Persino la vecchia con reversibilità ribadisce il suo status – la differenza sociale – chiamando per due ore alla settimana, 20 euro, la donna delle pulizia moldava – la serva – a fare quei «lavori che gli italiani non vogliono più fare». Questo stesso mot-de-pass, comparso di recente, è la chiave che apre al mondo dei ricchi, il mondo degli stati canaglia. Il mondo dove non si produce valore, ma si consuma reddito, dove si stampa carta e la si vuole scambiare con merci prodotte in Cina. Dove si ribadisce una sovranità monetaria, convinti di poter comandare questo giochetto.
Non siamo all’interno della divisione capitalistica del lavoro, dove uno fa la Nutella, un altro fa il pane, e un altro ancora il coltello. Siamo alla frutta, dove uno sbuccia la mela, e un altro tiene il piattino, uno caca e un altro pulisce gli schizzi, uno calpesta i 20 mq di giardino e un altro taglia l’erba e spazza la cenere del BBQ.
Nessuno, per vivere – scrive Butler – dovrebbe svolgere un lavoro schifoso. Nessun americano, nessun italiano, dovrebbe fare un lavoro schifoso. Questo è il paradigma – la sindrome americana: l’idea che si possa vivere senza fare il lavoro schifoso, senza pulire il cesso – per esempio.
Non si tratta di un’idea nuova. L’immagine delle Mani pulite risale perlomeno a Oscar Wilde (L’anima dell’uomo sotto il socialismo), e, andando più indietro, la si trova anche in Marx, nei Manoscritti del 44, dove si legge (cito): Sul lavoro l’uomo si sente infelice, sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. E a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria.
Quest’idea del lavoro schifoso percorre – soprattutto – una certa corrente del socialismo e, attraverso il sociologema Alienazione, giunge sino alle soglie del rifiuto del lavoro e del desiderio di reddito garantito. Il prezzo pagato è la reificazione di Lavoro, la naturalizzazione di Lavoro, come mero dispendio di forza fisica, come mero ricambio organico, come mero Metabolismo tra Cultura e Natura (lo si legge nel Capitale). Ma in Marx il Lavoro, persino nei Manoscritti, non è mai una categoria naturale, non è mai (MAI) mero dispendio di forza fisica, non è mai (MAI) mero metabolismo (ricambio organico). Il lavoro è lavoro produttivo di capitale. E lo sfruttamento è espropriazione – non costrizione, pena, fatica, umiliazione, schiavitù, tanto meno servizio o servilismo. Lavoro è un’istanza storica. In particolare, in Marx (attraverso Hegel) il lavoro ha una valenza positiva, Cristiana (di redenzione).
Il socialismo, invece, e qui con socialismo intendo tutto quell’arcipelago culturalista che gerarchizza il lavoro a partire dalle mansioni che garantiscono le Mani pulite e che hanno a che fare – in ordine (gerarchico) – con il genio, l’arte, i diritti umani, il teatro, il giornalismo, i libri, le riveste, i computer, la TV, il cinema, il rettore, il professor universitario, il professore delle scuole superiori, l’applicato di segreteria, il bidello sorvegliante e il bidello che pulisce il cesso; il socialismo, invece, reifica il lavoro, lo interpreta come mero dispendio, e, a partire da questa reificazione, lo gerarchizza, seguendo quello schema classico, riproposto nell’Estetica di Hegel, tale per cui l’emancipazione (la felicità) coincide con la progressiva Assunzione, sino al grado sommo in cui le mani, non essendo più a contatto con la sozzura del mondo, sono dunque pulite.
Quest’idea socialista del Lavoro schifoso e delle Mani pulite costruisce le sue pretese economiche – il reddito al posto del salario – immaginando un inizio del ciclo pieno, carico; immaginando una forza prima della scissione, precedente il lavoro (Schifoso). Ci sarebbe un capitale prima dello scambio con il lavoro. E dunque – alla Bataille – sarebbe possibile un dispendio prima e aldilà di ogni lavoro schifoso – di ogni lavoro in generale. Ci sarebbe un gruzzolo originario, una dote energetica di riserva costituita a prescindere dalla produzione – una rendita, appunto! Ma una rendita che deriverebbe da niente. Un potere performativo puro – un decisionismo secco – un fiat dry.
Tutto ciò, questa idea di rendita, è figlia diretta del keynesismo. Non sto qui a ripetere cose note, ovvero la possibilità che qualcuno possa comprare senza prima avere venduto, eccetera. Voglio solo ribadire questo: Keynes era ben consapevole che la sua domanda poteva segnare la fine (la fine) del rentier; la fine dell’idea che si possa cacare senza lavare il cesso.
Infine, per chiudere, questo socialismo ripugnante (schifoso), reifica e gerarchizza il lavoro. In modo classico e bigotto pone nel basso, nel corpo, negli escrementi, ci pone il sozzo, il caduco, il non-vero, l’infelicità. Mentre pone nell’alto, nell’idea, dunque in tutte quelle professioni che hanno a che fare con l’idea (e non fa niente se in queste professioni – tipo il giornalista, il laureato assunto come stagista nel teatro e nell’organizzazione non-profit per i diritti umani – se in queste ambite professioni si guadagna meno e si lavora di più che a pulire i cessi), pone nell’idea la felicità. E dunque, mentre spende in servitù il gruzzolo che gli sarebbe caduto dal cielo, e con ciò rimane lontano dai cessi, stigmatizza – colpevolizza – il servo che svolge il suo lavoro ed è felice. Felice deve essere solo il padrone – il servo no. Questa è la grande decostruzione della dialettica Servo Padrone ereditata dagli anni Settanta. Ereditata insieme all’infelicità – la depressione – del bidello che aspira a diventare applicato; la depressione dell’applicato che aspira a diventare professore, e quella del professore che aspira a diventare preside, e quella del preside che aspira a diventare ricercatore del CNR, e quella dell’impiegato che aspira a diventare giornalista (e nella pausa caffè scrive gratis per RomaTuesday). Tutta questa infelicità deriva dall’idea di socialismo, ovvero dall’idea che ci si emancipa dal lavoro sporco e non dal lavoro salariato, che ci si emancipa dal lavoro e non dal capitalismo, che ci si emancipa facendo fare il lavoro sporco agli altri, che ci si emancipa vivendo di rendita e non di lavoro, e che il lavoro che piace (come dicono spesso i cantanti) è il lavoro che ha a che fare con la sublime ed eterea altezza dell’intelletto. Pulire i cessi è un’altra cosa – una cosa che gli italiani non vogliono più fare.