I
Il tempo, per i cristiani come per gli ebrei, ha un fine, un telos. L’avvenire – la fine – dà un senso a tutta la storia. Per i cristiani questa fine (della storia) è già cominciata. L’avvento di Cristo rappresenta una certezza, la certezza che la fine è già cominciata. Ma deve essere compiuta con il concorso della Chiesa. Il dovere missionario della Chiesa, la predicazione del Vangelo, dà al tempo compreso tra la resurrezione e la parusia il suo significato nella storia della salvezza. Cristo ha apportato la certezza dell’avvento della salvezza, ma resta compito della storia collettiva e della storia individuale compierla. Di qui il fatto, dice Le Goff (Nel medioevo: tempo della Chiesa e tempo del mercante, 1960), che il cristiano deve rinunciare al mondo, che è soltanto la sua dimora transitoria, e in pari tempo optare per esso, accettarlo e trasformarlo perché è il cantiere della storia presente della salvezza.
È l’esperienza del mondo come redenzione, come ritorno all’unità con Dio, via verso la pienezza, via della verità – Hegel. È l’esperienza del mondo come dislocazione o delocalizzazione, cacciata dal paradiso, scissione, differenza. Il corpo che diventa lo scrigno o l’arca di questo fine, di questo ritorno, di questo recupero di una condizione perduta, passata e che ci attende nel futuro, quando il percorso sarà compiuto e il corpo abbandonato, non prima di avere recuperato dall’esperienza il senso e la direzione della salvazione, il biglietto di ingresso.
II
L’unità del tempo di lavoro nell’Occidente medievale è la Giornata – dice Le Goff (Il tempo del lavoro nella «crisi» del secolo XIV: dal tempo medievale al tempo moderno). Una Giornata che si regola sul tempo mutevole naturale, sulle condizioni atmosferiche e sulla rotazione degli astri; una giornata che segue il sole e che inizia al suo sorgere e finisce al tramonto e che è regolata, approssimativamente, dal tempo religioso, quello delle horae canonicae e delle campane, derivato dall’antichità romana. Tempo rurale che si estende e ordina anche il tempo urbano.
Il legame tra il tempo dei campi e il tempo della chiesa e dunque il tempo urbano era una evidenza pienamente percepita, come testimonia l’etimologia cervellotica di Giovanni di Garlandia all’inizio del secolo XIII che fa derivare la parola campana da campo: «Campane dicuntur a rusticis qui habitant in campo, qui nesciant judicare horas nisi per campanas».
Il tempo medievale del lavoro è un tempo dominato dai ritmi agrari, tempo senza scrupolo di esattezza, poco esigente, poco capace di sforzi quantitativi. Tra il X e il XIII secolo, dice Le Goff, esso subisce una lieve evoluzione. La cronologia diurna cambia. Nona – la nona ora, situata all’incirca verso le attuali 2 pomeridiane, anticipa lentamente per fissarsi intorno a Mezzogiorno. Si tratta di un anticipo, dice Le Goff, plausibilmente imposto dai lavoratori sul cantiere urbano e che spinge una importante suddivisione del tempo di lavoro: la mezza giornata, che si affermerà pienamente solo nel secolo XIV. Da qui l’inglese noon per Mezzogiorno.
Il movimento comunale in ascesa, la vita urbana che segna un ritmo diverso nel lavoro e nella sua articolazione sociale, comincia a imporre un altro tempo, un tempo urbano più complesso, dice Le Goff, più raffinato del tempo semplice delle campagne.
In questa evoluzione del tempo non bisogna leggervi alcun progresso, men che meno un progresso tecnico o delle tecniche di misurazione del tempo. Al contrario, come mostrerà Le Goff, è una difficoltà, un inciampo, un impedimento, una debolezza, a spingere verso il cambiamento del tempo, a sostituire, man mano, il tempo dei campi e delle campane con il tempo dei cantieri urbani e dell’orologio.
III
Il problema della durata della giornata di lavoro, dice Le Goff, è soprattutto acuto nel settore tessile, dove la crisi (dove la difficoltà nella produzione) è più sensibile e dove la parte dei salari nel prezzo di costo e nei guadagni dei padroni è considerevole. Non parliamo di un settore trainante dell’economia medievale, dice Le Goff. Contrariamente a ciò che pensano alcuni storici, dice, il take off (il decollo) dell’economia medievale è avvenuto in due settori base, e non di punta: la terra e le costruzioni. La vulnerabilità di questo settore di punta, dice, ne fa il campo di elezione di una svolta nell’organizzazione del lavoro.
Si tratta di un problema di costi che richiede una nuova organizzazione del lavoro. Si avverte la necessità, dice Le Goff, di una misura rigorosa del tempo, perché nelle drapperie è opportuno che la maggior parte degli operai giornalieri vadano e vangano al lavoro a ore fisse.
Sono gli inizi dell’organizzazione del lavoro, dice Le Goff, gli annunci lontani del taylorismo.
A partire dalla fine del XIII secolo, dice Le Goff, il tempo del lavoro a giornata, il tempo dei campi e dell’agricoltura, il tempo dei contadini, un tempo impreciso, variabile, volubile, tarato sugli astri e sulla casualità atmosferica, sulla disponibilità del contadino, di ogni contadino; tarato sui ritmi del suo appezzamento e dei suoi animali, delle sue forze motrici naturali e della sua famiglia; un tempo singolare, parcellare, intraducibile, quasi singolare; questo tempo relativo, campestre, sin troppo empirico, a partire dal XIII secolo inizia ad andare in crisi, è messo in discussione. Il lavoratore delle drapperie non può arrivare o lasciare l’opificio all’ora che gli aggrada, quando gli tira o quando non tira più. Anche perché, nella nuova produzione, comincia ad affermarsi un principio di divisione del lavoro manifatturiero. Si comincia a capire che la cooperazione crea valore, che la giornata di lavoro combinata produce più prodotti di una giornata di lavoro singola o del singolo.
La forza di ciascun uomo è minima, ma la riunione delle minime forze forma una forza totale maggiore anche della somma delle forze medesime, si legge in Pietro Verri qualche secolo dopo (Meditazioni sull’economia politica).
IV
Il mercante, che spesso gestisce direttamente la produzione anticipando denaro o materie prime, capisce il valore del tempo, capisce che il tempo è denaro. Il mercante, dice Le Goff, scopre il prezzo del tempo, e lo scopre, cosa altrettanto importante, mentre esplora lo spazio: per lui la durata essenziale è quella di un tragitto. Il mercante compie la conquista del tempo e insieme quella dello spazio. Lucrare sul tempo, significa lucrare sui prezzi, capire quando è il momento conveniente per comprare su un certo mercato, in vista di una vendita, a un prezzo maggiorato, su un altro mercato. Legare la compera alla vendita, calcolare il futuro, prevedere gli sbalzi dei prezzi, rapportarsi all’inflazione, calcolare il valori dei cambi e lo svilimento delle monete diventa un’esigenza prioritaria per il mercante. Portare una merce da un mercato a un altro, portare un tessuto da Firenze a Milano, implica dei rischi, richiede dei calcoli che non hanno a che fare solo con il viaggio in sé, con il tempo che richiede la traversata, un calcolo che computa dunque tragitti e mezzi di comunicazione, ma riguarda anche il prezzo al quale si paga sul marcato di Firenze oggi, e quello al quale si vende sul Mercato di Milano domani, tenendo conto della concorrenza di altri mercanti che arrivano con prodotti acquistati su altri mercati, eccetera. La differenza spaziale si riverbera sul tempo, richiede una contabilità diversa del tempo.
