Premessa
Di tanto in tanto, anzi molto sporadicamente e con scarsa visibilità, riappare il tema della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Il 24 settembre scorso, il Manifesto, con un titolo ad effetto, “Facciamola breve”, riporta il tentativo del sindacato Ig Metall di rimettere al centro il Kurzarbeit, il “lavoro breve”, cioè una settimana lavorativa di quattro giorni, senza decurtare il salario. In realtà, è stata ripresa la proposta di Hoffman, leader dell’Ig Metall, quando nel 2020, in piena pandemia, si accarezzò l’idea che per salvare migliaia di posti di lavoro nell’industria dell’auto, era necessario ridurre la settimana lavorativa. A distanza di tre anni, la potenza di quell’idea è scemata ed ha indossato le vesti, ha assunto la concezione, di un esperimento laboratoriale. Il management dell’azienda Intraprenör, con sede a Berlino, ha avviato il progetto pilota, godendo dell’appoggio del maggiore sindacato tedesco, che fa parte del Comitato consultivo, e dell’organizzazione internazionale Four Day Week Global. Quest’ultima organizzazione, come ci fa notare Lucia Conti, (1) mette in evidenza i successi derivanti da questo genere di sperimentazioni in Gran Bretagna, sottolineando non solo i benefici per i dipendenti (maggior tempo libero, riduzione dei problemi di salute e di stress), ma addirittura anche un aumento dei profitti, con valori che hanno raggiunto il 36 %. (2)
Se è vero che in altri paesi europei ci troviamo di fronte a tentativi sperimentali (isolati) per affrontare il problema della riduzione dell’orario di lavoro, cosa accade in Italia?
Nella penisola italica prevale un silenzio tombale! I partiti dell’opposizione, anche quelli radicali, che non sono presenti in Parlamento, nonché il più grande sindacato italiano, sono avvitati nel dibattito sul salario minimo, il quale, a sua volta, è scomparso dalla scena, dopo i fatti del sette ottobre.
Consapevole del fatto che una parte considerevole di quei lettori, che leggeranno queste brevi riflessioni, si fermeranno alla premessa, penso che valga la pena delineare il confronto tra la strategia della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e quella del salario minimo. Ciò che balza subito agli occhi è che la prima strada tiene conto anche dei disoccupati, mentre la seconda prende in considerazione solo chi ha un impiego, chi è occupato, anche se con una paga misera, ma tralascia, lascia fuori dall’analisi una variabile fondamentale come la disoccupazione, un fenomeno sociale che ha dato filo da torcere non solo a una miriade di politici e uomini d’affari, bensì anche a brillanti economisti, i quali hanno dato vita a innumerevoli teorie o correnti pensiero, per trovare la soluzione al problema.
Il non porsi questo problema è sufficiente, a mio avviso, per individuare la caducità della tesi sul salario minimo e la fallacia argomentativa che prova a tenerla in piedi.
Tuttavia, il mettere in evidenza una simile incongruenza non è scevro dai reali pericoli di sprofondare nell’isolamento sociale, a ciò potrebbero aggiungersi gli elevati rischi di vedere queste critiche, da parte di molti compagni di strada, come atti di presunzione che minano il tentativo di creare un fronte comune, per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e delle lavoratrici.
La complessità del reale: il labirinto
Giovanni Mazzetti, durante una delle sue lezioni, ad Arcavacata di Rende, ci fece notare che gli acerrimi nemici delle Teorie di Galileo Galilei non si annidavano nelle buie stanze della Santa Inquisizione, niente affatto! essi albergavano negli ambienti accademici, ammorbati dall’invidia e tormentati dal terrore di rinunciare alle certezze cristallizzate, dato che la terra sulla quale poggiavano i piedi si muoveva e il loro sapere si sgretolava. Per di più, la loro meschinità, collegata ai privilegi di cui godevano, sconfinava nella delazione.
A questo punto dovrebbe essere chiaro che la strada è tutta in salita e il bisogno interno di continuare il discorso potrebbe arenarsi, se non riesco ad individuare la motivazione che mi dia la spinta. Eccola! la vedo per un attimo nel pensiero di Italo Calvino e mi aggrappo ad essa. Per Calvino, infatti, scrivere significa essenzialmente provare a mettere ordine nel disordine e sfidare il labirinto, cioè la complessità del reale.
