The Kula, che è al centro dell’opera di Malinowski Argonauti del Pacifico Occidentale, (1) è una forma di scambio intertribale, portato avanti dagli abitanti delle isole Trobriand, una serie di isole che costituiscono un ampio anello, una specie di grande raccordo anulare disegnato nel mare. Lungo questa rotta, scrive l’autore del libro, due tipi di articoli si muovono in opposte direzioni. Lunghe collane di conchiglie rosse (soulava) viaggiano come le lancette dell’orologio, mentre i braccialetti di conchiglie bianche (mwali) si muovono in direzione antioraria.
Ogni singola transazione non esaurisce il rapporto di scambio che sorge con questa pratica sociale, la regola è: “once in the Kula, always in the Kula”. Insomma, nasce una forma di collaborazione che dura per tutta la vita e lega soggetti e oggetti dello scambio in modo duplice.
A fianco degli scambi di soulave e mwali, spesso, accompagnati da cerimonie pubbliche, i nativi praticavano lo scambio di un gran numero di prodotti agricoli e artigianali che non erano presenti in alcuni distretti e indispensabili per la riproduzione della vita sociale.
Entrambi i rapporti di scambio – osserva Malinowski – sono basati su specifiche forme di credito, le quali implicano un alto grado di fiducia reciproca e onore commerciale. Ma poi ritorna sulla relazione cerimoniale e si chiede: cosa spinge gli abitanti delle isole Trobriand a scambiare, mediante una serie di interminabili e ripetute azioni, due articoli che non servono a niente (useless), che non soddisfano neanche lo scopo ornamentale?
Nella sue interazioni con gli indigeni, egli nota che il 90% dei braccialetti (arm-shell) sono troppo piccoli per essere indossati, anche da ragazzi e ragazze, mentre quelli che cadono nella restante percentuale acquisiscono un valore troppo prezioso, quindi finiscono per essere utilizzati in occasioni speciali. Ostacoli e complicazioni sorgono anche con le collane di conchiglie (shell-strings), le quali, se è vero che possono essere indossate, è anche vero che sono troppo preziose o ingombranti per svolgere la funzione ornamentale, quindi anch’esse finiscono per essere utilizzate solo occasionalmente.
The vaygu’a, cioè gli oggetti di valore del Kula, che davano impulso allo scambio simbolico e che costituivano una sorta di «denaro fiduciario», erano inondati dagli oggetti di ordinario uso, pertanto, contribuivano al commercio, nello specifico al baratto di quegli elementi materiali necessari alla riproduzione delle condizioni di esistenza delle singole tribù e al rinforzo dei rapporti intertribali, mediante una serie di collaborazioni dirette o indirette o intermediate, che legavano insieme, in un tessuto intrecciato, uomini che si trovavano distanti a centinaia di chilometri di navigazione gli uni dagli altri.
Sin dall’inizio, dunque, non si realizza o non prende forma uno scambio «ideale», «puro» avulso dallo scambio materiale di oggetti che esprimono un valore d’uso. Così come fin dall’inizio lo «spirito» porta in sé la maledizione di essere «infetto» dalla materia, che si presenta qui sotto forma di strati di aria agitati di suoni, e insomma di linguaggio.(2)
E a proposito di linguaggio il termine useless (inutile, che non serve a niente) non si contrappone in modo meccanico e manicheo al termine usefull (utile), nel senso che si scindono e si completano a vicenda; gli oggetti utili viaggiano insieme a quelli inutili: entrambi gli oggetti di questi ultimi due insiemi vengono trasportati, con lo scopo di chiudere il cerchio.
Tutte le operazioni collegate al Kula confluivano in una rete sociale solidale, i cui rapporti tra individui, clan e tribù erano mossi dal principio di reciprocità, un concetto, quest’ultimo, che è stato sviluppato, tra gli altri, anche da Marcell Mauss nel suo Saggio sul dono.
Fermo restando che la solidarietà sociale meccanica – che si distingue, come spiega Durkheim, da quella organica – di queste organizzazioni tribali del Pacifico non implica assenza di conflitti e di competizioni.
The tokwaybagula (il giardiniere o lavoratore agricolo), non fa altro che mostrare agli altri la quantità e la qualità del lavoro che svolge e mette in evidenza il suo operato con quello di altri lavoratori meno efficienti, tuttavia, da quest’atteggiamento competitivo non ricava nessun beneficio utilitario, ma solo lodi e fama che gli valgono come riconoscimenti diretti dalla comunità in cui vive.
L’attività di giardinaggio – come sottolinea Malinowski – aveva un ruolo fondamentale nella vita degli indigeni delle isole Trobriand, essi spendevano più della metà del tempo della loro vita nel coltivare i campi, producendo molto di più di quello che avevano bisogno: le medie dei raccolti annuali erano pari a due volte quello che potevano mangiare, precisando che nel periodo in cui egli prendeva appunti, le eccedenze venivano esportate in Europa, mentre nei vecchi tempi a quelle stesse eccedenze era permesso di marcire (to rot).