Quando questa divisione manifatturiera si innesta su una divisione sociale del lavoro, il tema dello spazio e del calcolo del tempo impone una precisione ancora maggiore. Per adesso sono sufficienti le campane, le Werkglocken, che non suonano più le ore canoniche, ma quelle del lavoro – le Werk-glocken, appunto. Tempo urbano contrapposto al tempo della Chiesa. Ma si tratta ancora di un tempo approssimativo, di ore tecniche che richiedono un intervento della mano.
La campana da lavoro, dice Le Goff, spinta certamente da corde, non presenta nessuna innovazione tecnica. Il progresso decisivo verso le ore certe, le ore tecniche, è evidentemente l’invenzione e la diffusione dell’orologio meccanico, del sistema a scappamento, che promuove infine l’ora in senso matematico.
Senza dubbio, dice Le Goff, proprio il secolo XIV supera questa tappa essenziale. Il principio dell’invenzione è acquisito alla fine del secolo XIII, il secondo quarto del secolo successivo ne vede l’applicazione in quegli orologi urbani, la cui area geografica è appunto quella delle grandi zone urbane: Italia del Nord, Catalogna, Francia settentrionale, Inghilterra meridionale, Fiandre, Germania. Dalla Lombardia alla Normandia s’installa l’ora di sessanta minuti che, all’alba dell’età preindustriale, sostituisce la giornata come unità del tempo di lavoro.
V
Non si tratta dunque di una invenzione tecnica che spinge una modificazione del lavoro, e non si tratta nemmeno di un passaggio dalla campagna alla città, dal campo all’opificio, passaggio che determinerebbe un mutamento del tempo, un passaggio dalla giornata, regolata sul tempo degli astri, all’ora esatta regolata dall’orologio. Si tratta invece di molteplici fattori che agiscono gli uni sugli altri. Primo tra tutti, gli interessi del mercante, stretti tra il differenziale del prezzo di vendita e di acquisto e il controllo della forza lavoro, la regolazione del suo flusso, in entrata e in uscita.
Si è in presenza di un lavoratore che fornisce ormai una forza combinata con le forze motrici naturali ammassate in uno stesso ambito territoriale: l’opificio e la città, con i canali artificiali, i sistemi di comunicazione e di approvvigionamento, la filiera delle materia prime e delle materia sussidiaria, la produzione degli strumenti di lavoro, eccetera. Pensiamo a Milano, o a Bologna, e alla costruzione di canali artificiali che attraversano o cingono la città e servono sia da via di comunicazione sia da forza motrice.
Tutto ciò, sospinto da un arretramento della produzione nel settore tessile, da una difficoltà, da una crisi – come si direbbe oggi, con questa parola consunta, che già nel 1963 Le Goff chiude tra virgolette caporali, per segnalarne non solo l’anacronismo, ma soprattutto l’inadeguatezza.
Che il settore sia sotto scacco lo mostra anche una controffensiva dei lavoratori proprio sull’orario di lavoro. Curiosamente, dice Le Goff, prima si vedono gli operai stessi chiedere l’allungamento della giornata di lavoro. È di fatto il mezzo per aumentare i salari, è – diremmo oggi – la rivendicazione di ore straordinarie. Il sotto-impiego, che nasconde la disoccupazione, si manifesta presto. L’accesso al lavoro e l’accesso al reddito, e l’esclusione dal lavoro e l’esclusione dal reddito, si manifestano presto. Non bisogna attendere la spoliazione dei contadini e le enclosure inglesi. Nel contesto urbano il legame tra lavoro salariato e reddito è già emerso, e con esso è emersa la disoccupazione. Ed è emersa proprio in quel settore che in Inghilterra diventerà il settore di punta del capitalismo.
Nel 1315, ad Arras, un’ordinanza dei maestri drappieri e dei garzoni dei follatori accoglie favorevolmente la richiesta di questi ultimi, che desideravano «des journées plus longues et des salaires plus élevés». Si tratta di un primo rimedio per porre un freno alla crisi dei salari – dice Le Goff. Una crisi legata al rialzo dei prezzi e al deteriorarsi dei salari reali in seguito alle prime mutazioni monetarie. Filippo il Bello si vede costretto ad autorizzare il lavoro notturno, e a infrangere il divieto della Chiesa (Temo della chiesa e tempo del mercante).
Alla fine del secolo e all’inizio del secolo successivo, dice Le Goff, vediamo bene che la durata della giornata di lavoro – non il salario direttamente – è la posta delle lotte operaie. Così vediamo, dice, che una categoria urbana particolarmente combattiva, soprattutto in ambiente urbano e sub-urbano, in quel tempo di vigne di città e di periferia, quella dei vignaioli giornalieri sostenere contro i suoi datori di lavoro, signori, ecclesiastici, borghesi, una lotta per la riduzione della giornata di lavoro, che trova il suo compimento in un processo davanti al Parlamento di Parigi.
Questa lotta intorno al tempo, tempo di lavoro e tempo di non-lavoro, tempo che il mercante deve e vuole controllare e di cui si vuole appropriare, perché i suoi guadagni sono sempre più legati al tempo, al tempo di lavoro degli operai, sembra concludersi a favore del mercante e dell’umanista italiano.
Nasce così un umanesimo a base di tempo ben calcolato, dice Le Goff. L’uomo del tempo nuovo è infatti l’umanista italiano della prima generazione intorno al 1400 – mercante lui stesso o vicino agli ambienti d’affari – che traspone nella vita l’organizzazione dei suoi affari, si regola su un impiego del tempo, con una laicizzazione significativa dell’impiego del tempo monastico.
Il tabù del tempo che il Medioevo ha opposto al mercante, dice Le Goff, è rimosso all’alba del Rinascimento. Il tempo che apparteneva solo a Dio è ormai proprietà dell’uomo.
VI
Così vanno le cose, anche se questo processo di laicizzazione, e la laicizzazione stessa del tempo, non sono facilmente opponibili al tempo teologico, al tempo di Dio e della Chiesa.
L’usuraio vende il tempo, mentre il mercante vende lo spazio. Gioca sulle differenze di prezzo sulle diverse piazze. Ma lo spazio è tempo. E il tempo è spazio.
Guillaume D’Auxerre, cita Agostino, e dice che l’usuraio vende il tempo che è comune a tutte le creature, vende un Bene Comune. Ogni creatura è obbligata a fare dono di sé; il sole è obliato a far dono di sé per illuminare; e immaginate qualcuno che si appropri di questo Bene Comune e lo dispensi dietro il pagamento di un prezzo; lo stesso la Terra è obbligata a far dono di tutto ciò che può produrre, e lo stesso l’acqua; e immaginate qualcuno che si appropri di questo Bene Comune e lo dispensi dietro il pagamento di un prezzo. Ma niente fa dono di sé in modo più conforme alla natura del tempo: volente o nolente, le cose hanno il tempo. Poiché dunque, continua Guillaume D’Auxerre, l’usuraio vende ciò che appartiene necessariamente a tutte le creature, egli lede tutte le creature in generale, anche le pietre, donde risulta che, anche se gli uomini tacessero davanti agli usurai, le pietre griderebbero se potessero; ed una delle ragioni per le quali la Chiesa perseguita gli usurai. È specialmente contro di loro che Dio dice: «Quando riprenderò il tempo, cioè quando il tempo sarà in mia mano in modo tale che un usuraio non potrà venderlo, allora giudicherò conformemente alla giustizia. Siccome gli usurai non vendono che la speranza del denaro, cioè il tempo, essi vendono il giorno e la notte. Ma il giorno è il tempo della luce, e la notte il tempo del riposo; vendono dunque la luce e il riposo. Perciò non sarebbe giusto che godessero della luce e del riposo eterni.