La spinta a trovare la via d’uscita dal labirinto inizia con Dino Greco, del quale ho condiviso tanti dei suoi scritti e soprattutto la Tesi 11 alternativa al Reddito di base, nell’ultimo Congresso del PRC, che si è svolto 2 anni fa.
Egli, in quella sede afferma che «a sinistra si è sussultoriamente avanzata la richiesta della riduzione dell’orario di lavoro senza perdita di retribuzione affogandola tuttavia in un contraddittorio affollamento con altri presunti obiettivi salvifici (Reddito di cittadinanza, decrescita, crescita degli investimenti dello Stato, lavori socialmente utili) che costituendo delle scorciatoie consolatorie, tutte compatibili con i rapporti sociali esistenti, tolgono alla ROL il carattere di scelta strategica fondamentale». Nel seguire le coordinate della visione prospettica di Greco, aggiungerei che Reddito di base, Indennità di disoccupazione, Sussidio di disoccupazione, NASpI, Dichiarazione delle giornate lavorative ai lavoratori agricoli, Disoccupazione requisiti ridotti, Reddito di cittadinanza, ect., esprimono lo stesso concetto, in forme diverse: integrazione del reddito. Tali forme di sostegno al reddito hanno un denominatore comune, ossia coltivano l’illusione che la disoccupazione sia solo un fenomeno temporaneo e che ben presto il Mercato e lo Stato assorbiranno l’eccedenza di forza lavoro che non trova un’occupazione. La spesa sociale in questa direzione, con tutte le sue varianti, impone a una parte degli occupati turni e ritmi di lavoro massacranti e ad un’altra parte, che diventa sempre più consistente, di gravitare nell’eterno limbo della precarietà. Per i precari la pena più atroce è quella di essere inseguiti da un esercito di sanguisughe, allo scopo di risucchiarli in fantomatici corsi di formazione, tirocini, stages, masters, eccetera, i quali sono funzionali alla riproduzione dell’ordine esistente, quindi non apportano cambiamenti al sistema produttivo. L’introduzione della variabile G (Spesa pubblica) complica il ragionamento, in quanto aprirebbe una digressione molto lunga, pertanto io mi limiterei a dire che, nella fase attuale, nello specifico, la componente destinata all’integrazione del reddito, non intacca, non modifica la sfera della produzione, vale a dire coloro che producono la ricchezza sociale, non possono godere dei frutti del loro lavoro, se non per una retribuzione minima (salario minimo), un’altra quota consistente di quella ricchezza viene sperperata o per lo più finisce nel processo di accumulazione del capitale, alimentando gli aumenti dei profitti.
Ora, sebbene Dino Greco abbia individuato, con la sua lucida Tesi, il punto nevralgico del cambiamento, dopo circa 2 anni, abbandona quel terreno e si fa trasportare dall’onda di approvare in Italia una legge sul salario minimo. Da buon sindacalista, giustamente, nota che in Italia ci “sono 4.578.535 lavoratori e lavoratrici che guadagnano meno di 9 euro lordi l’ora”, (3), quindi sostiene la proposta della Sinistra extra-parlamentare di introdurre in Italia una legge che fissi un salario minimo di 10 euro lordi, là dove i Contratti nazionali, che regolano il rapporto di lavoro subordinato, non prevedano tale soglia, soglia da estendere anche ai cosiddetti parasubordinati.
La forza di questa legge, secondo Greco, dovrebbe porre un rimedio ai salari da fame stabiliti dai “contratti pirata”, cioè accordi siglati da associazioni sindacali non rappresentative o addirittura che “fanno comodo” ai datori di lavoro, nel senso che tutelano gli interessi di questi ultimi, tuttavia, non menziona i “contratti corsari”, vale a dire quelle situazioni in cui a firmare gli accordi a ribasso sono proprio esponenti delle sigle sindacali rappresentative come CGIL, CISL o UIL.
Il già Segretario della Camera del Lavoro di Brescia, in questa suo articolo non fa riferimento all’evoluzione storica della perdita di potere d’acquisto dei salari, a partire dai primi anni 70 del secolo scorso, che è strettamente connessa con l’impotenza contrattuale dei sindacati.