I lavoratori agricoli di queste terre lontane esibivano il loro prestigio, gareggiando a chi produceva di più, durante le operazioni di preparazione del terreno, di semina, di cura delle piante e di raccolta; nel Potlatch, invece, la competizione si manifestava in altre forme ritualistiche, cosicché colui che desiderava distribuire un quantità di beni x, agli individui che invitava, faceva sorgere nei partecipanti l’obbligo di restituire una quantità maggiore di beni y, sulla base dei meccanismi di reciprocità che li vincolavano in solido.
Nello scambio Potlatch vigeva la credenza magico-religiosa che chi riceveva il dono, se non contro-cambiava, poteva rimanere «dominato» dalla forza e dal prestigio del capo di lignaggio del villaggio, che aveva immesso quel bene (dono) nel circuito.
Il legame di reciprocità implicava che colui che iniziava la competizione si attendeva un comportamento simile, anche se differito nel tempo, con la restituzione degli «interessi» o la «circolazione contraria» di cui parlava Franz Boas.
La comunità delle isole Trobriand e quella degli indiani del Kwakiutl, stanziati nell’attuale Columbia Britannica (Canada), hanno una diversa organizzazione sociale: la prima è matrilineare, la posizione sociale delle donne è rilevante all’interno delle tribù e i giovani vengono iniziati alla vita sessuale molto presto; la seconda è patrilineare, le donne esercitano un’influenza minore all’interno delle relazioni sociali tribali e i legami tra i clan più agiati sono oleati da spinte antagonistiche. Nonostante queste differenze, è possibile individuare un denominatore comune che prende forma attraverso meccanismi simmetrici nella gestione delle eccedenze. Nelle isole del Pacifico i prodotti agricoli in eccesso marciscono, mentre nel Nord America, le gare che ingaggiano i giovano maschi adulti, per mostrare la loro fame e il loro riconoscimento sociale all’interno dei rapporti tribali e intertribali, non svolgono solo una funzione distributiva dei beni posseduti, ma, molto spesso, di sperpero e distruzione delle eccedenze, cioè della ricchezza accumulata.
Tali forme di scambio sono molto lontane dai rapporti sociali di produzione e riproduzione che viviamo e nei quali siamo immersi, hanno subito profonde modifiche nel tempo e nello spazio, ossia evoluzioni che non potrebbero essere racchiuse in un breve articolo, quindi, proverei a circoscrivere il raggio di azione, sostenendo che dopo la crisi dello Stato sociale, le relazioni mercantili sono riemerse con vigore e sono diventate predominanti. Penso che, forse, non ci sia bisogno di richiamare la forza evocativa di frasi molto note del Manifesto del 1848, di Marx e Engels, per evidenziare la potenza trasformatrice dei rapporti di produzione capitalistici, per dire che in questa disamina non ci sono tentativi nostalgici di far trionfare le relazioni personali (tribali, schiavistiche e feudali), che hanno prevalso nel mondo antico e in quello medioevale. Solo che credo che abbia ragione Umberto Eco, che nell’analizzare lo stile letterario dell’opera, a distanza di più di 150 anni dalla sua pubblicazione, dice che subito dopo la scena dell’elogio della classe borghese, per le conquiste realizzate con la grande industria, c’è un capovolgimento drammatico: «lo stregone si trova impotente a dominare le potenze sotterranee che ha evocato». La digressione si è resa necessaria, per sgomberare il campo della discussione da eventuali fraintendimenti che potrebbero sorgere nelle menti di quei lettori che si nutrono del sospetto di cadere nelle grinfie concettuali del «comunismo primitivo» o di rimanere imbrigliati nel pensiero residuale di quel «ferro vecchio» noto come socialismo reale.
A questo punto, entrano in gioco le voci critiche e chiedono: in che modo possiamo collegare l’analisi di queste lontane forme di scambio alla situazione attuale? Hanno ancora un valore sociale come in quelle «comunità» o tali pratiche sociali costituiscono solamente un retaggio culturale?
Non appena stimoliamo il pensiero critico, emergono interrogativi che potrebbero consentirci di rendere vivide le conoscenze che abbiamo provato a metabolizzare.
Negli anni 90 del secolo scorso, nella città di Londra, i rentiers della City, nei giorni che precedevano le festività natalizie, lanciavano la sfida a chi consumava la cena più costosa (Potlatch) nei ristoranti di lusso; gli Amministratori delegati delle più ricche compagnie esibivano il loro prestigio sui loro dipendenti, invitandoli a party là dove gli era permesso bere tutti quei drinks, che facevano lievitare i conti, appagando, nel contempo, i desideri dei gestori e dei dipendenti dei locali commerciali.