Quel è il tempo di Dio del quale l’usuraio si appropria?
È il tempo della fine del tempo; è il tempo del riscatto dal peccato. Dio ha dato il tempo al mondo affinché il mondo facesse esperienza del peccato; fare esperienza del peccato significa patire, compatire – la Passione dell’esistenza, il travaglio, il viaggio, la traversata, la destinazione. Questo tempo terrestre è un tempo subordinato al fine della redenzione, del riscatto, dell’elevazione. È un tempo che deve essere vissuto per essere superato, rilevato. Il tragitto deve terminare nell’assoluzione – parusia -, nel ricongiungimento, e il ricongiungimento è possibile se la passione ha portato alla redenzione, se il viaggio e la penitenza hanno ottenuto l’assoluzione. Non è difficile vedere in ciò la dialettica di Hegel. I tre momenti della caduta, dell’incarnazione, della resurrezione. O i tre momenti della capitalizzazione: D-M-D’, dove D’ rileva M, lo sopprime recuperando il (plus)valore. L’investimento non deve mai rimanere fissato nel capitale fisso o nel capitale circolante, deve risolversi in denaro, in valore astratto o virtuale.
VII
Il lavoro è il mezzo della redenzione e lo strumento della penitenza – è la penitenza stessa. Se lavori è perché hai peccato. Il lavoro è legato al peccato, al male.
Ma le cose, come per il tempo, non sono lineari. Nello stesso momento in cui si fa sentire questa scomunica, e il cristianesimo, con il commercio e la produzione, con la sua lingua franca e la sua scienza conquista il mondo, il mondo del lavoro si sottrae a questa scomunica.
A partire dalla fine del secolo VIII, dice Le Goff (Società tripartita, ideologia monarchica e rinnovamento economico nella cristianità dal secolo IX al XII, 1968), le parole della famiglia labor tendono a designare forme di lavoro rurale che comportano un’idea di valorizzazione, di miglioramento, di progresso quantitativo o qualitativo dello sfruttamento agricolo. Il labor, dice, i labores sono piuttosto i risultati, i frutti, i guadagni del lavoro, che il lavoro medesimo. Intorno a questa famiglia di parole sembra cristallizzarsi il vocabolario che designa i progressi agricoli sensibili in molte regioni a partire dal secolo IX, si tratta di estensione della superficie coltivata per dissodamento (e labores potrà essere sinonimo di navalia, di decime riscosse su terre recentemente dissodate). Così laboratores, dice Le Goff, finisce col designare in modo più particolare quei lavoratori agricoli che sono i principali artefici e beneficiari di questo progresso economico, un’élite contadina, che un testo del secolo X definisce assai bene: «illi meliores qui sunt laboratores».
È dunque un’élite economica, quella in primo piano nello sviluppo agricolo della cristianità fra il secolo IX e il XII, che costituisce il terzo ordine – il terzo stato.
Mai sottratti alla maledizione, alcuni lavori rimangono comunque interdetti. Alle interdizioni antiche, che riguardano il tabù del sangue (macellaio), il tabù dell’impurità (cuochi) e della sporcizia (tessitori), il tabù del denaro (bancari), si sommano le condanne del cristianesimo.
Il cristianesimo, dice le Goff (Mestieri leciti e mestieri illeciti nell’Occidente medievale, 1963), allunga la lista dei mestieri e delle professioni proibite o disprezzate. La lista è talmente lunga da includere quasi ogni lavoro. È il lavoro stesso a essere maledetto. Soprattutto quando cede alla lussuria, all’avarizia, all’orgoglio. In ciò che appare come un cortocircuito, persino la pigrizia giustifica la messa all’indice della professione del mendicante.
In generale, è interdetto il lavoro sudicio. E su tutti, il più sudicio, è il lavoro della prostituta. Per Tommaso di Cobhan, le prostitute devono essere annoverate tra i mercenari. E i mercenari, come aveva ben ammonito San Tommaso d’Aquino, sono da condannare, perché fanno del lucro il fine del loro lavoro.
Dunque, chiunque si venda o affitti l’uso della sua forza corporea per interesse, si prostituisce, si perde, non è più presso di sé, a casa propria, non può più disporre di sé. L’alienazione del corpo – la prostituzione -, dare via l’uso del proprio corpo per soldi, soldi che verranno usati a casa propria per stare bene e per stare presso di sé, con i figli e la famiglia, questa alienazione, questa vendita, è prostituzione bella e buona.
Le prostitute, dice Tommaso di Cobhan, sono mercenarie, infatti affittano il loro corpo e forniscono un lavoro affittando il corpo. Ora, dice, se il ricavo del mercimonio viene diretto verso un fine superiore e ammesso, la prostituzione può continuare. Se invece, il reddito della prostituzione viene speso per il piacere della prostituta, se il denaro solleva dalla pena del lavoro, allora questo denaro, e chi lo guadagna, sono maledetti.
Il lavoro non può avere un fine diverso da quello della redenzione. Il lavoro è e deve rimanere legato alla redenzione – è punizione, fatica, maledizione. Perciò, dice Tommaso di Cobhan, se ci si prostituisce per piacere e se si affitta il proprio corpo perché conosca il godimento, allora non si affitta il proprio lavoro, e il guadagno è vergognoso quanto l’atto. Allo stesso modo se la prostituta si profuma e si orna in modo da attirare con false attrattive e fa intuire una bellezza e lusinghe che non possiede, dal momento che il cliente compra ciò che vede, e che, in questo caso, è menzogna, la prostituta commette con ciò un peccato, e non deve conservare il guadagno che ne ritrae.
Tutto ciò che insudicia è peccato. Le mani sporche sono peccato. Il contatto con il cibo e il sangue è peccato. Il contatto – in generale – è peccato. Ingannare è peccato. Godere nel lavoro e del lavoro è peccato. Deviare dallo scopo per il quale il lavoro è permesso è peccato. Far diventare il lavoro un fine, anziché un mezzo, è peccato. Il fine non può essere terreno. Non può essere il desiderio e la carne, le mani, le guance, i fianchi, le anche. Essendo gli uomini figli di Dio, dice Le Goff, sono partecipi della sua divinità, e il corpo è un tabernacolo vivente. Tutto ciò che lo insudicia è peccato. Quindi i mestieri lussuriosi – o pretesi tali – sono particolarmente stigmatizzati. Provare piacere nel lavoro è peccato. L’uomo deve lavorare a immagine di Dio. Il lavoro di Dio è creazione. Ogni professione che non sia creativa è dunque infame o inferiore. Perciò è condannato il mercante, in quanto non crea nulla.
È questa, dice Le Goff, una struttura mentale essenziale della società cristiana, nutrita di una teologia e di una morale fiorite in regime pre-capitalista.
VIII
Nell’alto Medioevo non c’era ancora un termine per designare i Laboradores. Il lavoro, dice Le Goff (Lavoro tecniche e artigiani nei sistemi di valore dell’alto Medioevo, 1971), il lavoro non era un valore, non c’era neppure un termine che lo designasse. Si era immersi nell’ambiguità tra ars e artes, situati tra l’abilità tecnica e il genio creatore, oscillanti tra il negotium e l’otium.
Si tratta di un’ambivalenza che trova i suoi elementi teologici nella Genesi – Tulit ergo Dominus Deus hominem et posuit eum in paradiso voluptatis, ut operaretur et custodiret eum – dove nell’Eden, libero dal lavoro, l’uomo gode dei frutti messi a sua disposizione; e l’uomo caduto, condannato al lavoro, il lavoro come castigo e penitenza, come esperienza e redenzione: In sudore vultus tui vesceris pane.
