Alla fin degli anni Ottanta, Honecker sulla Traband guidò il corteo funebre della Classe Lavoratrice mondiale. Per i più avveduti, come il Partito Comunista Italiano, cominciò la Stagione dei Diritti. Anche il sindacato, con Trentin, inaugurò la sua Stagione dei diritti. Dai diritti di Cittadinanza – così vennero chiamati – si passò, per logica conseguenza, al Reddito di Cittadinanza.
Un ciclo iniziato con il discorso di Nixon del 1971 si chiuse nella caciara generale: tra orfani del PCI e orfani del Socialismo reale, si faceva a gara a chi la sparasse più grossa.
Il grande sacerdote che battezzò la stagione dei Diritti fu l’ordo-liberale Ser Ralf Dahrendorf. Non deve assolutamente stupire scoprire che molta della fuffa che è stata venduta negli ultimi 15 anni in Italia e nel mondo dalla nuova destra, anche il precetto che questi temi trascendono la politica e dunque la destra e la sinistra, si trovino in Dahrendorf, e vengano direttamente dagli anni Ottanta.
I più rimuovono questo ricordo, anche se esso riaffiora nel desiderio di ritorno a un’infanzia felice, quando lo Stato, nei panni di Fanfani o di Stalin, dispensava serenità e benessere.
Nel 1971 la festa finì. La crescita dell’economia non garantiva più l’assorbimento delle forze attive. Nei paesi dell’OCSE, a fronte di una crescita del 3-4%, si registrava una disoccupazione del 10% e oltre. Il legame tra economia e benessere si era rotto. Riemergeva una nuova povertà – la povertà in mezzo all’abbondanza. La società borghese – questo è il grande tema di Dahrendorf -, con la sua divisione sociale del lavoro, ci aveva trasformati tutti in lavoratori, ognuno dipendente dal lavoro per vivere e per studiare, e persino per divertirsi. Tutte le forme di espressione sociale erano permeate dalla società del lavoro. Ma, nel 1971, il lavoro, ovvero la possibilità di partecipare alla vita attiva, era negato, e lo era in maniera definitiva. Non c’era possibilità di rimediare all’esclusione mediante il lavoro. Nemmeno lo sviluppo economico, una maggiore formazione, gli investimenti, la spesa pubblica, eccetera, potevano far rientrare quel 10% di esclusi. Il divorzio tra lavoro e reddito si era consumato. Bisognava trovare un’altra base per far rientrare questa gente. E la base non era più la classe. I disoccupati non erano una classe. Non solo per il fatto che erano sempre stati in concorrenza tra loro per accaparrarsi quel poco di lavoro che restava, ma per le ragioni che dicevo prima, perché il lavoro non era più la base comune.
Le politiche assistenziali del Welfare State avevano spostato la base di riferimento dal Lavoro allo Stato. Di fronte allo Stato le persone erano soggetti di diritto – innanzitutto persone singole, cani sciolti, una Moltitudine dice Dahrendorf.
La moltitudine non è una classe, non è capace di una rivoluzione, è piuttosto una costellazione di rivoltosi, di tifosi della rivolta. «I disoccupati – dice Dahrendorf, uso le virgolette, perché sembrano parole di Negri o di Tronti – non sono una classe. Nella società del lavoro gli uomini emarginati sono indotti a cercare piuttosto in se stessi la responsabilità della propria condizione. Non costituiscono una nuova classe solidale, ma una moltitudine di individui. Proprio per questo sono un Lumpenproletariat, e quindi una categoria sociale che in quanto tale non diventa nucleo di azioni durature (rivoluzioni), ma se mai esercito di riserva di manifestazioni occasionali (rivolte). Ma insieme, la nuova disoccupazione è anche più seria della lotta di classe. Lo si vede già in alcune manifestazioni occasionali. Le difficilmente controllabili irruzioni della violenza, da quelle di Brixton a quelle dello stadio di Heysel fino alle ripetute eruzioni di Francoforte, hanno un po’ a che fare con una categoria di esclusi.» (Per un nuovo liberalismo, 1985).