Le dinamiche della compressione salariale, in particolare, per quanto riguarda l’Italia, emergono da un’ottima sintesi di Guido Salerno Aletta, il quale parte dal presupposto che non si possa prescindere dal contesto internazionale, richiamando alla memoria il periodo storico in cui il salario è considerato una variabile indipendente.
“La competitività della nostra produzione manifatturiera, che è stata la leva del boom economico, negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso – scrive Salerno Aletta – derivava dal costo del lavoro, comparativamente assai più basso di quello negli altri Paesi”. (4) Egli, in questo quadro, tiene conto del peso che esercitano le variabili emigrazione (interna ed esterna) e la forza trainante della mano pubblica, nei settori chiave dell’economia.
I protagonisti del movimento operaio e dei braccianti, nelle lunghe lotte del decennio che precede il 1968, diventano consapevoli che l’altra faccia del “miracolo economico” è lo sfruttamento del lavoro, quindi nel momento in cui esplode l’Autunno caldo e negli anni successivi, quando le rivendicazioni degli studenti si saldano a quelle delle lavoratrici e dei lavoratori, sulla scorta del pieno impiego, cioè in presenza di disoccupazione frizionale, si verifica una crescita impetuosa del potere di acquisto dei salari. Entra in vigore la legge N 300 del 1970, una serie di norme che emancipano le condizioni di vita di chi è soggetto al vincolo di subordinazione.
A questo punto i rapporti di produzione diventano difficili da districare: gli aumenti salariali, come ci fa notare Salerno Aletta, si ripercuotono sui prezzi, «alimentando la duplice spirale, salari-prezzi e inflazione-svalutazione». (5)
Nonostante la decisione del Governo Nixon, nel 1971, di sganciare il dollaro dal sistema monetario internazionale e la crisi petrolifera del 1973, che determina un aumento del prezzo dell’oro nero per i paesi dell’OCSE pari al 300 % in soli 5 mesi, gli aumenti salariali vengono additati come la causa della spirale inflazionistica.
Le contromisure reazionarie non tardarono ad essere adottate, in nome e per conto della “Santa Alleanza neo-liberista”: ai primi di ottobre 1976 il Governo Andreotti annunciò il suo programma di austerità, ma la situazione, come puntualizza Salerno Aletta, precipitò con la svolta dell’EUR da parte della CGIL.
In una famosa intervista a Lama, da parte del direttore de la Repubblica Scalfari, c’è un passaggio chiave che ci permette di rilevare che, oltre all’inflazione, riemerge il problema della disoccupazione. Lama era d’accordo con Andreotti, e il dissonante monito “lavoratori stringete la cinghia”, esplicava il concetto, velocemente incorporato dai funzionari del sindacato, che la diminuzione del tasso di disoccupazione richiedeva un congelamento, o meglio, un taglio dei salari. Dunque, il cadere in questa trappola non fu indolore e creò le condizioni per ingoiare un duplice rospo: i “salari dignitosi” non solo generavano un aumento dell’inflazione, ma anche della disoccupazione. La stagflazione spazzò via il trade-off inflazione-disoccupazione, elaborato da P. Samuelson, innestando il modello della curva di Phillips.
Nella vita reale, in verità, disoccupazione e inflazione immiserivano, in primo luogo, il ceto proletario, i lavoratori e le lavoratrici dipendenti, i pensionati, i cassaintegrati, eccetera, ma l’abbaglio della “marcia indietro dell’Eur” fu deleterio, in quanto si riaffermò la strategia che i maggiori sacrifici per la classe lavoratrice avrebbero permesso agli imprenditori di accumulare il capitale da destinare agli investimenti. Quindi, tagli dei salari in cambio di «un programma di investimenti per garantire l’occupazione». (6)
Le politiche di moderazione salariale, a partire da questi eventi, divennero sempre più aspre, sino a trasformarsi, come dice Salerno Aletta, nell’ultimo decennio, in politiche di repressione salariale e fiscale.
