La volontà libera – sapersi nell’assoluto – può volere solo in quanto partecipa di quella verità, è sussunta sotto di essa, e ne consegue. L’eticità è lo spirito divino in quanto dimorante nell’autocoscienza, nella sua presenza effettiva. Se la volontà è pensata come il contenuto della libertà, e si parla pertanto di volontà libera, questa volontà non può essere considerata come esterna, come proveniente da fuori. Se così fosse, e il volere venisse dall’esterno, la volontà non potrebbe pensarsi come volontà libera, ma sempre e soltanto dipendente da questo fuori. Dunque, tra il contenuto e la forma deve esserci comunione, identità – auto-coscienza. Questa comunione, dice Hegel (Enciclopedia, Spirito oggettivo §552), si riscontra nel seno stesso della religione cristiana, nella quale non è l’elemento naturale a costituire il contenuto di Dio, o a entrare in tale contenuto come suo momento: il contenuto è Dio, saputo in spirito e verità.
Nella religione cristiana è Dio che si fa uomo. È Dio stesso che si conosce come uomo – o è l’uomo che, in Gesù, si conosce come Dio stesso, che si fa Universale Concreto (concreto, cioè cresciuto insieme, unito nello stesso). Il Finito – l’uomo empirico – è unito (è la stessa identica cosa) dell’Infinito – l’uomo logico. In Gesù la libertà – ovvero l’essere sciolto da ogni dipendenza, l’assoluto, l’infinito, la sovranità – proviene da sé stesso, perché è egli stesso ad essere Dio.
Non è un oggetto esterno, un feticcio, un’immagine, un totem a dettare la legge, a dire cosa è vero e giusto. La verità sgorga direttamente dal cuore – la verità è la verità del cuore, e al centro del cuore c’è Dio.
L’uomo può ora specchiarsi in Gesù, in quanto Gesù è Dio che si fa uomo, vive, si fa esperienza. Ognuno può esperire l’assoluto, specchiarsi in Gesù e apprendere di essere anche lui figlio di Dio, di avere un cuore e di avere al centro del cuore questa verità, la verità di essere, come tutti gli altri uomini, figlio di Dio. Non ha bisogno di ricevere dal di fuori, dal padre, dalla natura, delle condizioni economiche e sociali esterne, dal feudatario, dalla corporazione, dalla famiglia, dal re, dal principe, eccetera; non ha bisogno che un potere esterno gli dica chi è veramente e quale è il suo rapporto rispetto agli altri, in quale struttura è collocato e può agire. Ora sa da sé, dal suo cuore, che egli è figlio di Dio, e che questo Dio non è un sovrano esterno a cui deve rispondere, ma questo Dio è il suo cuore, è egli stesso. In ogni momento, dunque anche nel momento della sua finitezza empirica, si esprime l’universale, la verità. L’intimità, la dolcezza di saper-si e di emozionar-si, di stare soli, il rapporto a sé, la solitudine, persino il saper-si unici e persi o desolati viene da sé, sgorga dal saper-si.
Nella religione cristiana, dice Hegel, non è l’elemento naturale a costituire il contenuto di Dio: il contenuto è Dio. E tuttavia, aggiunge, nella religione cattolica, si compie un passo indietro rispetto a questa conquista cristiana, si torna verso un certo paganesimo, il quale identifica Dio con un oggetto esterno, con una forza – una volontà – esterna. Nella religione cattolica questo spirito è, nella realtà effettiva, contrapposto in modo rigido allo spirito autocosciente. Anzitutto, nell’ostia, Dio viene presentato all’adorazione religiosa come una cosa esteriore (mentre nella chiesa luterana l’ostia è consacrata ed elevata a presenza di Dio solo esclusivamente nella fruizione, vale a dire nell’annientamento della sua esteriorità, e nella fede, cioè nello spirito insieme libero e certo di sé).
Nella religione cattolica è minato e corrotto il principio della unità di contenuto e forma. Nell’oggetto esterno – nell’ostia – viene pensata la divinità. La divinità non si manifesta nell’unione, ma si manifesta prima, a latere, si manifesta in un oggetto separato, l’oggetto stesso è un oggetto mistico, animato, un feticcio – l’ostia, per il cattolico, è un feticcio. Mentre per il luterano, l’ostia è rilevata e tolta proprio per permettere l’unione tra il contenuto e la forma.