II
A questi esclusi, ai quali non si può più dare un reddito perché non si può più dare un lavoro, bisogna dare dei diritti. Bisogna includerli stipulando un nuovo patto, un patto che riconosca il loro diritto di vivere, di esistere, di spendere. Questo riconoscimento non può più passare per una politica assistenziale. Il difetto della politica assistenziale è quello di indirizzarsi alla persona singola, al bisognoso, trasferendogli ciò di cui ha bisogno. È un metodo sbagliato, difettoso. Che ha dato vita a ingiustizie, corruzioni, ladrocini, nepotismo, clientele, spreco, fancazzismo, eccetera. Qui si possono sommare tutte le lamentele contro lo Stato assistenziale, e compilare nuovi cahiers de doléances, ma il tema è logico-giuridico. L’assistenza ha il tratto empirico della mano tesa, o del pugno duro. Una mano che non può stringere tutto, non può toccare con un dito il cielo e con un altro la Terra. È destinata all’ingiustizia – di diritto. Esclude, mentre include. Lo Stato Assistenziale è la mano tesa che lega il particolare al particolare.
Bisogna recuperare il senso dello Stato di Diritto. Lo Stato, dice Dahrendorf, è prima di tutto uno stato di diritto. Lo Stato borghese nasce come stato di diritto – la Civil society è una società di diritto. I Diritti Civili – i diritti borghesi -, dice Dahrendorf – designano la fondamentale uguaglianza dello status di tutti gli uomini nelle moderne società. I Borghesi sono coloro che vivono all’interno delle Mura e quindi sono indipendenti dei vincoli feudali, che sono vincoli personali, da particolare a particolare, da persona a persona, da padre a figlio, da feudatario a servo della gleba. I Borghesi del XVI secolo, i cittadini che si distinguono dalla campagna e trovano nelle mura delle città e dei borghi lo spazio per esprimersi come mercanti, artigiani e artisti, furono i precursori dei cittadini di Stato. Anche il Citizen o Citoyen è prima di tutto l’abitante della città. Il Citizen, dice Dahrendorf, è uguale agli altri in quanto insieme possono concludere liberi contratti. Essi sono uguali davanti alla legge. Spingendo l’estraneo oltre le mura, con la sua forza, che è una forza soprattutto economica, il Borghese – il mercante – impone una nuova alleanza, un nuovo contratto che veste un nuovo soggetto giuridico, il cittadino, il Citoyen.
Questa partizione Dahrendorf la ricava da Marx (Il conflitto sociale nella modernità, 1987). La Teoria di Marx, dice, ha due parti, una socio-politica, l’altra socio-economica. Le due parti continuano a essere una chiave per capire il conflitto sociale moderno, anche se il modo in cui Marx le ha legate solleva seri dubbi. Si tratta del conflitto tra forze produttive e rapporti di produzione. Secondo Marx, a un certo punto del loro sviluppo, le forze produttive entrano in conflitto con i rapporti di produzione. Le forme giuridiche cominciano a stare strette alle forze produttive, le quali spingono per una loro trasformazione radicale, per una rivoluzione.
Questi elementi di una teoria del cambiamento attraverso la rivoluzione, dice Dahrendorf, hanno a che fare con i burghers, o borghesi, e con i citoyens, o cittadini. I primi, dice, sono i propugnatori della crescita economica, e i secondi i sostenitori dell’uguaglianza sociale.
Nel XVIII secolo il conflitto tra la nuova società che stava prendendo piede nella città e l’Ancien Régime asserragliato nelle campagne sfociò in una rivoluzione che cambiò il destino dell’Occidente. Per utilizzare le nuove possibilità offerte dalla tecnologia e dalla divisione del lavoro, i primi imprenditori, dice Dahrendorf, avevano bisogno di una forma di lavoro diversa dai tradizionali modelli di schiavitù. Avevano bisogno di un lavoro salariato, e questo comportava contratti fra controparti presunte uguali sul piano formale. Questo, dice, presupponeva diritti civili elementari per tutti. Così, dice, gli interessi economici e quelli politici della prima borghesia convergevano nella richiesta di un grande rinnovamento, la cittadinanza.