Il lavoro, soprattutto il lavoro manuale, come caduta, e caduta in un corpo e nella materia estranea, è incarnazione. L’operaio nel lavoro (per riprendere un tema moderno) non si sente presso di sé, non si sente a casa propria, il lavoro è esterno, in esso l’operaio è infelice, solo fuori dal lavoro si sente presso di sé, e nel lavoro fuori di sé.
Le diverse tradizioni dell’alto Medioevo, dice Le Goff, oscillano tra il disprezzo e la valorizzazione del lavoro. La coppia lavoro/non-lavoro oscilla in base a un andazzo esterno che dipende dalla storia e da condizioni generali mutevoli.
Tra il V e l’VIII secolo il lavoro scompare dalle fonti. Questa scomparsa è sicuramente il frutto di un arretramento tecnico e specialistico. Ma coincide anche con la riduzione della nozione di lavoro a quella di lavoro manuale e di questo al lavoro rurale. Per esempio, dice Le Goff, è tra il secolo VI e l’VIII che il verbo laborare si specializza per designare il lavoro agricolo, sia come verbo transitivo (laborare campum, terram, ecc…), sia usato in senso assoluto (laborare = arare).
Dal punto di vista della mentalità, dice, è impossibile parlare degli atteggiamenti riguardo a qualsiasi forma di lavoro senza evocare il lavoro manuale, cioè nel Medioevo il lavoro agricolo e nelle società industriali il lavoro operaio. E il lavoro manuale è legato alla caduta, alla maledizione divina e alla penitenza. Persino nei monasteri, dove regna la contemplazione, il lavoro è somministrato come penitenza. Il monaco si umilia lavorando. Negli scriptoria dei monasteri, dice Le Goff, scribere, copiare manoscritti, è considerato come un lavoro manuale e di conseguenza come una forma di penitenza. Ancora ieri far copiare più volte un testo nelle scuole elementari era considerato una punizione per lo scolaro poco contemplativo, poco attento, poco rispettoso. Scrivere, quando scrivere è copiare, era una punizione.
Questa stimma del lavoro, la maledizione del lavoro, si trascina sino a oggi, si legge nelle precisazioni compiaciute dei cantanti e dei giornalisti quando ci tengono a sottolineare che il loro non è un lavoro, che loro si divertono, che pur impegnandosi oltre il tempo medio consentito e oltre il pensionamento non sentono la fatica, lo sforzo, l’umiliazione, eccetera. O, al contrario, ma sempre sullo stesso registro, quei cantanti e quei registi che considerano il loro lavoro una missione, una esperienza, una via crucis, un calvario, una missione in vista della redenzione dei seguaci, dei fans.
IX
Nel 1999, nel Seminario che tiene all’EHESS, Derrida dedica alcune lezioni al tema Cristianesimo e Mondializzazione. Lo stesso argomento era stato affrontato, in maniera più succinta, nel 1998, in una conferenza alla Stanford University sull’Avvenire della professione.
Parlando di Globalizzazione e cristianesimo non voglio insinuare, dice Derrida, che c’è qui una manovra, una strategia egemonica, un’invasione del mondo o della terra da parte di questi poteri in fondo extraterrestri che sono i poteri cristiani. Cristiani, uomini e donne di buona fede cristiana, possono sempre venire a ricordare che la cosiddetta cristianizzazione non è un processo di conquista, una strategia vittoriosa in un mondo, in una storia socio-politica o economica, in un mercato, in linguaggi e tecniche di comunicazione, tante cose che spesso abbiamo in mente quando si parla di globalizzazione o mondializzazione. No, dice Derrida, il cristianesimo come storia di una buona novella e in attesa di un mondo nuovo, ripetizione nei secoli dei secoli di ciò che Cristo ha testimoniato, ecc., il cristianesimo come mondo a venire è una mondializzazione, si produrrà solo attraverso questa esperienza di riconciliazione universale attraverso la confessione dei peccati, il perdono, la fraternizzazione mondiale dei fratelli.
Questa mondializzazione – o globalizzazione – avrebbe luogo o nella forma del sapere assoluto e della fine della storia hegeliana o nella forma della Città di Dio di Agostino.
Gli anni Novanta sono gli anni della Fine della Storia, del pensiero unico, del crollo dell’Unione Sovietica e della riconciliazione del mondo Occidentale e cristiano, della sua riunificazione, del perdono per i crimini commessi dal comunismo. Tutto ciò, dice Derrida, prevalendo, tentando di prevalere, sulle frontiere degli Stati-nazione e del mercato.
Gli anni Novanta sono gli anni della fine dello Stato e della Fine del lavoro, sono gli anni di nuove promesse: il web collegherà tutto il mondo, abolirà le distanze e le differenze, unirà in una comunità globale o mondiale; le macchine ci solleveranno dalla fatica e la genetica ci salverà dalle malattie.
La promessa degli anni Novanta è, soprattutto, la promessa di un mondo senza lavoro, dice Derrida (Conferenza a Stanford), la promessa di un riposo sabbatico eterno, all’epoca di un sabato senza tramonto, di un regno (l’Occidente cristiano) dove non tramonta mai il sole, di un regno globale, come nella Città di Dio di Agostino. Nostalgia rivolta verso un’età dell’oro o un paradiso terrestre, a quel momento della Genesi in cui, prima del peccato, il sudore del lavoro non avrebbe ancora cominciato a colare, né per la fatica (labeur) e per il lavoro dei campi (labour) nell’uomo, né per il travaglio (travail) del parto della donna. Sguardo verso un passato, un inizio del mondo che esclude originariamente il lavoro. All’inizio non ci sarebbe ancora lavoro. Il peccato originale, dice Derrida, avrebbe introdotto il lavoro nel mondo. La fine del lavoro annuncerebbe la fase terminale di un’espiazione. La liberazione dal lavoro sarebbe una redenzione.
In questa Città di Dio a venire, dice Derrida (Seminario), quando la liberazione, l’espiazione, la redenzione avranno cancellato le colpe, Agostino vede annunciarsi anche la fine del lavoro, il riposo assoluto, temi moderni se mai ve ne sono. Spesso, dice, si associa il processo di mondializzazione con la fine del lavoro, con il tele-lavoro che segna la fine del lavoro come fatica, sofferenza, destino del corpo, del sudore della fronte, il diventare-virtuale del lavoro che alleggerisce la pesantezza e l’aver-luogo del lavoro (vi rinvio a delle opere che sono destinate a diventare dei classici, come il libro di Jeremy Rifkin su La fine del lavoro; di Dominique Méda, Le travail. Une valeur en voie de disparition, di André Gorz, Metamorfosi del lavoro; a Le Temps Modern, dossier su La mutation du travail, 1998).
Non affronterò direttamente questa problematica denominata «fine del lavoro», dice Derrida, problematica che non è assente in alcuni testi di Marx o di Lenin. Proprio quest’ultimo, dice, associava la riduzione progressiva della giornata di lavoro al processo che avrebbe condotto alla scomparsa completa dello Stato (Stato e rivoluzione).
In Marx e in Lenin si trovano tracce di questo cristianesimo, sicuramente acquisito attraverso Hegel. In Stato e rivoluzione (6,3), in effetti, Lenin dice che la possibilità della distruzione dello Stato è garantita dal fatto che il socialismo ridurrà la giornata di lavoro, eleverà le masse a una vita nuova e metterà la maggioranza della popolazione in condizioni tali da permettere a tutti, senza eccezione, di adempiere le funzioni statali, ciò che porta in ultima analisi alla completa estinzione di qualsiasi Stato in generale. E nel Capitale (3,VII,3) Marx parla di un regno della libertà che comincia appunto con la riduzione della giornata di lavoro.