Da questo primo rapporto di esteriorità – esteriorità tra la finitezza del fedele cattolico e l’infinita potenza del divino residente nell’ostia – da questa prima esteriorità dell’infinito rispetto al finito, dice Hegel, derivano tutti gli altri rapporti esterni, quindi non liberi, superstiziosi; in particolare, dice, un laicato che riceve il sapere – la verità – come la direzione della volontà e della coscienza, dall’esterno e da un altro ceto, il quale a sua volta non è giunto al possesso di quel sapere in modo unicamente spirituale, ma ha a questo scopo essenzialmente bisogno di una consacrazione esterna. Inoltre, dice, quella maniera di pregare, che o si limita a muovere le labbra, oppure è priva di spirito in quanto il soggetto rinuncia a rivolgersi direttamente a Dio, e prega altri di pregare; la devozione rivolta a immagini miracolose, anzi persino a delle ossa, e l’attesa di miracoli in virtù di queste; in generale, dice, la giustificazione mediante opere esterne, un merito da acquistare mediante le azioni, anzi persino da trasferire ad altri, ecc.; tutto ciò assoggetta lo spirito ad un’estraneità a se stesso, che fa sì che il suo concetto venga misconosciuto e travisato nell’intimo, e che vengano corrotti alla radice il diritto e la giustizia, l’eticità e la coscienza, la responsabilità e il dovere.
Per questa via, che vede contrapposti finito e infinito, la volontà non si generalizza. Non appare la personalità. E non appare perché, da un lato, essendo l’infinito (la legge, il comando, l’universale, il valore, ecc.) contrapposto al finito, e identificato con un altro finito – con un ceto, una categorica sociale, una casta, una corporazione, una persona, un re, un capo famiglia, ecc. – si tratta di un cattivo infinito. Gli individui sono diversi, ognuno legato al proprio destino. Si nasce contadini, e i figli del contadino saranno contadini. Si nasce, nei mestieri, scalpellino, e si rimane scalpellini, e i figli degli scalpelli saranno scalpellini. Si nasce re, e i figli dei re saranno re. La trasmissione è diretta, faccia a faccia, mano nella mano. Non c’è virtualizzazione delle cariche e dei mestieri – non c’è forza-lavoro e corpo giuridico. La continuità è mantenuta dal passaggio fisico, dal tocco di mano, il re passa la spada al figlio, lo scalpellino il martello al figlio. Il commerciante consegna la cosa nelle mani dell’acquirente, e la consegna non è il perfezionamento del contratto, ma è il contratto stesso – non c’è virtualizzazione della proprietà. Non c’è contratto. Non c’è proprietà privata. Non c’è virtualizzazione e fungibilità dell’oggetto d’uso – non c’è valore d’uso. Ogni oggetto ha una valenza e la valenza rimane attaccata alla cosa, non può diventare oggetto di contratto. Non si può contrattare per un kg di pane, si può solo mercanteggiare per quella determinata pagnotta, per quel determinato sacco di grano, per quel cavallo e quella scrofa. Il contratto vero e proprio, che presuppone la proprietà privata, dunque la fungibilità del bene, non è possibile in un regime di cattivo infinito. Dall’altro lato, proprio in quanto l’infinito è esterno al finito, l’infinito diventa un finito, e quando si propone come infinito, genera corruzione. Il finito che si propone come infinito, genera – di diritto (apriori) – corruzione, e solo accidentalmente produce giustizia. Una misura empirica è, per definizione, votata all’imperfezione. Il commercio che passa per la consegna a mano è imperfetto, ingiusto, impreciso, approssimativo. Il rapporto che passa per il tatto è imperfetto, ingiusto, corruttibile e spesso corrotto e solo accidentalmente perfetto. Dove il cattolicesimo rimane o ritorna come regolatore dei rapporti sociali, come nel Meridione, il potere diventa feticcio, la legge diventa persona, e il tocco del medico e dell’avvocato, del notaio, persino del maestro, diventa taumaturgico, la potenza della legge passa dalle mani, passa per il tocco e la benedizione, disegna un alone di mistero e fatalità intorno alle figure che l’amministrano, anzi, la somministrano, come fosse una qualità personale, una magia che dispensano a discrezione – proliferano dunque i don, i primari, i professori, gli scriba e gli scrittori, i sapienti e gli stregoni, l’affascino e il contraffascino, aglio, fravaglio, fattura ca nun quaglio, corna, bicorna, capa r’alice e capa r’aglio. tre iucchie affàscene, tre sante sfàscene, scacce cusse affàscene ca nange passe ‘nnanze.
