Dialettica della solitudine in Adorno

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Adorno parla della solitudine, e non ne parla nei termini in cui ne parlano i professori all’università e i giornalisti sui giornali o noi vecchi rincoglioniti su Facebook. Non ne parla in quel modo schifoso e astratto (astratto come lo intende Hegel) in cui ne abbiamo parlato negli ultimi tre anni: studenti soli con zoom; vecchi soli con Meet; morti soli con Twitter; uomini soli, trattenuti contro la propria volontà. Privati di quella (quell’altra) sovrana solitudine, la solitudine del cuore, che il romanticismo aveva scritto sulle sue bandiere e trasformato in sostanza di un individuo che trae il senso da sé medesimo senza alcuna limitazione, senza controllo, senza legge, senza stato, senza polizia, senza telecamere, senza conteggio e statistica, senza numero, senza alcuna limitazione posta dalla società – senza società. Un individuo senza società – un unico, un anarchico.
La solitudine del singolo, dice Adorno, è una mera parvenza – un momento. L’esser-per-sé del singolo, dice, appare a Hegel momento necessario del processo sociale. Si diventa soli in quanto associati. Si diventa soli nella divisione del lavoro. La forma stessa di individuo è forma di una società che si tiene in vita grazie alla mediazione del libero mercato, nel quale si incontrano soggetti economici liberi e indipendenti. Quanto più l’individuo si rafforza, dice Adorno, tanto più cresce la forza della società in virtù del rapporto di scambio, in cui l’individuo si forma. I due concetti, individuo e società, sono reciproci: e individuo in senso pregnante è addirittura il contrario dell’essere di natura, un essere che si emancipa e si estranea dai meri rapporti di natura, e propriamente è riferito fin dall’inizio alla società e precisamente perciò è in se stesso solitario.
Detto più prosaicamente (Marx, Manifesto), la borghesia ha distrutto i rapporti feudali, patriarcali, idillici dovunque abbia preso il potere. Essa ha spietatamente stracciato i variopinti lacci feudali che legavano la persona al suo superiore naturale, e non ha salvato nessun altro legame fra le singole persone. La borghesia ha strappato alle relazioni familiari il loro toccante velo sentimentale.
Gli uomini, che erano legati alla terra e alla professione, al contado e agli animali domestici, e nella famiglia trovano ricovero e protezione, assistenza e consolazione, sono ora legati nella lunga catena della divisione sociale del lavoro. Ognuno elabora un frammento della propria socialità e delle condizioni, presenti e future, della propria sopravvivenza. Più il capitalismo si espande e ingloba ogni aspetto della vita, più si tocca la piena occupazione, più la vita delle singole persone dipende dal lavoro e dall’attività degli altri. Più si è sciolti dai vecchi vincoli, più si è inseriti nella divisione sociale del lavoro, più ci si sente dipendenti di un organismo che travalica l’ambito limitato della propria persona, più ci si sente soli. L’individualità cresce in ragione diretta della crescita della socializzazione della produzione – della divisione sociale del lavoro. Più aumenta la socialità, più cresce il senso di solitudine. La socialità è posta nel contratto di lavoro, nel contratto con l’inps, con l’inail, con la banca, col mutuo di casa, con le rate della macchina, eccetera. Lo scricchiolio di questo mondo mi atterrisce, e non la videoconferenza.

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