Quest’ultimo autore spiega il come il sistema economico italiano, a partire dalla metà degli anni 70, nell’ottica del mercantilismo, abbia utilizzato l’arma dei bassi salari, per competere a livello internazionale, ma nel procedere a ritroso, è possibile individuare uno snodo essenziale sul quale focalizzare l’attenzione, per cercare di far emergere il bandolo della matassa. Nell’industria dell’auto, nel 1970, – scrive Salerno Aletta – «l’incidenza del lavoro dipendente sul valore aggiunto arriva al 98%: i margini di profitto erano praticamente scomparsi». (7)
Il che significava che i dividenti per gli azionisti, per i proprietari erano molto magri: sotto la spinta dello Stato sociale come modo di produzione, i profitti, non solo entrano in circolo nella cosiddetta economia reale, ma una parte di essi finiva nelle tasche di chi produce la ricchezza.
Tuttavia, a mio avviso, la crisi, che incombe negli anni successivi, non è dovuta solo a variabili esogene, infatti entrano in gioco la sovrapproduzione e la disoccupazione, entrambe connesse con lo sviluppo delle forze produttive. Lo Stato inteso come datore di lavoro non riesce più ad assorbire la forza lavoro che viene espulsa dal settore privato, in seguito agli aumenti della produttività, né può costringere, come rimarca Lama in quell’intervista rilasciata al giornale di Scalfari, le aziende a trattenere o impiegare più forza lavoro di quanta ne abbiano bisogno. Ma se la soluzione alla crisi non poteva essere la Cassa integrazione permanente per i dipendenti eccedenti, parimenti non poteva arrivare dal trasferimento dei profitti dal lavoro alla rendita finanziaria.
Il duplice significato della disoccupazione
La crisi del paradigma dello Stato sociale è collegata all’abbondanza delle risorse, non alla penuria: si produce molto di più di quello che si consuma, pertanto diminuisce la quantità di lavoro necessario, per produrre i beni e i servizi, allo scopo di soddisfare i bisogni, per condurre una vita dignitosa e confortevole.
Occorre precisare, però, che sovrapproduzione e disoccupazione rappresentano problemi comuni, con le sue particolarità, a tutta l’area dei paesi OCSE: non sono solo una peculiarità dell’Italia.
La disoccupazione, a livello del capitale – spiega Marx – si presenta come tempo di non-lavoro per alcuni, il capitale ha la tendenza ad espandere il tempo di lavoro supplementare, utilizzando i mezzi della tecnica e della scienza, incorporati nel capitale fisso. L’appropriazione del lavoro supplementare costituisce la fonte della ricchezza del capitale. Esso si presenta «come la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza». (8)
Da un lato riduce il lavoro necessario a produrre beni e servizi, dall’altro cerca di espandere il lavoro superfluo, il quale diventa, come scrive Marx, la condizione (question de vie et de mort) del primo.
Se la capacità produttiva in un determinato contesto raddoppia, il numero degli addetti si dimezza, se, per esempio, 10 operai producono 100 articoli in un’ora di lavoro, un raddoppio della produttività fa sì che la stessa quantità richiede solo l’impiego di 5 operai, a meno che non si decida di effettuare solo mezz’ora di lavoro. Nel 1969, in Italia, il parco macchine circolanti era pari a 9.137.700, mentre nel 1992 corrispondeva a 29.429.600, più che triplicato. (9)
Negli anni 90 del secolo scorso, è vero che la Fiat inizia a perdere colpi, per via della concorrenza internazionale, ma è anche vero che apre lo stabilimento di Melfi, pertanto gran parte delle autovetture circolanti vengono ancora assemblate in Italia. Tuttavia è evidente che il settore sia andato in crisi nel corso degli anni. A Mirafiori, nei primi anni 70, come scrive Andrea Barbieri Carones, lavoravano 60.000 dipendenti che riuscivano a produrre 800.000 auto, mentre nel 2011 gli addetti sono ridotti a meno di un quinto e quasi tutti in Cassa integrazione. Nel ciclo produttivo vengono coinvolte intorno a «1.000 unità giornaliere, per una produzione annua di 68-70.000 macchine». (10)
Questi dati, la cui raccolta non è stata immediata, dicono poco, se non vengono messi in relazione tra di loro, infatti nell’approfondire l’analisi, possiamo rilevare che negli anni 70, dividendo la quantità prodotta per il numero dei dipendenti, ogni operaio produce in media circa 13 autovetture, mentre nel 2011 ne produce 70, ovvero 6 volte in più.
