L’orologio di Freud

finito infinito

In base a un rapporto dell’Agenzia Italiana del Farmaco, del luglio 2015, si apprende che il disagio mentale è in aumento in tutti i paesi ad alto reddito. Il Report riprende un articolo dell’Economist dello stesso anno, dal titolo «Mental illness. The age of unreason» nel quale si affermava che, in riferimento alle stime di quel periodo, tra il 2011 e il 2030 il costo delle malattie mentali in tutto il mondo avrebbe raggiunto l’ammontare di oltre 16 trilioni di dollari in termini di mancata produzione (sic!) – la previsione prende come base il valore del dollaro nel 2010. Un costo più elevato rispetto a quello delle patologie oncologiche, cardiovascolari, respiratorie croniche e del diabete. (1)
Penso che non ci sia bisogno di rimarcare che la crisi pandemica del Covid-19, che abbiamo vissuto e che sembra ormai un lontano ricordo, abbia dato man forte alla tesi del Report dell’AIFA.
Dai tempi di Freud ad oggi molti aspetti della vita quotidiana sono cambiati, in relazione al disagio psichico: il gap tra medici psichiatrici e psicoterapeuti si è attenuato, molto spesso lavorano in team e collaborano alla risoluzione dei problemi, sebbene rimanga la linea di demarcazione e di azione.
Forse, l’aspetto più terrificante della malattia mentale era connesso con la paura che essa esercitava, nel recente passato, sui singoli e sulla collettività, in quanto si finiva per essere internati nei manicomi. Ancora negli anni Ottanta, in seguito all’entrata in vigore della legge Basaglia, nei piccoli centri abitati, la sola notizia che una persona fosse affetta da un problema mentale, era sufficiente a creare scompiglio e sgomento nell’intera comunità. Per certi versi, la paura del contagio era più forte del tifo, della lebbra o della stessa peste, poiché scattava il meccanismo di difesa e quindi il relativo isolamento del soggetto con disturbo psichico. Alda Merini, qualche decennio precedente, è finita in manicomio, per un disturbo bipolare, ma vi finivano anche tanti bambini con gravi forme di autismo. La scuola psicoanalitica, nonostante Freud e tutti i suoi collaboratori, non aveva una grande influenza, anzi era messa a dura prova.
Nella maggioranza dei casi, sulla base di una legge, erano gli stessi familiari a mettere in gabbia i parenti che soffrivano di un determinato disturbo psichico, gettando via le chiavi, in un secondo momento.
Il mio tentativo, in quest’articolo, è quello di mettere in primo piano la portata rivoluzionaria della terapia psicoanalitica, ripercorrendo la mappa del viaggio tracciata da Fachinelli, con il suo bel libro Claustrofilia, pubblicato nel 1983.
In un primo momento, Freud – asserisce Fachinelli – fu spiazzato dalla questione del tempo nel trattamento psicoanalitico, infatti era convinto che avesse a che fare con una malattia rapida e violenta come la peste, mentre poi si trovò di fronte a una malattia lenta, lentissima, come la lebbra.
Egli si vide costretto ad affrontare il problema della durata crescente del trattamento, in uno dei suoi scritti del 1937, all’età di 81 anni, dal titolo Analisi terminabili e interminabili.
Questo testo, come altri e in particolare Al di là del principio di piacere – scrive Fachinelli – genera in chi legge una perdita di sicurezza, o addirittura un disorientamento penoso. Si crea uno stato d’animo là dove le soluzioni non si presentano mai in modo certo. Nel viaggio che s’intraprende, il filo di Arianna non trova il centro del labirinto. Man mano che ci si avvicina al centro, la guarigione sembra allontanarsi, in quanto si è presi da «un lento movimento circolare entro un orizzonte che muta via via». (2)
Non si tratta solo del pensiero incerto ed errante, ma siamo in presenza di una forza ostile e silenziosa che si oppone alla riuscita del procedimento, al termine dell’analisi.