Il cristianesimo introduce una novità che stravolge il quadro classico greco-romano, o, meglio, porta alla coscienza ciò che nell’impero romano stava diventando verità, ovvero l’aspetto cosmopolita del suo imperio, l’aspetto non più romano, latino, laziale della sua costituzione. Questa novità libera la persona dalla soggezione diretta. Non solo ognuno, in quanto in sé si pensa come figlio di Dio, è uguale a ogni altro, ma in questa uguaglianza, uguaglianza che non proviene dall’esterno, non si è più misurati da una casta, da un ceto, da un famiglia, dunque da una provenienza esterna, non si è, meccanicamente, effetti di una causa, ma si concresce con la propria natura, si è uno sviluppo, una manifestazione, un’esperienza della propria natura, del proprio cuore, del proprio principio, della propria sostanza, si è causa di se stessi; in questa uguaglianza ognuno è libero, nasce libero, possiede la libera volontà. Dio, il Dio personale, il Dio del cuore, il Dio cristiano, è in noi, in ognuno di noi – siamo noi stessi. Ci specchiamo in lui che è in noi, ci specchiamo in noi, siamo lui, senza distinzioni di razza, di sesso, di religione, di ceto, di appartenenza – tutti uguali, tutti fungibili, tutti sostituibili. E quando agiamo, agiamo a titolo personale, per nostro conto, per nome nostro. E ogni cosa che facciamo e trattiamo la trattiamo a nostro nome, per nostro conto. E così ogni cosa porta il sigillo di questa libera volontà. La persona, dice Hegel (Lineamenti, § 44), mette e ha il diritto di mettere la propria volontà in ogni cosa. In virtù di ciò, la cosa è la Mia e riceve la mia volontà come suo fine sostanziale (essa infatti non ha entro se stessa alcun fine), come sua determinazione e anima. Ciò che differenzia il possesso dalla proprietà è questo (§ 45): mentre nel primo io ho qualcosa nel mio stesso potere esterno, l’interesse particolare del possesso è il lato particolare per cui Io rendo Mio qualcosa sulla base di bisogni e impulsi naturali e dell’arbitrio; nella seconda (proprietà), invece, è il lato per cui Io, nel possesso, sono ai miei occhi indiscutibilmente come volontà libera. Io scelgo la cosa, e scegliendola la sottopongo al mio volere, al mio interesse, al mio scopo. Poiché nella proprietà la mia volontà diviene indiscutibilmente ai miei occhi come volontà personale, e quindi come volontà di un’entità singolare, allora, dice Hegel, la proprietà riceve il carattere di proprietà privata.
Non è sufficiente che la cosa sia nelle mie mani, nella mia disponibilità, sia oggetto delle mie brame; affinché si produca la proprietà privata è necessario che essa si presenti a me come mia disponibilità. E non solo devo disporne, devo anche avere la possibilità di disporne. L’oggetto deve virtualizzarsi. Di esso devo poter fare ogni uso possibile, la cosa deve essere totalmente nella mia disponibilità. Solo a questa condizione diventa proprietà privata. Fuori da questa destinazione, la cosa cozzerebbe contro altre cose meccanicamente, arbitrariamente. Solo inquadrata in un fine, e il fine è quello impresso dalla persona, la cosa acquista un senso, un valore, una destinazione d’uso, diventa un valore d’uso – proprietà privata.
Nel possesso la cosa si consuma, passa nel suo altro perdendovi la propria provenienza (Enciclopedia § 204). Il fieno è mangiato dal cavallo e si perde in esso. Prima di essere mangiato dal cavallo era un ché di contrapposto al cavallo, ma senza senso. Esso attira l’attenzione del cavallo e finisce tra le sue fauci, senza mai esser diventato per il cavallo una Cosa, un’entità riflessa nel cavallo. E dopo essere stato mangiato sparisce, non lascia traccia nel cavallo. Nella proprietà, invece, l’effetto è ciò che è atteso. Rimane come ciò che è stato previsto. Il fieno non rimane contrapposto al soggetto. Investito dalla sua intenzione, dall’intenzione interna del soggetto, non è contrapposto al soggetto. La cosa è interna al soggetto, e il suo effetto si scarica completamente sul soggetto. La proprietà è la consapevolezza di avere la piena disponibilità degli usi possibili della cosa. Questa consapevolezza non è esterna al soggetto. Non gli si contrappone come una forza esterna, come una causa esterna. Ecco dunque che, come conseguenza di questa virtualizzazione, la cosa può scindersi in oggetto d’uso (in prestazione) e valore d’uso (aspetto sostanziale della cosa) e diventare materia di contrattazione (Enciclopedia § 494). L’oggetto d’uso non può mai diventare materia di contrattazione, in quanto si muove in continuazione, scivola da una posizione a un’altra, perde consistenza, come la perde la carne nella vaschetta del supermercato, sino a deperire. Il valore d’uso non deperisce, non si consuma, non si trasforma, mantiene la sua identità, e la mantiene in quanto è l’oggetto tolto e rilevato dal soggetto e trattenuto nella sua generalità, nella sua universalità. Solo questa generalità fissa – questa buona infinità – può diventare materia di contrattazione. Il Contratto, dice Hegel (§493), è valido a prescindere dalla prestazione dell’una o dell’altra volontà, perché la cosa materia di contratto non è la prestazione in sé, la quale comporterebbe un regresso all’infinito o una divisione infinita della cosa, del lavoro e del tempo.