I benefici producibili dall’economia potevano esser prodotti e appropriati solo entro un quadro formale rinnovato. Senza questa forma, che corrisponde ai primi diritti di cittadinanza inaugurati dalla rivoluzione francese, la rivoluzione economica, ovvero la rivoluzione industriale, non avrebbe potuto esprimere la sua potenzialità. Le due rivoluzioni hanno dovuto marciare insieme.
A questi primi diritti ne seguirono poi altri. Il diritto di voto e la possibilità di partecipazione in genere divennero parte costitutiva della cittadinanza. Alla fine si aggiunsero taluni Diritti Sociali, quelli che hanno trovato attuazione nello Stato Sociale o Welfare State.
Lo Stato di Diritto ha questo di caratteristico. Da una parte, dalla parte dello Stato, si erge l’universale – la legge; mentre dall’altra parta, dalla parte del popolo, si presenta il particolare, il particolare spogliato, l’uomo singolo, l’uomo nudo, il rivoltoso, il ribelle, il tifoso – il Cittadino.
III
Il Diritto deve essere universale. I disoccupati possono rientrare nei ranghi solo attraverso il diritto, e questo Diritto non può più essere il Diritto al lavoro (il Pieno impiego), come era stato per lo Stato Assistenziale keynesiano. E non può esserlo perché il lavoro non ha più quella centralità che aveva prima del 1971.
La disoccupazione che segue al discorso di Nixon è diversa. C’è motivo, dice Dahrendorf, per parlare di una nuova disoccupazione. Sotto un aspetto decisivo, dice, il fenomeno di fronte al quale ci troviamo oggi non è semplicemente una ripetizione della grande crisi economica degli anni 30. La forza lavoro dei disoccupati di oggi è diventata superflua. Noi non abbiamo bisogno dei disoccupati per produrre la crescita economica conseguibile in un arco di tempo prevedibile. Non è una disoccupazione che deriva dalla scarsità, come vanno blaterando i vecchi baffoni liberali alla Einaudi. Non si tratta di risparmiare risorse da destinare agli investimenti. Bisogna riconoscere, da liberali moderni, da social-liberali, che, dopo il 1971, siamo in presenza di una povertà e di una disoccupazione in mezzo all’abbondanza. Non c’è scarsità di capitali. I capitali ci sono. Sono persino sovrabbondanti, rispetto alle possibilità di valorizzazione, e infatti migrano nel sud-est asiatico, dove la borghesia è indietro e dunque sono ancora aperte possibilità di sfruttamento. Si tratta di una disoccupazione in situazione di abbondanza. La civiltà del lavoro, perlomeno nei paesi OCSE, è finita.
Cos’era questa civiltà del lavoro, questo mondo che non si vuole abbandonare e al quale ci si lega mani e piedi, anche quando è evidente che esso non offre più possibilità di riscatto?
Il lavoro – nella Civiltà del lavoro – dice Dahrendorf, ha determinato fra l’altro la pianificazione del tempo all’interno della giornata, della settimana, dell’anno, della vita, incluso appunto anche quel tempo che non viene trascorso sul posto di lavoro, e cioè il tempo dell’istruzione, il tempo libero, il tempo della passione. Nella civiltà del lavoro, dice, tutte le dimensioni della vita sono più o meno direttamente in relazione con l’attività retribuita: l’istruzione è preparazione alla professione, il tempo libero è ristoro per un nuovo lavoro, la pensione è il ben meritato compenso per una vita di lavoro salariato.
Che cosa fanno gli uomini del loro tempo, quando il lavoro non fornisce più questa intelaiatura?, chiede Dahrendorf. Ci saranno sempre più eterni studenti? Una sovrabbondante inondazione dei mass media che solleticherà ancora di più l’esistenza passiva di molti uomini? Il programma televisivo stabilirà la nuova intelaiatura della giornata, della settimana, dell’anno? Diventerà regola lo stato di dormiveglia di un’esistenza da pensionato? Oppure si scenderà per strada con una mazza, come tifosi in rivolta?
Si esita a impiegare il termine di lumpenproletariat per la sottoclasse dei poveri disoccupati – dice Dahrendorf: «Questa putrefazione passiva degli intimi strati della società» (è Marx, che Dahrendorf conosce bene e cita a ogni pagina – Dahrendorf è stato allievo di Horkheimer all’istituto di Francoforte).