Il problema del doppio legame era noto già a Svevo: il Dottor S non poteva accettare che Zeno Corsini interrompesse la cura unilateralmente e quindi decise di vendicarsi, rendendo pubblico il diario autobiografico segreto del paziente. Del resto poteva accadere (può accadere) che il paziente si trovasse molto bene con l’analista e che quindi non avesse nessuna intenzione d’interrompere il trattamento. In queste ultime circostanze sembrerebbe che le cause dell’impasse siano legate all’affetto intenso che il paziente rivolge al terapista.
Dunque, il pensiero cerca una via d’uscita e trova di fronte la muraglia cinese.
Lo stesso Freud sosteneva che qualora le ferite dei traumi fossero riconoscibili e l’analisi volgesse al termine, il successo della cura sarebbe potuto dipendere anche dall’influenza che esercitava la “buona stella” sul vissuto del paziente.
Questo testo del 1937, come ha acutamente osservato Fachinelli, “ha squarciato la dottrina, l’insegnamento e la pratica”, minando la sicurezza di quei terapisti analitici che riponevano una piena fiducia nel metodo elaborato dal Maestro. Pertanto, di fronte a questa situazione spinosa, era più facile mettere da parte il controverso testo, che alcuni attribuirono alla fase del pensiero pessimistico che viveva Freud in quel periodo, piuttosto che abbandonare le terapie individuali (monadiche) già intraprese.
In realtà il problema dell’allungamento del trattamento è presente in Freud già dal 1913, quando si lascia andare in una dichiarazione, apparentemente personale, nella quale afferma che nei primi anni della sua attività sperimenta enormi difficoltà nell’indurre i pazienti a perseverare nell’analisi, mentre alla vigilia della prima guerra mondiale denota ostacoli crescenti alle sue esortazioni di smettere.
Al di là delle difficoltà interne, dei nessi impliciti e latenti che non sempre possono essere visibili, in breve tutto ciò che ostacola il processo analitico, occorre esaminare – scrive Fachinelli – «il sorprendente congegno costruito da Freud, in primo luogo nella sua caratteristica più eminente: il modo di essere tempo, di vivere e far vivere il tempo; lo stampo di tempo che esso propone». (3)
Il dispositivo messo a punto da Freud, come spiega Fachinelli, rappresenta una macchina del tempo particolare, mediante la quale il tempo definito(finito) della seduta, che l’analista ritaglia nella sua “giornata lavorativa”, un arco temporale crudele nella sua precisione, si congiunge o si confonde al tempo indefinito (infinito) della durata del trattamento.
Non c’è un punto di partenza preciso, l’analista chiede al paziente di comunicare tutto ciò che gli passa nella testa, tutto ciò che cade o che cala nella testa in quel momento, facendo ricorso alle “libere associazioni”.
Non importa cosa cada nella mente, l’importante è che ci sia questa caduta (Einfall). L’approccio al superamento del disagio psichico consente al paziente di aprirsi, di lasciarsi andare e farsi trasportare dal libero fluire della mente, senza seguire una direzione prestabilita. L’analista sonda il terreno a 360 gradi, prima d’individuare le incidenze psichiche significative: dalla successione caotica stimolata dal fluire delle “libere associazioni”, emerge un profilo determinato; di fronte al vuoto di “comunicare tutto”, sorgono le caratteristiche salienti che si legano alla vita del soggetto in analisi e che non vagano o non seguono solamente un ordine casuale. Per Freud le «libere associazioni sono rigorosamente determinate». (4)
L’essere posti in condizioni di «dire tutto» non significa che l’accento dell’analista ricada essenzialmente sulle parole, sul flusso verbale, anzi ad ogni passo il non verbale esercita il suo peso: frena, accelera, rende evidenti i lapsus, gli atti mancati. In qualche modo, quello che inizialmente sembra un ammasso informe di dati, un flusso impetuoso di informazioni finisce per essere imbrigliato, limitato, incanalato. Il fiume scava il suo letto.
Ma in questo processo limitante, ciò che assume maggiore importanza è la variabile temporale.
Entrambe le parti, l’analista e il paziente si sottopongono al vincolo della durata cronometrica, che prende il posto di quella imprevedibile
La segmentazione del tempo in sedute fisse, con una cadenza regolare, funge da limite estraneo al rapporto tra gli interlocutori. Siccome non c’è lo spazio, per “comunicare tutto”, allora in che modo si evolve il processo analitico?