Ciò detto, la proprietà si perfeziona quando l’animus possidendi si fissa nel corpus possessioni. Non mi è sufficiente, dice Hegel (Lineamenti, § ), la rappresentazione interiore e la volontà che Qualcosa debba esser mio, ma si richiede anche l’impossessamento. In tal modo, quella volontà riceve un’esistenza che implica la possibilità di essere conosciuta dagli altri. Il passaggio all’atto è sempre indispensabile. La mediazione dell’esperienza è un momento indispensabile.
Il tragitto che porta dalla comparsa della persona e della libera volontà fino alla proprietà privata è lungo secoli. Sono già ben millecinquecento anni che, dice Hegel (Lineamenti § 62), mediante il Cristianesimo, la libertà della persona ha iniziato a fiorire ed è diventata, in una parte peraltro piccola del genere umano, principio universale. La libertà della proprietà, invece, è stata qui e là riconosciuta come principio, si può dire, appena ieri. Si pensi al lavoro libero, ovvero alla considerazione del lavoro come forza-lavoro, cioè come valore d’uso, e alla sua comparsa solo nel Sei-Settecento. Nella corporazione, e ancora più nel servizio di tipo feudale, la forza-lavoro non si era emancipata dalla prestazione, non si era virtualizzata e resa disponibile per qualsiasi uso possibile. Era legata agli usi determinati dalla tradizione, dal legame persona o parentale, dalla fissità alla terra, alla casa, al luogo, all’appezzamento di terreno, al clan, eccetera. Nella sua proprietà, dice Hegel ((§63), il feudatario soggiace alla destinazione secondo cui egli dev’essere proprietario solo dell’uso della cosa, non del suo valore.
Delle mie particolari attitudini, quelle che sono legate strettamente al mio corpo e alla mia testa, posso cedere ad altri il loro uso, ma limitato nel tempo. Questa limitazione, dice Hegel (Lineamenti di filosofia del diritto § 67), conferisce a tutto ciò un rapporto esteriore con la mia totalità e universalità.
Se cedessi tutto il mio tempo, dice Hegel, renderei proprietà di un altro la mia personalità. Ecco allora che, al completo servizio di un altro, non sarei più una persona.
Si tratta, aggiunge Hegel, dello stesso rapporto, chiarito nel § 61, tra cosa e suo utilizzo. Rispetto a me, la cosa non è fine ultimo entro se stessa. È un’esteriorità senza diritti, non-libera, non-personale (§ 42). Se di questa cosa faccio un uso totale, allora sono il suo proprietario. Non è sufficiente che la cosa sia nella mia disponibilità sotto uno dei suoi possibili usi affinché sia considerata di mia proprietà. Per essere considerata tale, la cosa deve entrare nella mia disponibilità non per un uso o un insieme di usi possibili, ma per tutti i suoi usi possibili.
Nell’uso, la cosa è singolare, determinata per qualità e quantità, ed è in relazione a un bisogno specifico, dice Hegel (§63). L’utilizzabilità, il fatto cioè di essere capace di entrare in un certo uso, rende la cosa paragonabile con altre di identica utilizzabilità. Anche il bisogno che essa soddisfa è bisogno in generale, e in ciò esso è paragonabile ad altri bisogni. In questa sua utilizzabilità, che astrae da usi particolare, la cosa è valore. In quanto proprietario della cosa, io lo sono tanto del suo valore, quanto del suo uso.
Al completo servizio di un altro è la donna nella famiglia, quando essa è tenuta dallo status, e vincolata per le sue qualità da relazioni comuni che si strutturano sui rapporti di prossimità, filiazione, matrimonio, convivenza, sangue, lingua, segreti, abitudini, collocazione fisica, e dove ciò che si può fare ricade nel cerchio ristretto della famiglia e del ruolo assegnato in essa. Dove il tempo non è una entità astratta e vuota e lo spazio pura estensione, ma sono sempre il tempo determinato e lo spazio ristretto dalla serie delle incombenze tra le quali ci si barcamena. Non ci sono oggetti Miei o un Mio tempo e una stanza tutta per Me, perché non c’è un Me – non appartengo a Me, appartengo alla comunità, alla famiglia, al clan, alla corporazione, al feudatario, al marito, alla natura, ai miei doveri di donna, di madre, di figlia, etc. Non sono una Persona, non sono le mie possibilità, ciò che io posso coincide con ciò che io sono. Lo schiavo – il servo – non ha un suo tempo, un suo spazio: non ha la universalità astratta che gli consente di pensarsi per ogni impiego possibile, per ogni destinazione possibile, per ogni collocazione possibile: le sue possibilità non gli appartengono.