Diversi elementi, dice, fanno pensare che la sottoclasse rappresenti piuttosto una riserva per occasionali esplosioni, legate a situazioni del momento. Qua e là talvolta occupano gli stadi; dettano le regole in qualche quartiere all’interno delle città, che la Polizia ha imparato a evitare; rubano nei supermercati, devastano qualche macchina di lusso, si drogano, bevono; senza impiego e senza più legge, sono una moltitudine disoccupata di perdigiorno che si annoiano, si suicidano – è l’anomia, dice Dahrendorf.
Queste persone non sono più cittadini e non sono neanche borghesi. Sono usciti fuori della scena della lotta di classe così come l’aveva definita Marx.
IV
Bisogna trovare un modo per far rientrare nei ranghi questa marmaglia che sopravvive Underground. I Disoccupati devono diventare cittadini, altrimenti accadrà e si ripeterà quello che è successo a New York tra 13 e il 14 luglio del 1977, quando un BlackOut diede il via a saccheggi e distruzioni, distruzioni che la rivista italiana alternativa Il Magazzino ha così raccontato:
«Quando il buio cadde ad Harlem, la gente si trovava già per strada. Si accesero falò per le strade e una fiaccolata scese giù per Broadway. Nel giro di pochi minuti la notte fu illuminata dagli incendi, le strade furono invase da saccheggiatori che spaccavano le vetrine e portavano via di tutto. “Dal momento che le luci sono spente e i nigger si stanno arrabbiando”, si vantava un ragazzo nero, “abbiamo intenzione di prendere ciò che vogliamo: e vogliamo ciò di cui abbiamo bisogno”, e anche di più.
Nel giro di pochi minuti dal blackout esplose un gigantesco e spontaneo esproprio di massa in ameno 16 aree della città. Senza collegamento fra loro, ma con un comportamento omogeneo e determinato, squadre ben organizzate di giovani e giovanissimi abbatterono saracinesche e vetrine di grandi magazzini e supermercati, esponendoli a un saccheggio (looting) generale a Est e Cental Harlem, South Bronx, Bushwick, Bedford-Stuyvesant, Brooklyn, Jamaica queens, residenze di neri, portoricani, immigrati legali e illegali dell’America centrale, ispanoamericani.
“Stanno passando per Bushwick come dei bufali” – riferisce una donna alla polizia.
“C’è gente di tutte le età, di tutte le classi sociali, non abbiamo visto mai nulla di simile”, riferisce un agente.
«Le cler delle vetrine vennero scardinate con piedi di porco, abbattute con automobili e strappata con la forza bruta. Prima ragazzini, poi giovani e adulti svaligiarono negozi e grandi magazzini di abiti, elettrodomestici, mobili, apparecchi televisivi, generi alimentari; […] Nella zona di Flatbsuh un saccheggiatore venne preso mentre cercava di cambiare un televisore in bianco e nero con uno a colori. Altri in Harlem organizzarono una vendita in un negozio abbandonato, rivendendo il loro bottino con offerte che andavano dai 5 dollari per un paio di scarpe ai 135 per un televisore a colori mobile.
«Per prima cosa andavano in cerca di vestiti, apparecchi TV, gioielli, liquori; quando ciò venne spazzato via presero generi alimentari, mobili e medicinali. Franck Ross, un poliziotto nero, ha detto “è come se una febbre li avesse colpiti, sono fuori con camion, furgoni, roulotte, qualsiasi cosa in grado di camminare”. I saccheggiatori hanno considerato ogni cosa trasportabile come un bottino desiderabile. La polizia ha preso un uomo in Bedford-Stuyvesant con 300 tappi di lavandino e un altro con una cassetta di mollette da bucato. Due ragazzi vennero fermati mentre portavano via un tavolino da salotto. “Dove avete preso questa roba?” urlò un poliziotto: “Me l’ha dato mia madre; puoi tenerlo” disse uno dei due mentre lasciavano cadere il bottino e si tuffavano dentro una folla che stava guardando un negozio di mobili in preda alle fiamme.
