Joey si «fece nascere». Bettelheim mette tra virgolette Farsi nascere. Si tratta di una figura. Non vuol dire, alla lettera, che Joey si è auto-partorito.
Ogni figura rimanda a un (presunto) senso letterale, senza il quale la figura non funzionerebbe. La definizione tradizionale di tropo ricalca quella quintilianea di sostituzione (mutatio o immutatio) di espressioni proprie con altre di senso figurato (non-proprio). Tropo: la trasposizione (il trasferimento) di un significato da una a un’altra espressione (Garavelli).
Dunque, Bettelheim deve sapere cos’è e come funziona un farsi nascere da sé: auto-prodursi. Questo auto-prodursi o è guidato dal caso o è guidato da un progetto. Se è guidato da un progetto o questo progetto è esterno (allora non si ha un auto-prodursi) o questo progetto è interno, allora il progetto è un programma (programma genetico – meccanica genetica, DNA).
Un ulivo (Aristotele, Fisica) ritorna sempre identico nelle generazioni, così una mucca, la pioggia, le onde, il sole, il giorno, la notte, eccetera. Mentre ciò non avviene per gli eventi dovuti al caso o alla fortuna. Se una mucca si rigenera in quanto mucca, ciò vuol dire che la sua fine – ciò che essa diventa in quanto mucca – è guidata dal suo inizio. Ciò in cui c’è uno scopo (télos), è fatto in conformità a questo stesso scopo, sia in ciò che precede, sia in ciò che segue. Dunque, dice, in tutto quello che è o che si genera nel mondo della natura è presente una finalità: ogni cosa è fatta secondo la sua natura. E questo è ciò che noi chiamiamo codice genetico, ovvero la riproduzione meccanica di una o più copie identiche dell’individuo – non apro qui il capitalo della manipolazione genetica e dei limiti di questa teleologia interna.
Natura, commenta Hegel, significa appunto che una cosa diviene ciò che era già in lei sin dal principio: è questa interna universalità e finalità che si realizza. Sicché, dice, causa ed effetto sono identici, in quanto tutti i singoli membri sono relativi all’unità di un fine.
Operiamo in vista di qualcosa? – si chiede Aristotele.
Ebbene, risponde, in vista di qualcosa si verifica pure la generazione naturale.
Per esempio, dice, se una casa fosse un prodotto naturale, si costruirebbe esattamente come è ora che è prodotta dalla tecnica. E gli esseri che ora sono per natura fossero non solo per natura, ma anche prodotti d’arte si formerebbero né più né meno di come sono formati per natura.
Questo finalismo è particolarmente evidente negli altri viventi che non agiscono ispirandosi a un’arte, né compiendo una ricerca, né a seguito di una decisione meditata.
Sono per natura quelle realtà che, mosse da un principio intrinseco, giungono per movimento continuo a un certo fine.
In questa affermazione di Aristotele, dice Hegel (Lezioni sulla storia della filosofia), c’è tutto il vero e profondo concetto del vivente, che deve considerarsi come fine autonomo in sé: un che di identico a sé, che si stacca da se stesso, e nel suo estrinsecarsi rimane identico col suo concetto – in una parola, dice Hegel, l’idea che realizza se stessa. Così foglie, gemme, radici producono la pianta e tornano a lei. E ciò che esse producono preesiste già, il seme, da cui esse anche sono nate.
Il tratto enigmatico dell’istinto, scrive Hegel nell’Enciclopedia (§ 360), ciò che costituisce la difficoltà di comprenderlo, consiste unicamente in ciò: il Fine può essere inteso soltanto come il Concetto interno. La determinazione fondamentale che Aristotele ha colto dell’essere vivente – per cui l’essere vivente sarebbe ciò che opera secondo un fine – è andata quasi perduta in epoca moderna, finché Kant non ha ridestato a suo modo questo concetto parlando di finalità interna, secondo la quale l’essere vivente andrebbe inteso come auto-finalità. [L’essere vivente è un essere automatico, ha in proprio e produce in proprio il suo codice sorgente, ha un codice sorgente non prodotto da un sé (da in io penso), visto e considerato che l’io-penso appare dopo, o, perlomeno, contemporaneamente all’apparizione del sé. Si comincia a intuire come quel senso letterale a cui Bettelheim allude diventa, man mano che si crede di avvicinarsi, diventa inafferrabile.]