Nel 1972, le operaiste femministe del Wages for Housework (WfH), propongono il salario per il lavoro domestico come via per il rifiuto del lavoro. Per le WfH chiedere un salario significava «rompere la cellula organizzativa fondamentale all’interno della quale l’offerta di questa forma di lavoro era principalmente comandata, cioè la famiglia». Le WfH avrebbero potuto – alla Foucault – rompere il comando, senza bisogno di chiedere un salario; avrebbero potuto scegliere il rifiuto del lavoro – alla 99 Posse – e rifiutare di faticare (e mangiare a scrocco). E, invece, chiedono di diventare lavoratrici, chiedono di entrare nell’ordine del lavoro formalmente libero, chiedono di uscire dalla proprietà signorile e corporativa, ed entrare nell’ordine della proprietà privata – chiedono l’universalità astratta della proprietà privata – chiedono il lavoro astratto. Il lavoro astratto, con tutti i suoi annessi e connessi (Momenti), a questo punto permette il rifiuto del lavoro. Il fatto che il salario venga chiesto allo Stato e non al mercato, posiziona queste pretese sul limite (storico) di ciò che Keynes battezza come epoca della Signoria dello Stato sul denaro, epoca che si chiude proprio nel 1972. E lo chiedono allo Stato, non perché lo Stato non è il padre, il marito, il fratello, il nonno; lo chiedono allo Stato perché il mercato è stato monopolizzato dalla Stato, il quale, nel 72, assiste (e da tempo) dalla culla alla tomba.
«Ma per quanto tu possa essere sfruttato [in quanto lavoratore salariato], tu non sei quel lavoro. Oggi sei postino, domani camionista. Ciò che ti importa è quanto lavoro devi fare e quanti soldi prendi.»
La persona non è il suo lavoro, se per lavoro si intende l’attualizzazione di un potenziale virtualmente infinito. Ecco perché Marx distingue tra lavoro e forza lavoro. Ciò che il borghese compra non è la persona, ma è la sua capacità di lavorare per un periodo determinato. Questa seconda condizione è importante. Se l’imprenditore comprasse tutto il tempo del lavoratore, allora ciò che una persona è, ovvero l’infinita possibilità, sarebbe messa nelle mani dell’imprenditore, e questa persona non sarebbe più libera. Se fosse permesso all’uomo di vendere la sua forza-lavoro per un tempo illimitato, dice Marx (Salario, prezzo e profitto), la schiavitù sarebbe di colpo ristabilita. Una tale vendita, se fosse conclusa, per esempio per tutta la vita, farebbe senz’altro dell’uomo lo schiavo a vita del suo imprenditore. Per uno schiavo le possibilità sono tutte attualizzate – come per il morto. Ecco perché, al mortifero abbraccio familiare, la donna preferisce la libertà dell’impiego eterodiretto, ma a tempo determinato.
Nel lavoro è in gioco il corpo immediatamente singolare. Il corpo vivente, dice Hegel (§47), è l’indivisa esistenza esterna. Il corpo che lavora non si rapporta alle sue parti, che sono membra che stanno a sé, per questo il corpo non determina da sé il luogo, non si muove dal suo posto (Enciclopedia §344). Si sposta, transita, ma non assume il movimento come suo movimento. Non è liberato dalla sua individualità. Mangia, cresce e produce, ma il suo prodotto non è un sillogizzarsi dell’individuo con se stesso, bensì la produzione di un nuovo individuo. Il prodotto non è un suo prodotto – non è un prodotto, è un’esteriorità rilasciata (§346). L’asino che aziona la macina e lavora il grano non produce un prodotto, né tanto meno un suo prodotto – l’asino non accede alla proprietà privata. Non c’è ritorno entro sé del valore del prodotto – non c’è valore, dunque non c’è prodotto, non c’è valore d’uso. L’asino si muove, e non si può dire che tiri la macina, più di quanto si possa dire che la macina lo tenga al giogo: è il sacchetto di biada legato al collo che, con il suo finto movimento, aziona il meccanismo che muove l’animale. L’asino è tirato innanzi dalla biada come suo sé che gli rimane sempre esteriore: l’asino si slancia incontro al sacco, disperdendo l’energia la quale genera la farina. Si muove stimolato dall’esterno – è attratto dalla farina. L’introiezione della farina non è un rilevamento, ma un mero toglimento, dunque non ha come risultato il sé nella sua universalità interna e soggettiva. L’asino non diventa una persona.
È solo nella misura in cui la mia volontà è, che Io, dice Hegel (Lineamenti § 47), in quanto persona, ho la mia vita e il mio corpo. Io ho queste membra, dice, ho la vita, solo nella misura in cui Io voglio. L’animale non può mutilarsi o uccidersi, dice Hegel, l’uomo invece può. Nella misura in cui è esistenza immediata, il corpo non è adeguato allo spirito. Per essere organo volitivo e mezzo animato dello spirito, il corpo, dice Hegel (§ 48) dev’essere prima preso in possesso dallo spirito stesso. È solo perché nel corpo Io sono vivente come entità libera, che di questa esistenza vivente non si può abusare come di una bestia da soma. Nella misura in cui Io vivo, la mia anima (il Concetto, la Libertà) non è separata dal corpo: il corpo è l’esistenza della Libertà e io sento in esso. Pertanto, dice Hegel, solo un intelletto privo di idee, sofistico, può fare la distinzione secondo cui, qualora il corpo venga maltrattato e l’esistenza della persona assoggettata al potere di un altro, comunque la cosa-in-sé – l’anima – non verrebbe toccata o intaccata. La violenza fatta da altri al mio corpo è una violenza fatta a me.