X
Derrida non affronta direttamente il tema della «fine del lavoro», perché si tratta di un tema complicato, che meriterebbe una trattazione lunga e minuziosa. Nella Conferenza del 1998 ricorda come il concetto di lavoro sia carico di senso, di storia e di equivocità, ed è difficile pensarlo al di là del bene e del male. Se è sempre associato infatti alla dignità, e contemporaneamente alla vita, alla produzione, alla storia, al bene, alla libertà, è altrettanto spesso collegato al male, alla sofferenza, alla pena, al peccato, al castigo, all’asservimento. Ciò che richiede lavoro è penoso, e questa pena, dice, può essere quella di un dolore ma anche quella di una penalità.
Non sottovaluta neanche i paradossi che nel capitalismo investono il lavoro. In questo secolo, dice (Seminario), certamente accade qualcosa al lavoro, alla realtà e al concetto di lavoro, e qualche cosa che ha a che fare con la tecnica e una certa tendenza alla riduzione asintotica del tempo di lavoro e del lavoro in tempo reale e la localizzazione nel medesimo luogo del corpo del lavoratore, del lavoro, dunque, nelle forme classiche che abbiamo ereditato; e dall’altra parte, dice, accade qualcosa nell’esperienza delle frontiere, della comunicazione virtuale, della velocità e dell’estensione dell’informazione, qualche cosa che si muove verso una certa mondializzazione. Tutto ciò, dice, è poco contestabile e abbastanza noto. Ma, dice, tra questi indici parziali, eterogenei, ineguali nel loro sviluppo, che chiedono un’attenta analisi e senza dubbio nuovi concetti e, dall’altra parte, l’uso dossico, altri direbbero l’inflazione ideologica, l’autocompiacimento retorico e spesso fumoso con cui si crede a queste parole «fine del lavoro» e «globalizzazione», c’è, dice, uno scarto che non soltanto non vorrei superare facilmente, ma ritengo che il suo facile superamento debba essere denunciato – soprattutto quando tende a far obliare le zone del mondo, le popolazioni nazionali, gruppi, classi, individui che, in grande quantità, sono esclusi, se non vittime di questo movimento chiamato «fine del lavoro» e «mondializzazione», vittime o perché mancano di un lavoro di cui avrebbero bisogno, oppure perché lavorano troppo per quello che ricevono in cambio, la cosiddetta ricompensa – e ciò in cifre assolute più che mai nella storia di un’umanità che forse non è mai stata più lontana dalla omogeneità mondializzante o mondializzata e del «senza lavoro» di quanto si sostiene o si accredita spesso. Essa è «senza lavoro» laddove vorrebbe del lavoro, o più lavoro, ed ha troppo lavoro laddove vorrebbe averne meno.
XI
Derrida ha chiara l’immagine del lavoro nel capitalismo, ha chiaro il tema della povertà nella ricchezza, capisce che l’aumento della produttività non produce un aumento della ricchezza, e che, come scrive Marx, il valore delle merci sta in rapporto inverso alla forza produttiva del lavoro; e altrettanto il valore della forza-lavoro; sa che, insomma, la povertà e la sofferenza aumentano in ragione diretta dell’aumento della ricchezza – quando il pensiero dossico immagina il contrario. In secondo luogo, Derrida ha ben chiaro che anche la mondializzazione – la globalizzazione: cioè il diventare comune, il luogo comune, il bene comune, eccetera; mondializzazione indotta dalla tecnologia – la mondializzazione, dicevo, occulta differenze enormi, estreme, occulta il fatto che da una parte del mondo si accumula «la fine del lavoro», mentre da un’altra parte si sperimenta una intensificazione estrema del lavoro, un allungamento del lavoro. E, infine, rimarca un elemento centrale del capitalismo: la disoccupazione involontaria, l’esclusione dal reddito, dall’accesso a una fonte di reddito per i disoccupati, la quale corrisponde direttamente al super-sfruttamento di chi rimane a lavoro. Mentre per qualcuno la «fine del lavoro» è già arrivata, ed è arrivata da tempo e significa ozio, per altri la «fine del lavoro» significa disoccupazione, per altri ancora, la «fine del lavoro» (per alcuni) significa l’intensificazione del lavoro, più propriamente, come scrive Marx, la svalutazione del lavoro, l’aumento di produttività come svalorizzazione del lavoro. Più che di una mondializzazione, e di una pace ritrovata, di una fratellanza ritrovata, di una fine della storia e di una fine del lavoro, di una fine anche della politica, si tratta, diceva già nel 1993 a una conferenza all’Università della California, dove era stato chiamato a parlare di Marx, in una conferenza dove si voleva seppellire definitivamente Marx, Derrida diceva: Bene, mi avete chiamato qui per partecipare a questo funerale, mi avete messo davanti al cadavere di Marx, cadavere che sta già imputridendo (nel convengo, dal titolo Whither marxism?, si giocava con l’inglese whither e wither), ebbene vi informo che Marx è morto da tempo, l’abbiamo ammazzato da tempo, e che da morto è ancora una minaccia, una minaccia persino peggiore che da vivo; più che di una pace ritrovata si tratta di un disordine ancor maggiore. Nel momento in cui, dice (Spettri di Marx, 1993), un nuovo disordine mondiale tenta di installare il suo neo-capitalismo e il suo neo-liberismo, nessuna denegazione giunge a sbarazzarsi dei fantasmi di Marx. L’egemonia organizza sempre la repressione e quindi la conferma di una hantise. Reprimendo, uccidendo Marx, la repressione non fa altro che rivitalizzarne il fantasma, lo spirito. Morto o non morto, rimane il fatto che, dice Derrida, non possiamo ignorare la guerra economica che infuria oggi sia tra Usa e Comunità europea, sia all’interno dalla Comunità europea. E non possiamo minimizzare i conflitti del GATT e tutto quel che vi si concentra – le complesse strategie del protezionismo lo ricordano ogni giorno -, per non parlare della guerra economica con il Giappone e di tutte le contraddizioni che travagliano il commercio dei paesi ricchi con il resto del mondo, dei fenomeni di pauperizzazione e della ferocia del debito estero, degli effetti di ciò che il Manifesto chiamava L’Epidemia della Sovrapproduzione e dello Stato di barbarie momentanea che essa può indurre nelle società cosiddette civilizzate, ecc. Per analizzare queste guerre e la logica di questi antagonismi, dice Derrida, una problematica tradizionale marxiana sarà a lungo indispensabile.