Il flusso del fiume in piena, nonostante il limite forzato delle sedute cronometriche, continua ad essere la spinta del rapporto, accetta le limitazioni del presente per trasferirsi al tempo indefinito.
Il tempo differito, il rinvio al futuro ha la meglio sulle canalizzazioni forzate, prestabilite delle sedute nel presente. Forse, un’espressione di Fachinelli, potrebbe aiutare ad esplicitare il concetto: «Ad uno scacco reale nel presente si sostituisce la vittoria reale nel futuro». (5)
L’autore di Claustrofilia, nelle sue ricerche, ha indagato la questione del tempo in analisi, prestando attenzione alle interconnessioni tra il tempo finito e quello indefinito. Con la sua fune ha esplorato la profondità dell’oceano inconscio dei suoi pazienti, là dove le acque si mescolano, il no si confonde con il sì, le immagini oniriche sono cariche di simboli ambivalenti, che fanno ripercorrere e rivivere ai soggetti viaggi atemporali. La casa-fortezza rappresenta un luogo inquietante dove però una giovane paziente cerca rifugio, si asserraglia, rifiutandosi di uscire, perché è convinta che ci sia qualcosa di inadeguato in se stessa, nel suo aspetto fisico. Immagini primordiali di un sogno la riconducono a ritroso, in uno spazio senza tempo, e in senso opposto lungo la strada della sua nascita. Le scene perinatali richiamano “un soggiorno intra-uterino”, un ritorno nel corpo della madre. Come se il cordone ombelicale fosse ancora integro e di conseguenza evidenziasse il suo rifiuto di accettare la separazione.
Se nel processo analitico la strada del pazienta è tutta in salita, il percorso è lungo e faticoso anche per l’analista. A tal proposito, Fachinelli ha ammesso che nel procedere del suo lavoro ha più volte intuito che era in procinto di fare una scoperta, ma gli sfuggiva continuamente di mano, finché non si rese conto che aveva individuato “un’area claustrofilica”, per delineare la forza e l’intensità della spinta al claustrum, al chiuso.
Con questo termine Fachinelli si riferisce proprio all’atto del chiudersi, non tanto al luogo chiuso, poiché l’etimologia della parola claustrum in latino significa chiave, serratura, catenaccio, ect., solo molto più tardi è passata a significare luogo chiuso.
Nel processo analitico, il tempo, costituito da precise e monotone divisioni interne, diventa il padrone assoluto della situazione, sia per il paziente che per l’analista.
Ci si trova davanti a un tempo indipendente rispetto ai due interlocutori, che incide concretamente nell’organizzazione dei rapporti della loro vita.
Il Grande Orologio che Freud mette a punto è tutt’altro che nuovo: esso ricorda, da un lato, come asserisce Fachinelli, la concezione galileiana-newtoniana di un tempo omogeneo divisibile in segmenti uguali, mentre, dall’altro lato, evoca una determinata connotazione economica sociale, vale a dire la trasformazione dei rapporti di produzione feudali in quelli capitalistici. Sul finire del settecento, con lo sviluppo dell’industria e l’impiego di macchine su larga scala, negli opifici e nelle fabbriche, si affermò l’idea che bisognava eliminare i tempi morti, i vuoti improduttivi, per aumentare la produttività.
Ciò ha comportato l’utilizzo in misura crescente degli orologi meccanici e di altri congegni segnatempo, allo scopo di cronometrare in modo inflessibile il flusso della produzione.
Una volta che la macchina analitica è avviata, il terapeuta deve fare in modo di evitare le interruzioni e i rallentamenti del percorso. L’analista come l’operaio diventa un’appendice della macchina, quindi, per cogliere gli elementi rilevanti, è bene che si trovi nel punto giusto al momento giusto. Tuttavia – osserva Fachinelli – per gran parte del tempo, non c’è bisogno dell’intervento del terapista, la macchina funziona da sola.