«Nel Bronx, in un salone della Pontiac, i saccheggiatori abbatterono il portone d’acciaio e portarono via 50 auto nuove valutate 250 mila dollari. Dei giovani giravano lungo la 14esima strada strappando borsette alle donne. Adulti portavano borse della spesa zeppe di bistecche e carne d’arrosto prese in una macelleria sulla 125esima di Harlem. In un negozio di Harlem due ragazzi di circa 10 anni barcollavano sotto il peso di un televisore, mente una donna camminava con 3 radio.
“È la notte degli animali”, ha detto il sergente Murphy, “riesci ad afferrarne 5 e 100 prendono il loro posto”.
«Per la gran maggioranza era una festa. La notte di Natale, o di Capodanno, a luglio. Entravano in negozi di tutti i tipi, uscivano carichi, c’era chi se ne tornava a casa con le cose più improbabili, come statue di santi e stole di prete. Questa è una città che è impazzita.»
Questi esclusi dalla Società del lavoro avevano già fatto la loro comparsa sulle pagine di Lotta continua. La base di riferimento per Sofri e compagni non erano più la fabbrica e il lavoro di fabbrica, il sindacato e il bonzo sindacale (come ebbe a definirlo Adorno, sbagliando i tempi del tackle), la base era costituita dalla marmaglia putrefatta e passiva che rifiutava gli sfratti o i pignoramenti, rifiutava il lavoro, si allenava per l’autodifesa contro la polizia; era la cosiddetta criminalità giovanile, la cui violenza politica trovava sfogo negli stadi o nei concerti, scatenando una violenza che non poteva essere rappresentata. Il non-lavoro non si rappresenta. Nessuna rappresentanza per la rivolta, nessun diritto, niente ordine, niente legge. Non c’è avanguardia che tenga, non ci sono intellettuali e maître à penser che possano conoscere meglio di chi la vive la situazione di chi scende in piazza e si ribella e spacca una vetrina o una testa, a seconda.
La rivista Magazzino, che volle rappresentare la caduta di ogni valore (di scambio) e la fine della storia del lavoro produttivo e dunque la fine dell’operaio massa, eccetera; che volle rappresentare il folle Carnevale Newyorchese durato 25 ore, dalla notte del 13 luglio alla notte del 14 luglio 1977; che volle rappresentare la comparsa sulla scena mondiale dell’Operaio Sociale, non riuscì (la rivista Magazzino) ad arrivare al terzo numero, poiché l’intera redazione finì in carcera con l’accusa, appunto, di aver teorizzato ciò che a New York era effettivamente capitato. E lo aveva teorizzato in questo modo.
Nel Welfare anni 60 si riceveva un salario diretto che remunerava il lavoro cosiddetto produttivo e un salario indiretto che pagava il tempo di non lavoro (il sussidio di disoccupazione, di malattia, l’assegno sociale, etc).
Il tempo di non lavoro (tempo improduttivo) era un frutto diretto della dialettica tra capitale e lavoro (lavoro produttivo). Più il lavoro chiedeva e resisteva, più aumentava la massa del lavoro morto, e più diminuiva la massa del lavoro vivo, e più aumentava la disoccupazione, e più c’era bisogno di sussidi.
Questa dialettica presto toccò un punto di rottura. Non si poteva cancellare il lavoro vivo dal processo, in quanto ciò avrebbe comportato (e comportò, crisi del 29) la svalorizzazione dell’intero processo.
Tutto ciò – il salario indiretto – ebbe delle pesanti ripercussione sul volume dei profitti.
Nel 1971, per bloccare l’aspetto degenere del salario indiretto (assenteismo, rifiuto del lavoro, sabotaggio, ecc.), Nixon s’inventò il WorkFare (legò il salario indiretto a una prestazione lavorativa, così da mettere gli uni contro gli altri i percettori di sussidi e i lavoratori cosiddetti produttivi).
Questa manovra, che estremizzò la composizione organica del capitale, accentuò il tratto di svalorizzazione già in atto e per qualche tempo contenuto dal welfare.
Fu un tentativo, quello di Nixon, di afferrare per i capelli un mondo, quello del lavoro salariato, che stava scivolando nel baratro.
