Benjamin Kline Hunnicutt è professore di storia all’Università dell’Iowa. La sua ricerca si è concentrata sulla riduzione dell’orario di lavoro. Molto noto è il suo libro Kellogg’s Six-Hour Day, sulle prospettive e gli effetti della riduzione della settimana lavorativa presso Kellogg’s, la multinazionale delle merendine. Con studiosi come Joseph Pieper e Hannah Arendt ha anche esplorato l’«ascesa del lavoro totale».
In un articolo pubblicato nel 1999 sulla rivista Nord Sud, Hunnicutt si confronta con Giovanni Mazzetti, esponente europeo di primo piano degli studi sulla riduzione dell’orario di lavoro.
Come mai, si chiede Hunnicutt, in Occidente abbiamo abbandonato la riduzione dell’orario? Per quale ragione, dopo aver ridotto la giornata lavorativa della metà nel corso del “secolo della riduzione del tempo di lavoro” e dopo aver immaginato un’età dell’oro, con un tempo libero così ampio da poter perseguire il vero bene della vita – i liberi prodotti della mente, la comunità, lo spirito – per quale ragione, dicevo, ci siamo rivolti verso un tempo pieno di lavoro, perdendo di vista il vecchio principio secondo il quale il lavoro non è che un mezzo per altri fini? Le risposte che mi sono dato si possono riassumere così: consumismo e mercificazione della vita; politica governativa di creazione del lavoro; cambiamento culturale corrispondente all’inversione del rapporto tra lavoro e tempo disponibile.
L’idea di lavoro, dice Hunnicutt, ha invaso e sottomesso tutta l’azione e l’esistenza umana. Tutta la vita moderna ha finito con l’essere dominata dall’ideologia del lavoro. Il lavoro ha finito per essere considerato come connaturato alla condizione umana, come una proprietà naturale. E invece, dice, il lavoro deve essere considerato come storico e relativo. Non è manifestazione di una condizione umana naturale. È piuttosto una delle invenzioni culturali più nuove – il prodotto occidentale di un passato recente. Il lavoro è un’invenzione dell’uomo, è storico, e poiché ha una data di nascita avrà anche una data di morte.
L’aspirazione a un lavoro a tempo pieno e a un “buon lavoro” fa parte di un’ideologia che considera il lavoro come un dato naturale, intrascendibile. Si tratta dell’ascesa di un principio che ribalta il motto «Lavorare per vivere e non vivere per lavorare».
Per più di cento anni i lavoratori hanno dato un giusto valore alla riduzione del tempo di lavoro. Il movimento si esaurì subito dopo la depressione del 1929, quando l’orario si stabilizzò attorno alle 40 ore settimanali e tale rimase per lungo tempo.
Oggi il lavoro è presentato come “senza fine”, è naturalizzato. Non c’è altro che lavoro e cose prodotte dal lavoro o che possono essere comperate col denaro.
Ma le cose non stanno così, dice Hunnicutt. La produttività aumenta, e la scelta che abbiamo di fronte riguarda il possibile uso di questa nuova ricchezza. L’accresciuta produttività offre due tipi di relazione alla ricchezza, non una sola. Possiamo usare questa ricchezza come abbiamo fatto dalla seconda guerra mondiale in poi, spendere la produttività in nuovi consumi, investimenti, spese governative, ecc., oppure possiamo convertire questa ricchezza in tempo libero. Possiamo Scegliere di mantenere il nostro attuale livello di vita, con le macchine sportive e tutto il resto, oppure possiamo optare per più tempo di vita al di fuori del lavoro, al di là del consumo aggiuntivo e della razionalità strumentale.
Posso scegliere di avere più tempo libero da passare con la famiglia a cena, dice Hunnicutt, più tempo per passeggiare con mia figlia Emmalee nel parco, più tempo per suonare, per amare, per ridere, per discutere, per raccontare storie, per giocare, per imparare, per osservare gli uccelli, perfino per pregare. Tutto ciò, dice Hunnicutt, è indubbiamente libero e costituisce un fine in sé.