Eppure, l’aumento della capacità produttiva finisce per scomparire. Le responsabilità dei fallimenti vengono imputate al costo del lavoro, che a partire dagli anni 70 ha subito un decremento continuo, un tracollo.
L’aumento della produttività invece di sollevare dalla fatica chi è sottoposto al torchio dei cicli produttivi, con ritmi e tempi intensificati, assume forme chimeriche: precarietà, salari da fame, disoccupazione, sprechi di energie e risorse, scioperi bianchi, rifiuto del lavoro, manifestando malattie reali e immaginarie, guerre tra poveri, eccetera.
L’immiserimento è l’altra faccia del progresso tecnologico e delle scoperte scientifiche che diventano parte integrante del capitale fisso, che dev’essere inteso come lavoro oggettivato.
Su questo punto, Marx è molto chiaro: «La natura non costruisce macchine, non costruisce locomotive, ferrovie, telegrafi elettrici, filatoi automatici ecc. Essi sono prodotti dell’industria umana: materiale naturale, trasformato in organi della volontà umana sulla natura o della sua esplicazione nella natura. Sono organi del cervello umano creati dalla mano umana: capacità scientifica oggettivata». (11)
Questo ragionamento dovrebbe essere ancora più evidente, rispetto all’impatto dell’IA sul cosiddetto lavoro intellettuale, ma a quanto pare, la consapevolezza del fenomeno è molto scarsa. Le percezioni dei sensi, anche se sono tutti integri, non sono sufficienti a uscire dall’empasse: è necessario salire di livello, uscire dagli schemi binari.
Allora, quali vie percorrono gli aumenti di produttività, dove confluiscono?
Se negli anni 70, ancor prima del processo di ristrutturazione dei processi produttivi, i profitti delle imprese, nel settore automobilistico, sono molto bassi, ai giorni nostri, concorrono a determinare in modo rilevante l’aumento generalizzato dei prezzi.
Anche là dove sono presenti extra-profitti, gli investimenti languono e buona parte di essi finisce per alimentare la rendita finanziaria oppure vengono trasferiti nei paradisi fiscali.
Nelle imprese che primeggiano sui mercati internazionali, in quanto hanno una struttura produttiva efficace nell’economia reale e i dipendenti s’identificano con la mission aziendale, nonostante il modello organizzativo sia molto efficiente, emergono forme di lavoro superfluo, che si traducono in veri e propri sprechi di tempo o lavori inutili.
Il principio della valorizzazione viene posto alla base delle relazioni lavorative: in tante multinazionali, i colletti bianchi, per esempio, sono coinvolti nel gioco senza fine delle valutazioni reciproche, il che significa passare molte ore delle loro giornate lavorative a creare alleanze, per migliorare la propria posizione, a partecipare a meeting in cui si decide l’avanzamento della carriera e di conseguenza l’aumento della propria busta paga. Dunque, una lotta estenuante tra i dipendenti che conduce allo sfinimento di chi è meno in forma e alla sua collocazione fuori produzione, come dicono in Giappone.
Non sto qui ad elencare tutte le attività lavorative aggiuntive inutili che vengono poste in essere, né tantomeno avanzare la tesi che il pubblico sia immune da questi meccanismi, anzi in quest’ultimo settore la proliferazione legislativa, per stare al passo dei capricci del mercato (del capitale) crea intoppi e vincoli che trasformano le attività lavorative in una specie di scatole cinesi: molti dipendenti pubblici – siano essi precari o stabili, per ragioni diverse – passano più tempo a conservare il proprio posto di lavoro che a svolgere il lavoro che dev’essere effettuato.
La mania del plusvalore (pluslavoro) ha permeato gli aspetti reconditi della vita associata, si è infiltrata nel marketing istituzionale nelle scuole superiori, per connettere il reclutamento in entrata, nelle aziende private, pubbliche e nel Terzo settore.
Il tempo disponibile (disoccupazione) viene considerato solo negativamente, ossia per le sciagure che provoca, non è possibile vedere i benefici, in quanto, come scrive Marx, la tendenza del capitale è quella di convertirlo in pluslavoro.