Nella vita quotidiana succede a tutti di trovarsi in difficoltà, quando si deve fare un regalo, tenendo conto della celebrazione, della forma cerimoniale annessa e del fatto che bisogna sforzare la propria immaginazione, per capire quali oggetti manchino nelle case delle persone che festeggiano. Nel Sud d’Italia, ma credo anche altrove, verso la fine degli anni settanta del XX secolo, se ricordo bene, durante le feste di matrimonio e non solo, sono arrivati alla conclusione che era meglio regalare i soldi, in quanto potevano essere utilizzati per scopi e bisogni diversi dalla semplice accumulazione di oggetti nelle case (corredi, vasi, quadri decorativi, eccetera) che erano in voga in un determinato periodo.
E poi, che dire dei doni che i genitori regalano ai figli e questi ultimi non ne sono contenti o viceversa?
Non so se la cosiddetta Gift economy includa anche queste tipologie di transazioni che ho richiamato velocemente, ma il rapporto Granter calcola che il giro d’affari dell’Economia del dono si attesta intorno agli 8 miliardi di euro.(3)
Salta subito agli occhi che l’espressione «mercato delle donazioni», riportata dall’articolo appena citato, rappresenti un grottesco ossimoro, una caricatura della realtà esterna; è chiaro che ci troviamo di fronte a operazioni di Marketing filantropico attraverso il quale aziende e fonazioni redistribuiscono piccole fette dei loro patrimoni, per mettersi «l’anima in pace», rispetto a tutte quelle persone che hanno difficoltà di accesso al reddito oppure che i loro reddito sono così magri tanto da essere insufficienti a vivere dignitosamente, non solo nelle grandi città, ma anche nei piccoli paesi.
Non c’è nulla di sbagliato nel fatto che ci siano dei «pasti gratis» prodotti dalla ristorazione e che per non finire nelle discariche vengano raccolti e distribuiti da un Ente senza fini di lucro come la Caritas. Anzi, i membri di queste forme di associazionismo, mediante il volontariato, cercano di tamponare le profonde diseguaglianze sociali, che sono state prodotte da tutti quei tentativi di espandere il mercato fino all’ennesima potenza.
Tuttavia, a mio avviso, c’è una grande differenza nel soddisfare i bisogni di mangiare, vestirsi e di avere un alloggio decoroso, mediante l’accesso al lavoro, al reddito, ai diritti sociali, cioè a quelle forme della vita, che tendono a emancipare i soggetti individuali e collettivi ed esercitano una spinta verso l’auto-determinazione, invece che attraverso forme caritatevoli e di assistenza ai «bisognosi», che richiamano, per certi aspetti, l’espressione metaforica di presentarsi con il cappello in mano, per partecipare alla divisione della torta complessiva.
I volontari, cioè le persone che prestano la propria attività lavorativa in modo gratuito, corrispondono, nella stragrande maggioranza dei casi, a coloro che hanno risolto «il problema economico», cioè hanno un reddito (diretto, indiretto) o erogano prestazioni lavorative dipendenti o autonome, per cui non sono pressati dalla contingenza materiale di trovare le risorse necessarie per vivere e dispongono di tempo libero da dedicare agli altri.
Sulla base di quest’ultima traiettoria, la domanda sorge spontanea: esistono forme di scambio che non prevedono una restituzione?
Ecco, il volontario mette a disposizione il proprio tempo, elargisce il proprio tempo come un «dono». Ma davvero questo atto è del tutto disinteressato? Sembra proprio di no! Infatti, l’azione genera un’attesa. Chi dona, in primo luogo, si attende che la persona a cui dedica il proprio tempo aderisca alle attività proposte dall’associazione di cui fa parte e in secondo luogo che mostri gratitudine. In fondo, i volontari si aspettano che la «comunità» riconosca i loro sforzi e che, quindi, altri possano contro-ricambiare, con le stesse modalità, ma nell’immediato la peggior offesa che gli si può infliggere è l’ingratitudine.
fonte foto: wikipedia
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NOTE
(1) Gli spunti di riflessione estratti dall’opera di Bronislaw Malinwski e posti sotto la «luce» della mia esperienza, si riferiscono ai primi tre capitoli, in particolare il terzo, che spiega gli elementi essenziali del Kula; per motivi legati al mio debole campo visivo, sono stato costretto a utilizzare l’edizione, in lingua inglese, Argonauts of the Western Pacific, risorsa digitale disponibile in rete.
(2) K. Marx, F. Engels, La concezione materialistica della storia, Editori Riuniti, Roma 1986, pag 72
(3) L’economia del dono vale otto miliardi, Il Giorno, 10-07-2021. https://www.ilgiorno.it