È vero che oggi il lavoro assorbe le persone più di ieri, e che esso è in fondo più inumano di quanto non sia stato per gli schiavi. Il lavoro è più totalitario, in quanto non lascia spazio per null’altro, nessun gioco, nessuna indipendenza, nessuna vita familiare. È per questa sua invadenza, per questo suo aspetto totalitario, che diventa allora necessario compensare questa situazione con una sorta di ideologia secondo la quale il lavoro è posto come una virtù, un bene, un riscatto, un’elevazione. Se il lavoro fosse interpretato ancora come una maledizione, dice Hunnicutt, esso sarebbe radicalmente intollerabile per l’operaio. Il lavoro è divenuto simile ad una moderna religione, o a un credo che non può essere sottoposto a critica. Essere un buon cittadino significa essere un buon lavoratore. Con il sudore della fronte si conquista la salvezza. Con il lavoro si accede al consumo, al piacere, alla soddisfazione, alla realizzazione di sé, alla dignità umana. Più lavoro significa più reddito, e più reddito significa più agio, più consumo, più gioia.
Eppure, dice Hunnicutt, se ai lavoratori con un reddito più elevato fosse offerta la Scelta di lavorare meno o ricevere redditi ancora più alti, sarebbe del tutto sensato che essi scegliessero il tempo libero piuttosto che comperare un’altra barca o una macchina sportiva più potente. Con questa scelta, questi lavoratori potrebbero fare spazio ad altri, che non hanno lavori così buoni, e che potrebbero dunque essere pagati di più.
Mazzetti rigetta completamente l’impostazione di Hunnicutt. Seppur concordi con il collega americano sull’esigenza della riduzione del tempo di lavoro, sulla redistribuzione dei frutti dell’aumentata produttività, lo fa a partire da considerazione molto diverse.
Innanzitutto, contesta l’uso del concetto di libertà. La libertà di cui parla Hunnicutt è la libertà borghese. In secondo luogo contesta il concetto di tempo libero. In terzo luogo contesta il concetto di vita. Non c’è alcuna vita al di là del lavoro. Nessun pulpito sul quale salire per giudicare la società del lavoro, la società borghese.
La società borghese, il lavoro, la libertà borghese, il tempo, che è un tempo eminentemente storico e borghese, vanno giudicati a partire dalla società borghese, dal lavoro borghese, dalla libertà borghese, dal tempo borghese. Non c’è un fuori contesto – qualcun altro direbbe non c’è un fuori testo -, un luogo fuori da questa storia e dal quale giudicare questa storia. La soppressione del lavoro borghese segue la stessa strada del lavoro borghese. Non ci sono uomini liberi, o una libertà a partire dalla quale giudicare la società borghese. E ciò per motivi evidenti, stringenti, di fatto e, soprattutto, di diritto.
Di fatto, dice Mazzetti, oggi nessuno può vivere fuori dal lavoro. Nessuno è in grado di produrre da solo i prodotti che consuma. E i prodotti che consuma sono composti da materie prime e semilavorati che nessuno è in grado di produrre da solo. La divisione del lavoro è spinta a un livello tale che nessuna nazione è in grado di produrre da sola ciò di cui ha bisogno, comprese le nazioni più grandi e più potenti. Dunque, dice Mazzetti, il legame che unisce i produttori non deriva da una scelta. Nella nostra società la possibilità di soddisfare i propri bisogni, grazie all’appropriazione di una parte del prodotto complessivo, deriva dalla capacità di vendere la propria forza lavoro o i propri prodotti. Dipende cioè dalla domanda di altri, dipende da altri – non è libera. Perlopiù, dove si volge lo sguardo, tutti dipendono dal lavoro per soddisfare i propri bisogni. Anche quelli che godono del tempo libero consumano beni e servizi prodotti dal lavoro altrui: dipendono in tutto dal lavoro.
La libertà che si sperimenta nella società borghese, la libertà della proprietà privata, e in primo luogo il libero lavoro, non sono un dato naturale. La servitù e la corporazione, il vincolo personale, l’obbligo di impegnare le proprie risorse e capacità solo e soltanto entro i limiti di casta, di famiglia, di feudo, eccetera, sono stati spazzati via dalla libertà borghese, sono stati prodotti, hanno una storia.