V
Negli anni Settanta, dice Dahrendorf, il lavoro salariato, di cui c’era sempre stata abbondanza, diventò un bene scarso. E più diventava scarso più la lotta per la conquista di un posto si faceva dura, e più quelli che erano dentro il sistema scalciavano e si stringevano per tenere sulla soglia chi era rimasto fuori. Il posto stesso, uno qualsiasi, il posto fisso in genere, diventò una garanzia di identità sociale. Proprio quando il lavoro era agli sgoccioli, e suonava l’ultima sirena, tanto più forte si faceva il legame con esso. Nessuno sapeva quando sarebbe finita, ma tutti sapevano che prima o poi sarebbe successo. E quando sarebbe finita, sarebbe arrivata l’anomia, la fine, il suicidio, perché con il mondo del lavoro sarebbe sparito il mondo del dopo-lavoro. Sarebbero spariti lo sport e l’acquagym, sarebbero sparite le ferie e i viaggi organizzati, i balli del sabato sera e le cene della domenica pomeriggio. Sarebbero spariti i weekend e tutti i filmini americani che ne celebravano i fasti e che duravano 30 minuti, 60 con la pubblicità; sarebbero sparite le canzoni dell’estate, la musica leggera e la musica rock; sarebbero spariti i cantanti, i disco pub, le balere, le discoteche, i lidi e le lunghe autostrade che portavano al mare; sarebbero spariti gli aeroporti e l’inglese d’aeroporto, i vestiti casual, l’auto-abbronzante, le vitamine, l’igiene intima, il cane migliore amico dell’uomo, l’orologio sul polsino, il Gin Tonic, la Spider, la Polo, il Makeup over 50, i vestiti da cocktail, i viaggi studio e il liceo di massa, l’istruzione obbligatoria, le università popolari e le università d’élite, i giornalisti che rispecchiavano negli elzeviri tutta sta vita vissuta fino all’ultimo respiro.
Non è facile avere cifre precise – scrive Dahrendorf; ma non si va molto lontani dal vero dicendo che, a partire dalla prima guerra mondiale, nelle società che noi oggi qualifichiamo come paesi avanzati – dell’ocse -, la vita di lavoro è stata, in media, dimezzata. Il numero di ore che un occupato dedica oggi al lavoro nel corso della sua vita e appena di poco superiore alla metà – se non ancora meno – di quello dedicato dai suoi nonni. Se consideriamo i bambini e teniamo conto che la valutazione da noi proposta di quelli che si trovano in periodo di formazione o in pensione approssimata per difetto non certo per eccesso, dice, dobbiamo concludere che oggi parecchio meno del 50% della popolazione dei paesi avanzati dell’Europa, del nord America e dell’Oceania è effettivamente candidato alla società del lavoro. Se ci fossero ancora giornate lavorative di 12 ore settimanali e di di 7 giorni, come accadeva fino a non moltissimo tempo fa, il lavoro di un anno, dice, potrebbe essere concentrato fra Capodanno e Pasqua lasciando libero tutto il resto dell’anno.
Ha quindi un senso dire che non viviamo più in una società del lavoro.
Oggi è possibile una crescita economica notevole senza che venga toccato l’alto livello di disoccupazione. Evidentemente non abbiamo bisogno della forza lavoro dei non-occupati per far crescere anno dopo anno del due, tre, quattro per cento la produzione di beni e la disponibilità di servizi. La stagflazione ha fatto seguito a quello che si deve chiamare jobless growth o anche boom unemployment, e cioè crescita senza occupazione, disoccupazione di espansione.
Il lavoro sparisce e bisogna sostituirlo con qualcos’altro. Questo altro non può essere l’assistenza, l’aiuto alle persone in stato di bisogno. Non è dignitoso tendere la mano verso chi soffre. Aggiunge sofferenza al sofferente. La misura deve essere anonima. Solo la legge, che è cieca, può dare una misura giusta, all’altezza della dignità umana. Una misura particolare, una misura diretta alla persona, è una misura indegna, patriarcale, da Stato assistenziale. La misura adatta in questo caso è il Reddito di Cittadinanza – il Reddito Minimo Garantito (per legge).