È indispensabile per analizzare, prima di tutto, la Disoccupazione, dice, la quale meriterebbe oggi un altro nome. Tanto più oggi, dice, quando il tele-lavoro [leggi delocalizzazione] vi configura una distribuzione che perturba tanto i metodi del calcolo tradizionale quanto l’opposizione concettuale tra il lavoro e il non-lavoro, l’impiego e il suo contrario [quando è evidente che lavoro e non-lavoro sono la stessa minestra, frutto dello stesso movimento, rimanendo inconcepibile un disoccupato in un regime economico di sussistenza, per esempio]. Questo sregolamento regolare chiamato disoccupazione, dice, è allo stesso tempo dominato, calcolato, socializzato, cioè per lo più negato – e irriducibile alla previsione, al pari della stessa sofferenza, una sofferenza che soffre ancora di più, e più oscuramente, per aver perduto i suoi modelli e il suo abituale linguaggio, dal momento che non si riconosce più sotto la vecchia parola Disoccupazione, e sulla scena che essa ha per così tanto tempo nominato. La funzione dell’inattività sociale, del non-lavoro o del sotto-impiego, dice, entra in una nuova era. Richiede un’altra politica. Un altro concetto. La Nuova Disoccupazione somiglia così poco a una disoccupazione, anche nelle forme della sua esperienza e del suo calcolo, quanto quel che in Francia è chiamata la Nuova Povertà somigli alla povertà. In secondo luogo, dice, l’esclusione massiccia dei cittadini senza casa. In terzo luogo, dice, la guerra economica senza pietà dei paesi della Comunità europea tra di loro, tra di loro e i paesi europei dell’Est, tra l’Europa e gli Stati Uniti, l’Europa, gli Stati Uniti e il Giappone. Questa guerra comanda tutto, a cominciare dalle altre guerre, perché comanda l’interpretazione pratica e una messa in opera inconseguente e ineguale del diritto internazionale. In quarto luogo, dice, l’incapacità di dominare le contraddizioni, le norme e la realtà del libero mercato (le barriere di protezionismo e il rilancio interventista degli Stati capitalisti per proteggere i loro connazionali, anzi gli occidentali o gli europei in generale, dalla manodopera a buon mercato, spesso senza una protezione sociale compatibile). Come salvaguardare i propri interessi sul mercato mondiale pretendendo di proteggere anche le proprie conquiste sociali, ecc.? Come pretendere di esportare i capitali dove le condizioni di valorizzazione sono ancora possibili e, allo stesso tempo, salvare i diritti acquisiti nei paesi dai quali i capitali migrano? Quinto, l’aggravarsi del debito estero. Settimo, l’industria degli armamenti, strettamente connessa, connessa direttamente col mondo della ricerca scientifica, dell’economia e della socializzazione del lavoro delle democrazie occidentali.
XII
Al primo posto, o all’ultimo posto, come conseguenza degli altri punti, c’è la Disoccupazione, una disoccupazione che non è più tale, che deve cambiare nome, e lo deve cambiare perché il lavoro stesso – l’impiego – non si distingue più dal non-impiego, l’attività non si distingue più dalla inattività. E non parliamo solo (o non solo) della vecchia querelle che, negli anni Settanta, ha fatto dire all’Operaismo italiano che non c’è più differenza tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, perché, riprendendo un’indicazione dei Grundrisse, il lavoro è diventato una misura miserabile, il lavoro vivo è diventato un’inezia rispetto al lavoro morto, e che, dunque, oggi le figure centrali sono le figure marginali, trascurabili, borderline. Nelle forme della sua esperienza e del suo calcolo, dice Derrida, la disoccupazione somiglia così poco alla disoccupazione che spesso, sempre più spesso, viene calcolata, dominata, socializzata, cioè negata – trattata come Occupazione. Il riferimento è ai calcoli degli istituti nazionali di statistica che considerano impiegati – attivi, non-disoccupati – i lavoratori che hanno fornito anche solo una settima di lavoro in un anno; che considerano occupati i sotto-occupati, cioè tutti quelli che, e in Italia sono ormai la maggioranza, guadagnano un reddito talmente basso da cadere nella no-tax-area – lavoratori poveri, che non possono pagare un mutuo o un affitto, lavoratori che dormano nelle baracche nei campi, lavoratori che dormono nei negozi, lavoratori che vivono e dormono dove lavorano, al nord e al sud, a Milano e a Foggia, lavoratori che spesso vivono in condizioni peggiori dei cosiddetti disoccupati – e una certa acredine dei cosiddetti lavoratori, una loro svolta cosiddetta reazionaria, in Italia e in Germania, in Francia e in Europa un po’ dovunque, deriva direttamente da questa politica oscurantista, una politica che con le sue statistiche divide ciò che non è più divisibile, mette contro occupati e disoccupati, quando è evidente che la differenza tra gli uni e gli altri è difficilmente tracciabile. Sempre sul calcolo, Derrida dice, e qui bisogna stare attenti a non leggervi un rigurgito romantico contro la matematica, contro l’illuminismo e ogni forma di scienza, un rigurgito reazionario che, di fronte a conti che non tornano – e i conti non tornano – immagina una prossimità e una immediatezza priva di calcolo, di scienza, eccetera. Bisogna prendere tutte le precauzioni del caso per non cedere a quelle forme di oscurantismo che avanzano e fanno proseliti proprio in quanto i conti sono sempre più sballati: i dati statistici sono sempre più performanti, sempre più costruiscono la realtà che pretendono di descrivere. Una volta prese queste precauzioni bisogna riconoscere la dismisura – la sproporzione che grida vendetta – tra il valore del lavoro (le paghe) e i prezzi dei prodotti. Non è vero, non è sempre vero, che a basse paghe corrisponde sempre un prodotto più a buon mercato. Che, per esempio, grazie a un’agricoltura meridionale di tipo schiavistico abbiamo sulle tavole pomodori e insalata low cost. Non è vero, non solo perché a Milano ci sono lavoratori che cuciono borsette di alta moda vendute a prezzi che non hanno alcuna relazione razionale con i costi di produzione, lavoratori che mangiano e dormono in fabbrica, lavoratori ignoti alle statistiche nazionali e comunali, lavoratori che, quando arrivano gli ispettori, spariscono, e spariscono per sempre, come fantasmi; non è vero perché non siamo più, e da tempo, in un regime di concorrenza, in quel regime che riconduce a forza i prezzi in prossimità dei costi di produzione. Oggi, in molti settori – farmaceutico, software, automotive, moda, carburante, gas, luce, eccetera – i prezzi hanno una relazione labile con i costi di produzione.
Infine, Derrida parla di una sofferenza legata al lavoro e al non-lavoro che soffre ancora di più, e più oscuramente, per aver perduto i suoi modelli e il suo abituale linguaggio, dal momento che non si riconosce più sotto la vecchia parola Disoccupazione, e sulla scena che essa ha per così tanto tempo nominato. La sofferenza non si chiama solo lavoro povero e reddito scarso per occupati che diventano homeless, senza assistenza sanitaria, ecc.; la sofferenza è anche psichica, in un mondo in cui il lavoro svalutato è assimilato alla sfiga, e l’aiuto è assimilato al paternalismo e all’elemosina, anche quando questo paternalismo arriva dallo Stato sotto forma di assegni alla povertà, mense popolari ecc. La Sofferenza e il Disorientamento – la perdita di modelli di orientamento e di un linguaggio abituali – derivano proprio dal fatto che la differenza tra Disoccupazione e Occupazione diventa sempre più labile.
Nel film di Riondino Palazzina Laf, una settantina di impiegati, perlopiù di medio e alto livello, non possono essere licenziati perché in Italia – come nel resto dell’Occidente – si è affermato il Diritto al lavoro.
Nella società capitalista, quando ogni tipo di rapporto è mediato dal mercato, rimanere esclusi dal lavoro significa essere condannati a morte. Per la maggioranza delle persone la porta di accesso al mercato è il lavoro, dunque avere un lavoro significa avere accesso al mercato, e avere accesso al mercato significare poter vivere, avere le risorse per continuare a vivere.