Nel caso specifico del lavoro questa libertà implica soltanto la libertà dal vincolo personale e la libertà di controllo sulla proprietà della forza lavoro, la libertà di offrire o non offrire la propria prestazione a chicchessia. Ma non significa – perlomeno fino a quando non si afferma e permane un diritto al lavoro – non significa obbligo di acquisto. Questa libertà è ancora soggetta, sottoposta al vincolo, della domanda, e più propriamente, dice Mazzetti, al vincolo della valorizzazione. Là dove la valorizzazione non è possibile, l’offerta rimane inevasa e la libertà in essa espressa sperimentare la propria dipendenza dalla domanda.
La borghesia reifica – naturalizza – questa libertà nei diritti dell’uomo e del cittadino. Locke scrive: l’uomo nasce libero. È naturalmente libero. È in uno stato di perfetta libertà, nel quale non deve chiedere permesso a chicchessia, e senza dipendere dal volere di nessun altro uomo può fare ciò che gli piace e disporre di ciò che possiede, non meno che della sua persona. Rousseau scrive: ogni uomo nasce libero. Questa reificazione è parte integrante del processo di liberazione dai vincoli precedenti – ne costituisce un momento importante. Senza questa liberazione, e senza la nuova struttura della proprietà privata, non ci sarebbe stato l’afflusso di forza-lavoro di cui le nuove industrie avevano bisogno. Se la forza-lavoro fosse stata ancora vincolata al feudo o alla corporazione o alla famiglia le imprese non avrebbero avuto accesso a quel bacino di forza di cui avevano bisogno. Entrando in fabbrica la forza lavoro diventa valore di scambio – si reifica, diventa lavoro generico, lavoro astratto, lavoro misurabile, alla stregua di una forza naturale – forza motrice.
Stesso processo subisce il tempo. La borghesia reifica – naturalizza – il tempo attraverso i campanili e gli orologi. Il tempo come cornice dell’esistenza umana, il tempo vuoto e uniforme, il tempo kantiano, il tempo libero, da riempire con gli acquisti, con l’ozio, con il consumo e con il piacere, con la vacanza e con le cene in famiglia, il tempo per suonare uno strumento e il tempo per pregare, il tempo per cantare e scrivere poesie, eccetera, questo tempo riempibile a piacere, questa cornice della vita quotidiana, questo contenitore generico e adattabile, persino il tempo stesso di piacere, nasce come tempo di lavoro (Le Goff, Tempo della chiesa e tempo del mercante). Il tempo libero rimanda al tempo di lavoro. Non c’è tempo libero fuori dal tempo di lavoro. Così come si reifica il lavoro e si arriva al lavoro sans phrase, così si reifica il tempo, e si arriva al tempo libero. Non si può produrre lavoro libero senza tempo libero.
Cosa possono fare le persone quando non lavorano e non consumano?, chiede Hunnicutt.
Possono Giocare!, risponde. Possono impegnarsi in attività che sono ludiche, e valevoli in sé e per se stesse, al di là del lavoro e del denaro! Possono sperimentare la loro vita in modo diretto, senza l’intermediazione dei media o degli specialisti culturali, persino preparare un pasto per i loro figli prediletti.
Non esiste gioco, risponde Mazzetti, non esiste oggetto che possa entrare in un uso libero, non esiste un tempo vuoto che posso riempire a piacere, non esiste piacere. Anche il piacere è preso in una struttura di rimandi, la quale, addirittura, richiede il dispiacere. E la stessa famiglia non diventa il luogo di quella libertà alla quale fa riferimento Hunnicutt, se non nella società borghese.
La famiglia come espressione di un libero legame tra gli individui che la compongono è, dice Mazzetti, un prodotto borghese, in quanto si fonda sull’indipendenza degli individui, una conquista sacrosantamente borghese. Poiché, dice, ed in questo faccio mia l’analisi di Marx, è il denaro che separa gli individui. In altri termini: è la mercificazione che crea lo spazio per quella libertà, che poi si esprimerà anche nella famiglia. Dunque, dice, naturalizzare questa libertà sarebbe fuorviante. È la società borghese che naturalizza la libertà nel denaro. L’arcano di questa libertà è la divisione sociale del lavoro, la collaborazione nella produzione. La condizione di questa libertà è ancora il lavoro.