Ora, lavori sottopagati, lavoretti o micro-attività, forme di auto-imprenditorialità che rasentano la povertà, contratti da tappa buchi, contratti per sostituzioni temporanee, lavori stagionali, tirocini, apprendistati, eccetera, rientrano nel fenomeno della disoccupazione, quindi, al di là di quello che dicono le misurazioni ufficiali, il tasso è molto di più elevato di quello che viene sciorinato quotidianamente.
In un vortice a spirale, quando aumenta il tempo disponibile per l’intera società, che si manifesta con elevati tassi di disoccupazione, interviene una sovrapproduzione, che determina una riduzione del lavoro necessario e quindi una contrazione del processo di valorizzazione.
Quest’ultimo passaggio è molto difficile da metabolizzare, non è per nulla immediato e sembra uno di quei rebus, che appena l’afferri ti sfugge, per non parlare degli ostacoli che sorgono con gli interlocutori, quando si cerca di delinearlo.
Ma credo che il bisogno della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario debba passare attraverso un aumento della consapevolezza sui movimenti contraddittori che caratterizzano il processo di produzione capitalistico. In questa relazione determinata, come scrive Marx, «quanto più si sviluppa questa contraddizione, tanto più viene in luce che la crescita delle forze produttive non può più essere vincolata all’appropriazione di pluslavoro altrui, ma che piuttosto la massa operaia stessa deve appropriarsi del suo pluslavoro». (12)
Questo tipo di conoscenza, purtroppo, è finita nel dimenticatoio, la stessa CGIL si è adagiata sulla questione del salario minimo e i suoi esponenti di spicco sono alle prese con numerose crisi aziendali, trattano la riduzione dell’orario di lavoro in modo residuale, come se fosse qualcosa di utopico, come se fosse al di sopra delle nostre possibilità.
Quest’anno, in occasione della celebrazione della Liberazione, il 25 aprile, Landini ha affermato che la «Costituzione è stata stravolta e l’Italia non è una Repubblica fondata sul lavoro, ma sullo sfruttamento e la precarietà». Insomma, affinché coloro che lavorano in modo subordinato riescano ad appropriarsi del tempo socialmente disponibile, che viene liberato mediante le innovazioni tecniche ed organizzative, è necessario che essi cambino se stessi (che noi subordinati cambiamo il nostro punto di vista) ossia che la spinta al cambiamento parti dai bisogni di chi vive condizioni di lavoro disagiate, ma come ho evidenziato all’inizio di questa breve ricerca, sembra che la strada, la punteggiatura delle azioni e le sperimentazioni che vengono intraprese, continuino a basarsi sulla valorizzazione, rimangono appannaggio delle politiche aziendali più illuminate. I comuni mortali, invece, continuano a a rimanere appesi e sospesi a un sottile filo di una giostra, con il forte rischio, pertanto, di cadere con il culo per terra.
(1) Lucia Conti, Solo 4 giorni di lavoro a settimana: parte l’esperimento pilota a Berlino, 21-09-2023, https://ilmitte.com
(2) Qui per cogliere la sottigliezza della sintesi positiva, è opportuno scendere nei dettagli del principio che sta alla base degli esperimenti condotti dai management aziendali: l’obiettivo “100-80-100“, che implica il 100% delle prestazioni, con una riduzione dell’orario all’80% e mantenendo il 100% della retribuzione, presuppone un aumento della capacità produttiva, ossia un aumento della produttività del lavoro, lasciando che le aziende continuino ad appropriarsi della ricchezza aggiuntiva.
(3) Dino Greco, Appunti sul salario minimo legale, 09-09-2023, https://www.blog-lavoroesalute.org
(4) Guido Salerno Aletta, Salario Minimo, tra Stato e Mercato, 05-09-2023, https://www.teleborsa.it/Editoriali
(5) Ibidem
(6) La politica dei “sacrifici” e la “svolta dell’Eur” 1977-78 – Intervista di Lama, 01-07-2011https://contromaelstrom.com).
(7) Guido Salerno Aletta, Articolo cit.
(8) K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia 1968-70, II vol. p.389-411)
(9) Amedeo Lepore, Tabella 3,Dipartimento di Impresa e Management, LUISS
(10) Andrea Barbieri Carones, Fiat: produzione ai minimi storici a Mirafiori, 27-12-2011, https://www.motori.it/news
(11) K. Marx, Opera cit.
(12) K. Marx, Opera cit.