esigenza, per così dire, interna, teorica. Non è il frutto di una occasionale genialata. È la risposta al conflitto. È il confitto stesso, ri-trascritto ad un altro livello – un suo riposizionamento tattico.
Contro il meccanicismo Bifo gioca la Fenomenologia. Non si dà un oggetto esterno che si muove con una dinamica propria e che si specchia o rimbalza su un soggetto determinandone l’azione. Non c’è nessuna relazione struttura/sovrastruttura. L’esistenza della struttura non può condizionare l’esistenza della coscienza, poiché la struttura stessa è un correlato di coscienza, ed esiste solo in quanto si costituisce in connessioni soggette a regole. La struttura (il fuori) ha un’esistenza intenzionale. E il pensiero non appartiene alla coscienza come un attributo essenziale di una cosa che pensa. Non si può dire che prima esiste la coscienza e che poi essa tende verso il suo oggetto – lo pensa. Dunque, non è ammissibile pensare a una coscienza come una cosa pensante, che, vuota, deve essere riempita, deve prendere coscienza. Pensiero, significa sempre pensare. E pensare significa essere presso ciò che si pensa. Pesare significa esistere. Fare esperienza. Ciò che le cose sono, lo sono in quanto cose dell’esperienza. Ma non è tutto. Intenzionare non è quell’esperire che si dirige verso un oggetto che preesiste, e ne prende coscienza e lo trasforma. La tecnologia, come ha chiarito Bifo, non è immediatamente capitale morto. Deve attendere di diventarlo. Il capitale morto ha un senso (valore economico) perché viene vivificato dal lavoro vivo, dunque diventa ciò che effettivamente è solo quando il lavoro vivo lo intenziona, anzi, per essere precisi, il capitale morto non è niente, nemmeno capitale in potenza, fuori dall’intenzione: capitale morto è lotta di classe. La relazione intenzionale con l’oggetto non viene al soggetto con e grazie al sussistere dell’oggetto, ma lo stesso oggetto risulta in sé strutturato intenzionalmente. Parlare di una relazione del percepire all’oggetto percepito risulta equivoco, come è equivoco, a questo punto, parlare di una struttura soggetto/oggetto. Non c’è alcun soggetto che si dirige verso un oggetto, come non c’è alcun oggetto verso cui un soggetto vuoto si dirige. L’idea di un soggetto che ha dei vissuti intenzionali solo entro la propria sfera e che non è mai fuori di sé, ma è rinchiuso nella propria capsula, è un’idea assurda, che fraintende la struttura di ciò che noi stessi siamo.
D’altra parte, il volontarismo è un meccanicismo ribaltato. Non c’è un legame necessario tra forze produttive e rapporti di produzione. Se ci sarà rivoluzione, dice il volontarismo, questa non avverrà in conseguenza di una legge di contraddizione, ma solo e unicamente per maturità della coscienza di classe. Il volontarismo condivide con il meccanicismo l’idea che il mondo esterno si muove secondo le sue leggi. Per il meccanicista il soggetto non può niente (niente potere operaio), perché tutto (anche il soggetto) è determinato (necessariamente) dalle leggi del mondo là fuori; mentre per il volontarista il soggetto può tutto (se lo vuole) perché in nulla dipende da leggi che gli sono estranee. In tutti e due i casi viene lisciato il tema dell’esser situato dell’uomo. Ovvero l’idea che nessun cammino stacca i piedi dalla strada in cui è situato, per risalire le condizioni sino a un punto di origine. Non c’è alcuna anteriorità dello spirito rispetto alle cose in cui è invischiato.
Per entrambi gli atteggiamenti, il mondo è un oggetto. Per il meccanicismo è un oggetto che segue leggi che determinano completamente il soggetto. Per il volontarismo è sempre un oggetto esterno che può essere completamente determinato dalla volontà umana. È sufficiente avere una volontà di ferro per far fare al mondo ciò che si vuole. Non c’è alcuna relazione tra il mondo e la volontà di agire su di esso. Sono, come in Cartesio, e come nella scienza moderna in genere, due entità separate.
Marx, dice Bifo, non fa scienza – non fa economia. Non ha un oggetto di studio. Soprattutto, non ha un metodo, non ha, rispetto a ciò che fa, un approccio gnoseologico. La sua ricerca è sempre situata. È critica. E la critica non è un fatto esterno, teorico, semmai è l’articolazione teorica di una critica pratica.