Ciò che è diverso dalla libera volontà è, per la libera volontà, l’esteriore in generale: è una mera cosa esteriore, un’entità non-libera e senza diritti (Lineamenti § 42).
L’uomo è immediatamente esistenza naturale, è una mera esteriorità. Solo comprendendosi come libera volontà prende possesso di sé e diviene, anche di fronte agli altri, proprietà di se stesso (Lineamenti § 57). Questo prender possesso di sé non è sufficiente, dice Hegel, ma richiede anche l’impossessamento. In tal modo, quella volontà riceve un’esistenza che implica la possibilità di essere conosciuta dagli altri. Il passaggio all’atto è sempre indispensabile. La mediazione dell’esperienza è un momento indispensabile. Tale presa di possesso, dice Hegel (Lineamenti § 57), è anche l’attività di porre nella realtà ciò che l’uomo è secondo il suo concetto (in quanto possibilità, facoltà, disposizione). La persona è il tutto delle sue possibilità in un corpo.
1) Quando la persona è ridotta al suo corpo in quanto elemento naturale, come essere naturale in genere (§57), e la virtualità (possibilità) è cancellata a favore dell’attualità r dalla puntualità singolare, quando ciò avviene, dice Hegel, essa diventa fondamento della schiavitù – quest’ultima intesa in tutte le sue più caratteristiche giustificazioni: per la forza fisica, per prigionia di guerra, salvamento e conservazione della vita, sostentamento, educazione, beneficenza, assenso proprio, ecc. Si tratta di un punto di vista che sta anche a fondamento della signoria, e di ogni visione storica sul diritto di schiavitù e di signoria. Quando il vincolo è considerato naturale, come nel caso del vincolo della moglie verso il marito e i parenti, che la considerano, in quanto matrice, naturalmente più adatta ad accudire i parenti, gli anziani, i fanciulli, a fare la maestra piuttosto che l’ingegnere, o il meccanico; che la considerano, in virtù della sua dotazione fisica, destinata ad alcune professioni anziché ad altre, eccetera, allora il rapporto è di servitù, ed è di servitù in quanto la persona è ridotta alla natura, gli viene negata l’universalità astratta. Come era anche nel caso dei figli di contadini destinati da una condizione (supposta) naturale – la nascita – al vincolo con la terra ereditato geneticamente dai genitori; o del re che ereditava per trasmissione sanguigna anche la corona. La dignità della persona era ignota.
2) Al contrario, dice Hegel, là dove si dichiara l’assoluta illegittimità della schiavitù, ci si attiene saldamente al concetto astratto dell’uomo in quanto spirito, all’universalità astratta – in quanto personalità astratta, in quanto libero in sé, l’uomo rincorre, in fin dei conti, l’accidente e cerca di approssimarsi all’assoluto, tagliando e smussando, come nella rivoluzione francese, quando l’impeto e la volontà di assoluto non potevano non finire in un bagno di sangue, perché per via pratica e naturalistica, nessuno, ma proprio nessuno, è testimone di libertà, sovranità, uguaglianza – nessuno può entrare con la testa sul collo nel regno della libertà. Solo quando le sue possibilità si sono tutte attualizzate per via pratica (con la morte) la furia dileguante si placa, e il virtuale e l’attuale coincidono. Anche quest’altro atteggiamento, dice Hegel, considera l’uomo come libero per natura, vale a dire: essa prende per verità non l’Idea, bensì il concetto astratto in quanto tale nella sua immediatezza.
Questidue atteggiamenti formano un’antinomia. Come ogni antinomia, dice Hegel, essa si fonda sul pensiero formale, il quale tiene fermi e asserisce i due momenti di un’Idea come separati, ciascuno per sé, e quindi li afferma nella loro non conformità all’Idea e nella loro non-verità. Da una parte si cerca di afferrare l’infinito per approssimazioni empiriche, sommando via via tutti i casi che si presentano – il servo che lavora (1); dall’altra si pretende di realizzare l’infinito per sottrazione, tagliando tutto ciò che si discosta dal concetto astratto – il padrone che giustizia (2).
Hegel non cestina questi due atteggiamenti. Li mette al lavoro. Ogni cosa nella dialettica diventa momento di un processo. La dialettica è onnivora. Allora il mero concetto – l’in sé – viene rilevato, viene rilevata l’esistenza naturale immediata, e si conferisce l’esistenza unicamente come l’esistenza sua, libera. Il lato della universalità astratta, del mero concetto, che riconosce la libertà e la virtualità, dunque pone le infinite possibilità, ha il vantaggio, dice Hegel, di contenere il punto di partenza assoluto per la verità – ma il suo limite è, appunto, di contenere soltanto il punto di partenza. L’altro lato, invece, il quale resta fermo all’esistenza a-concettuale, non contiene affatto il punto di vista della Razionalità e del Diritto. Rilevando quest’ultimo, il primo si piazza tra le cose, conquista un corpo, un corpo di persona, che si pone adesso come universalità concreta.