In quelle società dove il mercato si presenta come un elemento marginale e assorbe una piccola porzione dei rapporti e delle risorse prodotte né l’impiego presso terzi né la disoccupazione assumo la centralità che hanno nella società capitalista. Questa centralità è rimarcata dalla capillare divisione globale del lavoro. Oggi più nessuno produce interamente ciò che consuma. Ripristinare per qualcuno un’economia di sussistenza, come qualche architetto dell’orto sul balcone patrocina, è impossibile, vista l’enorme dipendenza, per ogni minimo consumo, dal lavoro di altri lavoratori sparsi ai quattro angoli del mondo. Persino i rapporti più intimi dipendono ormai dal lavoro di altre persone. Accoppiarsi, procreare, allevare un figlio sarebbero impensabili senza il letto, le lenzuola, l’energia elettrica e il metano, il latte in polvere, l’aspirina, le mutande e il pannolino prodotti da altrettanti lavoratori nei luoghi più remoti del mondo. In questo contesto, lavorare o rimanere senza lavoro, assume un significato preciso, un significato che non aveva in una società precedente, nella quale il mercato non aveva totalizzato ogni scambio. È in questo contesto che si afferma un diritto al lavoro e al pieno impiego (Crf. Giovanni Mazzetti, Dalla crisi del comunismo all’agire comunitario). Pieno impiego non significa – o, perlomeno, non ha avuto il significato – di un lavoro retribuito per ogni persona attiva. Ha significato l’acceso al reddito. Bisogna ricordare che nel periodo in cui la politica del pieno impiego si è imposta, si sono contemporaneamente estesi universalmente il diritto all’educazione, cioè il diritto ad avere un reddito per poter studiare fino ai 16 anni e oltre – persino fino ai 24 e oltre – per la totalità dei giovani, dunque si è affermata per essi l’escursione sia della platea degli occupati sia dalla platea dei disoccupati; il diritto universale alla pensione; il diritto a un sussidio di disoccupazione, all’indennità di malattia e di maternità, l’invalidità civile e l’invalidità sul lavoro, il sussidio per la disabilità, persino il presalario, l’alloggio e la mesa gratuiti per gli studenti universitari, il diritto alla casa. Si è affermato, legalmente, il Posto fisso, ovvero l’inamovibilità – a vita (lavorativa) – dal posto di lavoro.
Questo cambiamento epocale – e radicale; cambiamento soprattutto legislativo, il quale recepisce un mutamente del ruolo e del significato del lavoro nelle società capitaliste avanzate, cioè in quelle società dove il mercato media la quasi totalità dei rapporti produttivi e riproduttivi; questo cambiamento ha portato una sovversione dei modelli riconosciuti e dei linguaggi abituali.
Non starò qui a rimarcare il fatto che nella società del pieno impiego il legame con gli altri è ancora regolato della divisione sociale del lavoro e dalla pretesa di realizzare un profitto dall’impiego del lavoro, e di come questo obiettivo confligga con la politica del pieno impiego. Per un approfondimento rimando a G. Mazzetti, sopratutto a Scarsità e redistribuzione del lavoro e La dinamica e i mutamenti sociali del lavoro. Questo conflitto emerge bene nel film di Riondino.
I 70 dipendenti sono relegati nella Palazzina Laf a fare niente. Non potendo essere direttamente licenziati, sono costretti all’inattività, alla disoccupazione. Sono pagati per non fare niente. Ma questo fare niente non somiglia per nulla alla disoccupazione. Solo un lavoratore di una società pre-pieno impiego considererebbe questo far niente come una disoccupazione, una inattività, un essere pagati per godersela. È ciò che, nel film, fa Caterino, il protagonista.
I lavoratori sono presi in un doppio legame. Devono accettare una inoperosità – che è una condanna – per evitare una inoperosità (disoccupazione) che è un’altra condanna.
Non è mutato solo il concetto di lavoro, è mutato anche il concetto di non-lavoro. Il non-lavoro non è parusia, è sofferenza, tanto e forse più del lavoro. Essere occupati, e non avere una funzione, è quasi peggio che essere disoccupati. Lo sanno bene i funzionari e gli impiegati pubblici che fanno a gara, negli uffici, a rubarsi quel poco di lavoro che è rimasto e avere così la soddisfazione di fare qualcosa, di essere qualcuno, di dare un significato alla propria giornata – a meno che non si è un Caterino. Oppure a subire l’umiliazione di un lavoro insensato, come spostare faldoni da un armadio a un altro, inserire scontrini e fatture in una superata, quanto inutile, tabella elettronica, avere studiato biologia all’università e popolare le voci del conto farmacia nell’economato dell’ASL, eccetera. Per ammazzare il tempo i 70 impiagati relegati nella Palazzina Laf sviluppano una cultura di tipo new age: pregano, recitano, contestano, giocano, scherzano, si radicalizzano – poi si ammalano, impazziscono, e qui la follia non ha nulla di creativo.
Il tempo libero è una condanna quando il valore d’uso prodotto – quando è prodotto – non ha una utilità né diretta né indiretta – non funziona né come fine né come mezzo. Persino regredire ad uno status quo ante acquista una valenza positiva.
XIII
Rifkin vede nella terza rivoluzione industriale della robotica e della micro-elettronica, vede una saturazione da parte delle macchine che annuncia la fine del lavoratore, dunque la fine del lavoro. Non vi è dubbio che, dice Derrida, in questo secolo accade qualcosa al lavoro. E una volta prese le precauzioni, passato in rassegna tutto ciò che accade al lavoro e nel lavoro, così come è stato fatto sopra; una volta prese queste precauzioni, dice Derrida (Seminario), mi accontenterò di evidenziare, entro il contesto di ciò che qui stiamo affrontando (Cristianesimo e Mondializzazione), che il lavoro così considerato, il lavoro a cui fa riferimento Rifkin, non è l’attività, ma il lavoro che permette di vivere con il sudore della propria fronte, il lavoro faticoso, doloroso, il tripalium strumento di tortura, il lavoro come punizione nella sua dimensione biblica; è questo lavoro che in La città di Dio dovrà giungere alla sua fine, contemporaneamente alla liberazione, alla redenzione, all’impossibilità di morire e di peccare. È da questo lavoro che saremo liberati. Nel perdono in generale, dice, è possibile vedere la fine del lavoro in generale, del lavoro del negativo, del lavoro del lutto, del processo storico come travaglio [qui il riferimento a Hegel è evidente: l’esperienza come via negativa per la redenzione, e la redenzione come rilevamento del peccato, l’esperienza subordinata all’elevazione].
La città di Dio, la fine del libro, dice Derrida, descrive il mondo a venire, il mondo definitivamente riconciliato con il suo liberatore, è anche una lunga descrizione del riposo, dell’eterno riposo in un mondo redento attraverso l’espiazione e la sofferenza di Cristo. Ciò che caratterizzano queste ultime pagine, dice, è l’avvento del non-lavoro, del riposo, in un mondo che diventa ciò che avrebbe dovuto essere, un regno che sarà alla fine senza fine, nel riposo dello shabbat – una fine della storia. Del resto, aggiunge Derrida, la grazia [e qui ritorna al tema del perdono, del perdono dei peccati, del crollo dell’Unione sovietica, della fine del comunismo reale e del perdono dei suoi peccati, della grazia per i suoi colpevoli], nel senso più generale del termine, è il contrario del lavoro, della fatica: un movimento gratuito è un movimento che esclude ogni segno di lavoro, ogni tensione laboriosa, ogni pena, ogni pesantezza, ogni utilizzo di una forza-lavoro: la gratuità è data dall’assoluta leggerezza, non pesa e non fa penare. Agostino, del resto, come fa il discorso moderno che oppone il sapere, la scienza (e per iperbole il sapere assoluto) al lavoro (è la scienza, la tecno-scienza che ci libera dal lavoro), Agostino, dice Derrida, parla di un sapere santo, dunque di un sapere assoluto che sa ciò che bisogna sapere e sa ignorare e obliare il male.