L’inclusione deve trovare riconoscimento come componente fondamentale dei diritti civili, poiché il suo senso sta nel fatto che segna una postazione di uscita, oltre la quale nessuno deve poter cadere.
Non è essenziale che tale somma superi il livello attuale dell’assistenza sociale, dice Dahrendorf. Quello che è decisivo è solo la sua inattaccabilità fondamentale, cioè il suo carattere individuale.
Il Reddito minimo, come principio, discende dall’intendimento di eliminare per tutti la possibilità di essere messi fuori confine, grazie a un nuovo rafforzamento del principio dei diritti civili. Il reddito garantito, dice, non mira dunque ad assicurare una vita decorosa.
Si tratta di un punto dirimente. La misura deve essere universale, giusta, uguale e universale – si tratta di sinonimi, Giusto, Uguale e Universale esprimono il Genere, la Generalità. La Classe viene avocata dallo Stato, rimane in testa allo Stato politico. Il popolo può essere ora rappresentato come composto da cittadini. Per mezzo dello Stato politico i cittadini possono tornare a parlarsi, uscire dall’anomia, dal suicidio sociale. Tra di loro sono singolarità mute, sono come quegli oggetti d’uso – pesci – che sulle bancarelle del mercato e senza il cartellino del prezzo in faccia, splendono delle loro diverse qualità mute, e parlano tra di loro non appena sulle loro teste viene appiccicato il cartellino del prezzo, il listino dei prezzi. Tutti ora traducono la propria insondabile differenza nella quantità generica, il prezzo.
Il punto è questo: la differenza tra burghers, o borghesi, e citoyens, o cittadini, si risolve nel Diritto di cittadinanza. Il borghese, che qui figura come agente delle forze produttive sociali, deve essere compreso entro la cornice di un nuovo contratto sociale, di nuovi rapporti, dove la produzione rimane sullo sfondo. Nella contrapposizione tre le due città, la città dei burghers (Londra) e la città dei citoyens (Parigi), o la città dell’uomo e la Civitate Dei, a dettare le condizioni è la seconda.
Potrei dire che lo Stato di Cittadinanza, in quanto Stato di Diritto, è un Feticcio. Più oltre farò due considerazioni su questo Feticcio. Qui potrei dire, citando Marx alla lettera, il giovane Marx della Critica della filosofia del diritto di Hegel, perché le sue considerazioni sono più che appropriate, che l’uomo non vaga fuori dal mondo. Se crea la religione, e un mondo ultraterreno dotato di un potere che gli ordina ciò che deve fare e come deve comportarsi, è perché ne sente il bisogno. La religione è la Teoria Generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne completamento, il fondamento generale della sua consolazione e giustificazione – la sua base logica. Essa è la realizzazione dell’essere umano, perché l’essere umano non possiede una vera realtà. La vera res è la realtà necessaria – è la Res publica, la realtà legale. La miseria religiosa è l’espressione della miseria effettiva, la miseria di un mondo che ha bisogno di farsi dire da un Feticcio (lo Stato) cosa deve fare, come deve comportarsi, cosa gli spetta, ciò a cui ha diritto, il suo diritto; è anche la protesta contro questa miseria, il gemito della creatura oppressa, l’animo di un mondo senza cuore, la disperazione – l’anomia? – di un agente che non sa più agire. Esso è – questo Feticcio – l’oppio dei popoli. È la comunità nella divisone sociale (del lavoro). È il vitello d’oro, il nuovo mezzo di scambio, il nuovo scintillante denaro. È ciò che fa diventare vera la comunità nella divisione (del lavoro), quando il lavoro è marginalizzato.
Tutto Ok. Senonché, la cosa che Dahrendorf non vede e non vuol vedere, è che lo Stato, quale surrogato del denaro – la signoria dello Stato sul Denaro – è un’esperienza già fatta prima del 1971. La signoria dello Stato sul denaro – lo Stato che distribuisce denaro violando tutti i principi contabili – ha portato a quello stato di marginalizzazione del lavoro dal quale si vuole uscire invocando di nuovo un intervento (monetario) dello Stato.