Nei Lineamenti di filosofia del Diritto, al paragrafo 63, Hegel distingue chiaramente nell’oggetto d’uso 1) la «cosa in quanto è una cosa singola» e 2) l’utilizzabilità della cosa paragonabile ad altre cose di identica utilizzabilità. Astraendo dalla qualità specifica della cosa particolare, si ottiene la determinatezza semplice dell’universalità della cosa. Questa universalità è il Valore della cosa. Anche rispetto al bisogno, dice Hegel, si registra la stessa differenza. Il bisogno specifico di cui essa è al servizio e, a un tempo, bisogno in generale, e in ciò, secondo la sua particolarità, è anch’esso paragonabile ad altri bisogni: di conseguenza, la cosa è confrontabile anche con altre cose che sono utilizzabili per altri bisogni. Il valore compare già nel bisogno. In Critica dell’economia del segno, Baudrillard non aggiunge nulla di nuovo a questo piccolo paragrafo.
Nel § 67 Hegel distingue anche tra lavoro e forza-lavoro. Dice: «L’uso delle mie forze è differente dalle forze stesse». Posso alienare l’uso limitato nel tempo, ma non posso alienare la totalità delle estrinsecazioni di una forza, eccetera.
Nel § 77 – sul contratto – riprende la stessa differenza, e spiega come il contratto si perfezioni proprio in virtù di questa stessa differenza. Nel contratto reale, dice, ciascuno conserva la medesima proprietà con cui entra nel contratto e che egli, a un tempo, cede. Di conseguenza, quel che rimane identico è differente dalle cose esteriori che, nello scambio, mutano proprietario. Ciò che rimane identico è il valore, nel quale gli oggetti del contratto – qualunque sia la diversità qualitativa esterna delle cose – sono uguali l’uno all’altro. Il valore è l’aspetto universale di questi oggetti (qui rimanda al § 63). Il valore non è ancora il prezzo. È, rispetto all’oggetto d’uso, la mera Possibilità d’uso – l’utilizzabilità o utilità.
Questa differenza che abita l’oggetto d’uso (o valore d’uso) è di capitale importanza. Nella Ricchezza (p.109 Utet) Smith la propone nella sua forma classica. Da una parte abbiamo la qualità della cosa particolare, capace di rendersi utile. Dall’altra abbiamo la scambiabilità di questa cosa con altre cose. L’una può essere detta valore d’uso, l’altra valore di scambio.
Smith aggiunge una notazione di non poco conto, e della quale bisogna trarre tutte le conseguenze. Le cose che hanno il massimo valore d’uso spesso hanno scarso o nessun valore di scambio; e, al contrario, quelle che hanno il massimo valore di scambio hanno frequentemente scarso o nessun valore d’uso.
In Marx (come in Hegel) questa differenza tra valore d’uso e valore di scambio è pienamente storicizzata. Uso e Valore, seppure reificati, hanno una storia, una storia che, pressappoco, corrisponde alla storia delle forze produttive e dei rapporti di produzione.
L’utilità dell’oggetto d’uso si decide solo e soltanto entro l’ambito di queste regole. Fuori dalla cornice l’oggetto non ha utilità – l’oggetto non è un oggetto (utile). L’oggetto deve entrare nel rito per acquisire valore.
Stellantis produce Panda. La Panda invenduta non è valore d’uso. Non è niente. I capannoni non sono niente. I macchinari non sono niente. Gli operai non sono niente. Le loro famiglie non sono niente. Tutto è niente.
Hanno pienamente ragione gli economisti della Bocconi quando dicono che non ci sono i soldi, che se non arrivano i soldi della vendita della Panda, non si può fare niente. Non si possono pagare gli operai e non si possono pagare gli insegnanti e i medici. E tutto ciò, nota bene, non perché non siamo capaci di produrre Panda in quanto oggetto d’uso, ma perché non siamo capaci di produrre Panda in grado di diventare valore di scambio.
È la camicia di forza del valore di scambio (dei rapporti di produzione) che ci rende poveri, e non l’incapacità (forza produttiva) di produrre oggetti d’uso. La Panda non diventa oggetto utile per qualcuno se non diventa valore (di scambio) che si valorizza (che produce un ritorno economico).
Con l’abolizione del Valore, cosa ci rimane? Forse il valore d’uso? Ma no! Col valore di scambio abbiamo eliminato anche quello d’uso.
È il valore di scambio il limite alla produzione di valore d’uso.