La difficoltà, continua Hegel, risiede principalmente nel fatto che la relazione teleologica viene abitualmente rappresentata come una relazione esterna, e che l’opinione dominante è quella secondo cui il fine esiterebbe soltanto in un modalità consapevole. L’istinto, invece, è l’attività teleologica che agisce in modo inconsapevole.
Hegel distingue tra il bisogno che è qualcosa di determinato, e la cui determinatezza è un momento del suo concetto universale e l’impulso (la pulsione, il trieb). La pulsione è l’attività che supplisce alla mancanza di questa determinatezza.
Non c’è determinazione, non c’è ancor un sé contrapposto a un non-sé, dunque la pulsione supplisce a questa mancanza.
Ma come vi supplisce? – qui torna in ballo il caso, quel caso che Hegel, sulla scorta di Aristotele, vuol cacciar via, perché fa paura. Il caso produce la macchina (DNA) che produce l’io penso che rimugina e ripensa questa cosa in itinere (DNA) come una sostanza.
Bettelheim ripete questa descrizione di Hegel quasi alla lettera. Dice (194), in termini teorici l’esperienza del Sé si fonda sulla delimitazione in rapporto al non-Sé, poiché fintanto che non esiste quest’ultimo non può esistere neanche il Sé. Ma se teniamo presente la precedente formulazione teorica [lo schema Sé-Azione-Sé, o lo schema generale hegeliano determinatio negatio est], questo processo finisce in un circolo vizioso: il Sé emerge nella misura in cui agisce sul non-Sé; ma come può agire il Sé se non è ancora emerso?
E poi aggiunge: La coscienza non è necessaria all’azione, ma l’aver agito costituisce un primo barlume di coscienza: ecco la soluzione dell’enigma. È dunque l’azione (la pulsione, il trieb) che crea la separazione del Sé dal non-Sé in seno al caos primordiale. Anzi bisognerebbe dire che l’azione [ qui sarebbe meglio dire impulso o pulsione; azione rimanda alla all’actus di derivazione aristotelica e dunque al soggetto] stabilisce un primo clivaggio tra ciò che agisce e ciò su cui agisce, una separazione tra ciò che (tramite l’azione agita) diventa Sé e ciò che (tramite l’azione subita) diventa oggetto. La separazione viene dunque a precisarsi tanto meglio quanto più tangibili sono i vantaggi che il Sé ricava dalla sua azione sull’oggetto.
Questa cosa – l’inconscio – spingerebbe, rimbalzerebbe, conquisterebbe un ritardo che le permetterebbe di appercepirsi – trascendentalmente.
Bettelheim prende nota di questo processo. Non lo generalizza. Crede che la spinta – l’inconscio – operi una sola volta, che ci sia un ritardo unico, originario, che istituisce una differenza che si fissa nel sé e nell’altro-da-Sé. Insomma, dice, c’è una unica epifania inconscia, e in questa epifania l’inconscio si esaurisce o si scioglie nella differenza.
Bisogna rilevare, però, che in tutto il suo libro sull’Autismo questo inconscio, questo effetto di ritardo, questo effetto meccanico, emerge in continuazione – l’inconscio non si esaurisce nella spinta cosiddetta iniziale. Non c’è una spinta iniziale. C’è sempre e in continuazione un ritardo di spinta. C’è sempre un che di meccanico che accompagna tutte le mie appercezioni; questa meccanicità è sia ciò che mi brutalizza, sia ciò che mi permette un passo aldilà della brutalizzazione. In secondo luogo, e in virtù di questo ritorno dell’inconscio, non si può parlare di potenza e azione come processo regolare – sano, non autistico. Ogni possibilità deve contenere una stilla di autismo per aspirare a diventare azione.
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