Per il volontarista la coscienza è astratta, tratta fuori, slegata da ciò su cui si dirige – non è intenzionata, non è situata. Non è mai nel mondo, parte del mondo. Il volontarista si rappresenta come un ente extra mondano, immagina di agire da un punto svincolato – libero – da ogni rapporto mondano. Questa liberazione esogena, dice Bifo, è realizzata da ciò che è già libero (il pensiero negativo di Marcuse, o il pensiero creativo di Mao). Per il volontarista il pensiero non è situato, non è realtà contro realtà: il soggetto si definisce sulla base dell’adesione a un’ideologia.
PotOpt, dice Bifo, non è né forza-lavoro (necessità) né partito (libertà).
La contraddizione non sta nel capitale (meccanicismo), nei suoi cicli, nel suo sviluppo, né nella resistenza politica da classe operaia.
Criticare il capitale non significa ristabilire la verità, denunciandone la falsa rappresentazione, ma rovesciarne il funzionamento. Non ci sono falsità che andrebbero smascherate. Non ci sono retro-mondi. Non ci sono verità sospese. Tutto è qui.
Marx non studia il capitale, la produzione, la società eccetera, come ambiti di una sviluppo regolare, in cui si possono individuare leggi. Marx attacca il lavoro morto dal punto di vista del lavoro vivo. Si inserisce in un processo pratico di trasformazione della realtà. Attacca da un lato, e non può attaccare anche dall’altro. Non si pone dal punto di vista della società – ovvero della totalità. Quando si lotta per gli interessi di tutta la società, dice Bifo, la classe operaia si batte per il capitale. La visione complessiva della società, la visione tipicamente sociologica, è una visione del capitale. Il capitale ha necessità di vedere insieme il lavoro morto e il lavoro vivo, ha interesse di tenere insieme tutta la filiera, dalla nascita alla morte. Con la sua scienza sociologica, il capitale oggettivizza la società
IV
La lotta è lotta contro il lavoro vivo. Tutto comincia da qui, dice Bifo. Il processo di valorizzazione non può prescindere dal lavoro vivo produttivo. La lotta contro il lavoro comincia qui il suo percorso. Lotta dell’operaio contro il lavoro vivo, contro la forza lavoro. Lo schema è semplice. Il lavoro vivifica il capitale, basta togliere la spina del lavoro vivo.
La rivitalizzazione del lavoro morto avviene a due livelli. Ad un primo livello, il lavoro vivo conferma il lavoro morto. Senza impiego di lavoro vivo il capitale semplicemente non esiste. Non c’è un capitale disponibile che, in un secondo momento, diventa capitale effettivo. Questo regno edenico e idealista, caro al circuitismo e al monetarismo, non c’è, non esiste. Marx lo ha chiarito bene nel capitolo sull’accumulazione originaria. Ad un secondo livello, la pressione della forza lavoro, impegnata nella produzione, tende a elevare il costo del lavoro, e a resistere alla intensificazione produttiva. Il capitale risponde aprendo un meccanismo repressivo che passa attraverso la sostituzione di lavoro con macchinario. L’aumento del costo del lavoro, anzitutto, rende più utile al capitale applicare nella produzione macchinario, sostituendo operai. La resistenza operaia al lavoro costringe il capitale a trovare il modo di ridurre i margini di autonomia del capitale variabile, e a chiudere sempre di più i suoi movimenti dentro i movimenti del capitale costante.
In generale, dice Bifo, sono gli operai a determinare il progresso economico e tecnologico tramite una pratica antiproduttivistica – insubordinazione, autolimitazione, assenteismo.
Quando l’operaio inventa un metodo per recuperare tempo, il capitale sfrutta questo metodo, lo industrializza rivoltarglielo contro. La partecipazione dell’operaio alla modificazione del modo di produzione è rovesciata in riduzione continua dei margini di autonomia. Questo è ciò che si chiama furto dell’invenzione operaia.
Tutto ciò, dice Bifo, ha un risvolto negativo per il capitale. Più aumenta la resistenza e la lotta, più l’operaio viene sostituito dalla macchina, più aumenta la composizione organica, e più aumenta la capacità distruttiva del singolo operaio.
Infine, dice Bifo, l’attacco al lavoro vivo non va confuso con il luddismo. Quando accusano noi operaisti di luddismo commettono un grave errore. Il rifiuto del lavoro non è violenza contro il lavoro morto, difesa dell’occupazione. Tutta questa roba gli operai la lasciano gestire ai sindacati e ai “comunisti”. Il luddismo è tutto il contrario del rifiuto del lavoro; il luddismo è difesa del lavoro, è affermazione del lavoro vivo. Rifiuto del lavoro è una strategia complessiva: No alla civiltà del lavoro di Ulbricht, di Brand, di Mao, di Breznev e di Nixon.