Bisogna fare attenzione a questo passaggio. Mazzetti non dice che non si dà tempo libero e libertà in generale. Dice che questo tempo e questa libertà sono strettamente legati con il lavoro borghese – non con ogni lavoro, ma con il lavoro borghese. Locke può enunciare la libertà borghese, perché questa libertà è già nei fatti una libertà che gli inglesi possono rivendicare per se stessi. Locke rivendica questa libertà in nome e per conto di un soggetto – l’uomo – che è appena apparso sulla scena. L’uomo che chiede da sé e per sé il potere è una novità. In precedenza il potere era teologico. La creatura chiedeva il permesso al creatore. Persino il Re doveva chiedere il permesso per governare. Locke spaccia questa conquista storica della borghesia come un dato naturale. Come una proprietà connaturata al nuovo sovrano apparso sulla scena – l’uomo. Come un al di là della storia – come un dato, e non come un prodotto. Come un elemento non superabile.
Mazzetti contesta questo naturalismo che innerva il discorso di Hunnicutt. Non esiste attività ludica che sia un al di là del lavoro – dice. Non esistono oggetti di gioco che non siano ripresi nella dinamica del lavoro, nei suoi momenti liberatori e nei suoi momenti frustranti.
Mi rendo conto che si può ragionare come Karl Polanyi, dice Mazzetti, e dire che gli oggetti possono diventare merce senza problemi, mentre se sono le relazioni personali a diventare merce ciò crea problemi. Ma la cosa non mi convince, dice. Su questo argomento, dice, concordo pienamente con la posizione di Marx, secondo il quale le cose non sono inerti – neutre -, bensì contribuiscono a dare forma alla vita, non meno di quanto lo facciano le relazioni dirette. Gli oggetti materiali, i prodotti, si presentano cioè come un momento di quelle relazioni, e queste non esistono a prescindere da quelli. Se esiste il telefono ho un rapporto diverso con gli altri, rispetto ad un mondo nel quale il telefono non esiste. Se ci sono i giornali e la TV ho un rapporto diverso con coloro che mi raccontano eventi accaduti, rispetto ad un mondo nel quale quei prodotti non esistono. Se combatto contro uomini armati di lance e di frecce lo faccio in modo diverso da come combatto contro uomini armati di bombe e di cannoni. Il mondo dei rapporti è fatto anche dalle cose, e il mondo delle cose è popolato di determinati rapporti che a quelle cose corrispondono. Quando viene inventato e prodotto il biberon e vengono scoperti nuovi metodi di sterilizzazione e conservazione dei cibi, cambiano anche i ruoli all’interno della famiglia. Ad allattare può essere anche il padre, e non solo la madre. Lo scambio di genere – il queer – inizia così. Dunque, conclude Mazzetti, la contrapposizione di Polanyi è inconsistente appunto perché, se si astrae nel rapporto con le cose, non si può non procedere astrattamente nel rapporto degli individui tra loro.
Qui siamo davanti a un materialismo raffinatissimo. Persino gli oggetti entrano nella storia, una storia che non è separabile dalla storia umana. Esprimendosi più correttamente: non si dà storia umana in generale, non c’è un uomo che prima è, e successivamente ha una storia, non c’è un mondo-ambiente che prima è, e poi accoglie una storia. Non abbiamo da una parte l’uomo e dall’altra la spazialità nuda e astratta. L’ambiente e gli oggetti sono sempre legati in una struttura di rimandi, il martello martella, l’ascia taglia, il loro senso rimanda sempre a un fare, e il fare dell’uomo rimanda sempre a un oggetto. Solo a partire da questa relazione si afferma l’oggetto astratto, indifferente, la semplice cosa (la semplice presenza), il martello equivalente, indifferente al suo uso – la merce. L’indifferenza – la libertà – scaturisce da questa reificazione. L’oggetto che serve chiunque, indistintamente, come oggetto di gioco è la merce. La forza generica e il tempo generico che possono essere spesi, indifferentemente, nella preghiera o nella preparazione di una cena per il figlio o in una gita al faro sono lavoro astratto – è il lavoro storico di tipo borghese, affermatosi con la borghesia e destinato a tramontare. Con la fine del tempo di lavoro, finisce anche il tempo libero. La grande scoperta di Marx, rispetto agli economisti precedenti, è proprio questa: la scoperta del lavoro astratto. E ciò che analizza senza fine è questo lavoro astratto: la sua reificazione, le sue diramazioni, l’estensione e la pervasività, la libertà che produce, e i limiti che incontra.