Questa opposizione tra il lavoro come maledizione, e altre attività che sarebbero esenti dalla maledizione – il dono, l’intimità, la prossimità, la fratellanza, il sapere, l’arte, l’insegnamento, la domesticità, eccetera – in qualche forma si trova anche in Gorz, quando dice che ciò che serve all’uomo, al di là del lavoro venduto e comprato, è la possibilità di realizzarsi con l’attività individuale: il piacere dell’azione, piacere della comunicazione, vita concreta nel senso più largo. La razionalità economica sarebbe incapace di metabolizzare questo orientamento, e per questo dovrebbe astenersi dal tentare una espansione in un campo nel quale non può attecchire (Addio al proletariato, 1980. Si veda su Gorz la critica di G. Mazzetti in Quel pane da spartire).
Questa fine del lavoro, questo riposo sarà una liberazione universale. Insisto su questo aspetto, dice Derrida. La liberazione deve essere gratuità, in grazia di Dio, del Signore. La Servitù, dice Derrida, è dunque quella del soggetto che vuole trovare un rapporto tra la sua opera e il suo merito, e attribuirsi, riappropriarsi dell’origine e del prezzo del suo lavoro, retribuire se stesso – liberarsi attraverso il suo lavoro. La vera liberazione consiste invece nell’attribuire all’altro, alla grazia di Dio, il riposo che così ci guadagniamo, che in verità non ci guadagniamo, ma che ci viene gratuitamente donato dalla sovrabbondanza della misericordia divina. Questa mondializzazione cristiana è per domenica, è la domenica, il giorno del Signore, il divenire-domenicale dello shabbat, il secondo shabbat, il divenire domenica di un mondo riconciliato, dopo l’espiazione, e votato al risposo senza fine, il tema rivoluzionario del grande tramonto, dell’ultimo grande tramonto che inaugura una fine della storia o l’inizio di una nuova storia senza storia, una società senza classi, una liberazione che libererà dal lavoro servile. Sarà una liberazione universale, per ciò deve passare per il non-lavoro, per la domenica, per il settimo giorno che noi siamo, e non che abbiamo, come un qualcosa da lavorare [Essere, e non Avere, come insegnava Fromm]. Insisto su questo, dice Derrida: Settimo giorno che siamo, perché partecipiamo dell’essere di Dio e diventiamo ciò che riceviamo, il settimo giorno, la fine del lavoro: siamo sabbatici, siamo laddove non lavoriamo, non lavoriamo, dunque siamo – uomini di Dio.
È superfluo ricordare questo luogo in Marx, nei Manoscritti del 44, quando parla proprio di questa domenica della vita, di questo tempo, che è il nostro tempo proprio, il più proprio, di quando siamo a casa a far niente: il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, perciò egli nel lavoro è infelice, solo fuori dal lavoro si sente presso di sé, e si sente fuori di sé nel lavoro. È a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria. È un lavoro di sacrificio di se stessi, di mortificazione. Come è superfluo ricordare l’inflazione ideologica che ci intossica quando Elon Musk ci ricorda di non impegnarci, di non faticare, di non studiare, di non lavorare, perché la vita vera è fuori dal lavoro, nel genio, nella spregiudicatezza, persino nella follia, nella domenica della vita – e mai nel lavoro; o quando i cantanti ci ricordano, ogni santo giorno, che il loro non è un lavoro, quando gli scrittori ci ricordano che il loro non è un lavoro, quando anche i maestri ci ricordano che il loro non è un lavoro, ma una professione, una vocazione, una missione, una follia – e mai un lavoro; quando, insieme a tutto ciò, ci presentano il lato negativo, ci ricordano il paradigma cristiano del lavoro come sofferenza, del lavoro e del peccano, della vita lavorativa come punizione, travaglio, peccato e peccaminosità, tradimento, lussuria per avere desiderato il frutto e l’albero proibito, eccetera. C’è una certa spudoratezza che fa dire pure a un giornalista che il suo non è un lavoro, che lui, per quanto lo riguarda, siccome non lavora, non si sente di andare in pensione, che muore sul campo, o vive di vita eterna, che il giornalismo ti eterna – eschaton, apocalisse.
Diventiamo ciò che eravamo. Venuti da Dio torneremo a Dio. La vita è una penitenza, l’esperienza è il venire alla luce di ciò che di universale c’è in noi, il venire alla fine di questa universalità – il superamento del lavoro, il superamento del corpo – tanto necessario per il tragitto, quanto inutile per la parusia.
Rileggete l’Apocalisse di Giovanni, dice Derrida, vi troverete tutti questi temi: la morte non ci sarà più. Né lutto, né lamento, né dolore, non ci saranno più, perché le cose di prima sono passate. A colui che ha sete darò gratis l’acqua della fonte di vita (XXI, 4-6). Tutto ciò, nell’Apocalisse, dice già la rottura dell’economia del lavoro, la fine del mercato, il compimento di quello che Rifkin, in definitiva (dice Derrida), chiama la Post-Market-Era. Un’era, dice Rifkin, in cui l’impiego sotto la forma massiva attuale sarà scomparso, quando l’unico settore emergente sarà quello della conoscenza: una piccola élite di innovatori industriali dalle qualificazioni diverse, di insegnanti e di consulenti.
Rifkin, dice Derrida (Conferenza), ha viva la coscienza della tragedia che potrebbe essere innescata da una “fine del lavoro” che non avrebbe il senso sabbatico o domenicale che ha nella Città di Dio agostiniana. Ma nelle sue conclusioni morali e politiche, quando vuole definire le responsabilità da prendere davanti alle nuvole di tempesta tecnologica che si stanno affacciando all’orizzonte, davanti a una nuova era di mondializzazione e automazione, ritrova, e credo che questo non sia né casuale né accettabile senza un’analisi (dice Derrida), ritrova il linguaggio cristiano della fraternità, delle qualità difficilmente automatizzabili, delle virtù inaccessibili alle macchine, del nuovo senso della vita, della resurrezione del terzo settore, della rinascita dallo spirito umano; intravede anche nuove forme di carità, per esempio il pagamento di un Salario virtuale ai benevoli, la tassazione sul valore aggiunto per i beni e i servizi ad alta tecnologia (da utilizzare esclusivamente per garantire un salario sociale ai poveri che lavorano nel terzo settore) ecc.
Se il tempo, dice Derrida, se il tempo non fosse contato. Avrei insistito ancora, ispirandomi ampiamente ai lavori di Jacques Le Goff, sul tempo del lavoro. Le Goff mostra come, nel XIV secolo, coesistessero già le rivendicazioni per l’estensione e le rivendicazioni per la riduzione della durata del lavoro. Troviamo qui le premesse di un Diritto del lavoro e di un Diritto al lavoro, che saranno iscritti più tardi nei diritto dell’uomo.
La figura dell’Umanista, dice Derrida, è anche una risposta alla questione del lavoro. L’umanista risponde alla questione che gli è posta a proposito del lavoro. Si pone come umanista nell’esercizio responsabile di questa risposta. È qualcuno che, nella teologia del lavoro che domina quell’epoca e che oggi non è sicuramente morta, comincia a laicizzare il tempo del lavoro e l’impiego del tempo monastico. Il tempo non è più semplicemente un dono di Dio, ma può essere calcolato e venduto. Nell’iconografia del XIV secolo, l’orologio rappresenta qualche volta l’attributo dell’umanista – quest’orologio che sono costretto a controllare e che controlla severamente il lavoratore laico che io sono qui.
Mi sarebbe piaciuto parlarvi per ore dell’ora, dice Derrida, di questa unità contabile puramente finzionale, di questo “come se” che regola, ordina, conta e fa il tempo (la finzione è ciò che figura ma anche ciò che fa). L’ora resta il contatore del tempo di lavoro.