L’analista e il paziente si pongono in una situazione d’attesa, sul primo ricade la responsabilità del successo del trattamento, in quanto è lui che conduce. La scoperta dell’area claustrofilica migliora la consapevolezza su quelle forze che agiscono di nascosto e bloccano gli sviluppi dell’analisi, infatti il rifiuto di separarsi dalla madre, che emerge nel sogno della ragazza della casa-fortezza, fa venire in mente a Fachinelli l’unità duale che si costituisce tra gli interlocutori, durante il processo analitico. Al mancato riconoscimento di questo stato, del fattore di sostituzione della figura della madre con l’analista, entrano in gioco nuovi rinvii, nuovi rimandi, un prolungamento del trattamento. Le fantasie primordiali della persona analizzata tengono le redini del gioco o meglio serrano dentro l’analista, in un gioco senza fine, che può interrompersi con il ricorso ad una nuova analisi.
In qualche occasione, può accadere che l’analista vada in crisi e non trovi rimedio neanche con i suggerimenti del suo Maestro: si vede bruciato nel rapporto, si sente sfinito e quindi immobile, in una sorta di seduta interminabile.
Ma il tempo cronometrico scorre inesorabile, nel senso che le ore, i giorni, i mesi e gli anni passano, mentre l’angoscia pervade il rapporto duale, in quanto l’attesa è rivolta al passato, è succube del passato. Nell’attesa di un passato che risorga, «il futuro è visto come una minaccia, poiché implica separazione e sviluppo».(6)
Questa situazione di stallo, che denota l’incapacità d’intervenire sulla durata dell’analisi e che è legata, come ho accennato, al mancato riconoscimento, in primo luogo, da parte dell’analista, della forza agente e bloccante, cioè dell’area claustrofilica nell’interazione in corso, evidenzia le difficoltà di chi si è imbattuto in una barriera opaca.
Del resto, come riporta Fachinelli, in questo suo bel libro, è proprio Freud che rompe gli indugi in questa direzione, quando decide d’interrompere la cura dell’uomo dei lupi, dopo circa 4 anni. Quando Freud apprende che il rifiuto a guarire del suo paziente è connesso con una forma di «auto-inibizione alla cura», allora decide di fissare un termine fisso e irrevocabile alla fine dell’analisi.
Questo tipo di prescrizione perentoria ha un senso in situazioni estreme e poi dovrebbe rendere visibili i vantaggi per la persona analizzata. Nel seguire il flusso analitico, a metodi standard non corrispondono tempi standard della durata, i quali variano in riferimento alle circostanze e alle problematiche che affiorano durante l’interazione. In generale, quando il disagio psichico è tale da non ricorrere a forme predominanti di trattamenti farmacologici, quindi è possibile approcciare i “nervi”, mediante l’ascolto attivo e l’uso delle parole, si può affermare che “i tempi della cura delle anime al tempo delle macchine” variano da persona a persona. A volte, l’analista non riesce a rilevare che l’immobilità del presente o blocco del processo analitico sia collegata all’urgenza angosciosa del paziente di parlare e nello stesso tempo alla sua angoscia d’interrompere il trattamento.
Anche il metodo elaborato da J. Lacan, con le sue «sedute brevi o accorciate» – spiega Fachinelli – potrebbe segnalare il tentativo dell’analista di affrettarsi a concludere il percorso. L’impazienza a terminare è l’altra faccia di un prolungamento dell’analisi, senza limiti.
Il terapeuta dev’essere in grado di dedicare “il tempo necessario” alla comprensione del problema, cercando di coinvolgere il paziente nel processo di guarigione. La punteggiatura dell’analisi scandisce, in qualche modo, la dialettica del rapporto ed individua il tempo da dedicare al comprendere.
In questo procedere avanti e indietro nel tempo, nel fluire ondulato del processo analitico, la valenza dell’analista consiste nell’individuare il cambiamento in corso, nello scorgere il passaggio dal continuo al discontinuo, dal continuo al discreto, come lo definisce Fachinelli. L’abilità del terapeuta, in questo processo, consente di far compiere all’analizzato un “salto” che gli permette di separarsi dal “terreno originario” e di orientarlo nella ri-nascita, con la consapevolezza che non ci sono rose senza spine.

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(1) https://www.aifa.gov.it
(2) E. Fachinelli, Claustrofilia, Adelphi Edizioni, Milano 1983, p. 33.
(3) Ibidem, p. 41.
(4) Ibidem, p. 46.
(5) Ibidem, p. 48.
(6) Ibidem, p. 188.

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