Il lavoro generico, l’oggetto generico, il valore di scambio, la merce, e tutti i suoi corrispettivi giuridici, politici, economici e metafisici, l’oggetto d’uso generico – il pezzo di ricambio -, il lavoro libero, l’offerta, la libertà, la sovranità, la proprietà privata, la scelta, la decisione, la sostanza, e tutte le loro figure, dal capo dello stato al premier, al duce, all’imprenditore, allo startupper, al genio, all’artista, eccetera, sono momenti e espressione di ciò che prudentemente chiamo società borghese.
Tu poni l’enfasi sul lato soggettivo, dice Mazzetti a Hunnicutt. Poni l’accento sul valore positivo e libero di una scelta che suggerisci. Consideri la redistribuzione del tempo di lavoro come dipendente da una scelta, da una decisione, da una libertà che si possiede in proprio, come il sovrano possiede il diritto all’ultima parola, la decisione estrema, il dir di sì (o il dir di no) che concede la grazia e la libertà. Mentre io privilegio un confronto con le resistenze. Non disconosco il lato attivo, positivo della scelta. Ma non posso nascondere il lato passivo che condiziona la scelta.
Semplificando al massimo, continua Mazzetti, potremmo dire che il tuo approccio è prevalentemente storico-idealistico e il mio soprattutto storico-materialistico. Non nego che gli uomini facciano la propria storia, che dunque abbiano un ruolo attivo, che la scelta conti, e conti parecchio. Ma, e in ciò sono ancora pienamente d’accordo con Marx, sebbene gli uomini facciano la loro storia, non la fanno secondo il loro libero arbitrio. La storia non è il solo frutto di scelte individuali o collettive, di scelte politiche, eccetera. In essa non si esprime la sovranità o la libertà. Né gli uomini fanno la storia in circostanze da essi stessi prescelte. Anche le circostanze – non solo il mondo delle relazioni, anche il mondo delle cose – fanno la storia, e non sono frutto di una scelta. Queste circostanze sono date dal passato. Il passato dà qualcosa, quel qualcosa in cui l’uomo si trova situato. Dunque, il passato vanta qualche pretesa sul futuro. Il futuro non è totalmente nella mani del presente, non è totalmente presente. Una parte del destino si gioca nel passato, nelle condizione date, e queste condizioni – questa passività che oppone resistenza – reclama il suo diritto. Queste circostanze condizionano lo stesso processo attraverso il quale i presenti cercano di soddisfare i loro bisogni e di porre rimedio alle loro catastrofi. La storia, infatti, mostra che ogni generazione si trova donato un risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto storicamente prodotto con la natura e degli individui tra loro, che è stato tramandato dalle generazioni precedenti; una massa di forze produttive, capitale e circostanze, che da una parte può senza dubbio essere modificata dalle nuove generazioni, ma che dall’altra parte impone ad esse le sue proprie condizioni di vita e dà uno sviluppo determinato; che dunque le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze.
È mia convinzione, dice Mazzetti, che quando un individuo “sceglie” si pone in una relazione esterna rispetto all’oggetto della sua “scelta”. Pertanto, se diciamo che le persone possono “scegliere” la riduzione dell’orario, facciamo passare la convinzione che essi non abbiano bisogno di passare attraverso un radicale mutamento di sé per conquistare la libertà connessa con quella trasformazione sociale. Facciamo passare l’idea, aggiungo io, che la libertà è già qui, che bisogna solo approfittarne, che la libertà è una stato di cose e non un movimento, che la libertà è una presenza, un oggetto, persino una merce.
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Il testo del confronto Mazzetti – Hunnicutt si trova a questo indirizzo. Si tratta della più lucida e sintetica presentazione del materialismo storico elaborata da Mazzetti.