Nel paragrafo 187 (annotazione) Hegel dice che lo spirito conquista l’effettività (diventa tangibile) solo perché esso si sdoppia entro se stesso. Si conferisce limitatezza e finitezza nei bisogni naturali e nel contesto della necessità esterna: appunto per questo lo spirito si forma entro tale limitazione e finitezza, la oltrepassa e, con ciò, guadagna la propria esistenza oggettiva. Il fine della Ragione, di conseguenza, non è quella semplicità naturale di costumi (alla Rousseau), né sono i godimenti in quanto tali che, nello sviluppo della particolarità, verrebbero ottenuti dallo sviluppo della civiltà (come vorrebbe la concezione liberale). Il fine della Ragione è piuttosto quello di eliminare mediante il lavoro la semplicità della Natura, di eliminare cioè l’immediatezza e la singolarità in cui lo spirito è immerso, e di far ottenere a questa esteriorità dello spirito innanzitutto la razionalità di cui essa stessa è capace, cioè di far ottenere a questa esteriorità la forma dell’universalità, l’intellettività.
Solo così, entro questa esteriorità in quanto tale, lo spirito è a casa propria e presso sé. In tal modo, la Libertà dello spirito ha un’esistenza nella stessa esteriorità, e in questo elemento (in sé estraneo – fremden) lo spirito diviene per sé, ha a che fare soltanto con qualcosa che ha impresso il suo sigillo e che è prodotto da esso.
Pertanto, la civiltà è la liberazione e il lavoro della liberazione. Nel soggetto, questa liberazione è il duro lavoro (harte Arbeit) contrapposto alla mera soggettività del comportamento, all’immediatezza del desiderio, come pure alla vanità soggettiva del sentimento e all’arbitrio del capriccio.
Il fatto che si tratti di un lavoro duro, contribuisce in parte al disfavore che ricade sulla civiltà. È però attraverso questo lavoro della civiltà che la stessa volontà soggettiva ottiene entro sé l’oggettività, diviene degna e capace di essere realtà (wirklichkeit) dell’Idea.
Lavorando il mondo si rendono effettive – reali – le proprie potenzialità. Nell’oggetto lavorato e nel duro lavoro trovo e ritrovo me stesso. Nel mondo degli oggetti lavorati sono a casa mia. Mentre per Marx, per il giovane Marx, in questi oggetti, in quanto non mi appartengono, e nel lavoro – il prodotto del lavoro – in quanto non mi appartiene, mi perdo, ci perdo, non sono a casa mia. E l’oggetto stesso, costretto dalla valorizzazione finisce per perdere sia il suo valore di scambio, sia il suo valore d’uso.
Il Sistema dei bisogni
Nel § 190 (Lineamenti) – Il Sistema dei bisogni (System der Bedürfnisse) – l’animale, dice Hegel, ha una cerchia limitata di mezzi e modi per l’appagamento dei suoi bisogni, i quali sono anch’essi limitati.
L’uomo, anche in questa dipendenza, dimostra a un tempo di oltrepassarla, e in tal modo manifesta la propria universalità: ciò avviene in primo luogo mediante la scomposizione e differenziazione del bisogno concreto in singole parti e in singoli lati, i quali divengono diversi bisogni particolarizzati e, quindi, più astratti.
Mentre l’animale vive nell’immediatezza del bisogno e si unisce alla cosa in una prossimità senza pensiero, l’uomo può attendere e non mangiare la cosa, e nell’attesa pensarla. Tale è il suo essere negativo: realizzare la possibilità di negare e, negando, trascendere la propria realtà data, essere più e altro che l’essere meramente vivente.
L’astrazione si costruisce in quanto presa di distanza, in questa azione che prende le distanze dagli oggetti del bisogno. Ogni astrazione è negazione. Ciò che punto nel bisogno e non consumo, diventa un alcunché di così semplice proprio per via di negazione: un oggetto che non è né questo né quello, un non-questo, e che è anche altrettanto indifferente ad essere sia questo che quello, e che si può chiamare un universale.
Nel § 191, Hegel dice che in modo analogo si dividono e moltiplicano i mezzi per i bisogni particolarizzati e, in generale, i modi del loro appagamento, i quali divengono a loro volta fini relativi e bisogni astratti.
Si tratta di una moltiplicazione che procede all’infinito: è il raffinamento.
L’astrazione, che diviene anche una qualità dei bisogni e dei mezzi, diviene anche una determinazione della relazione reciproca tra gli individui.
A questo raffinamento corrispondono dei mezzi di produzione e delle forze produttive che, a loro, volta, si raffinano e specializzano, e questo raffinamento e specializzazione corrisponde a un’astrazione.
Nel § 198 Hegel dice che l’aspetto universale e oggettivo del lavoro consiste poi nell’astrazione che effettua la specificazione dei mezzi e dei bisogni che, con ciò, specifica la produzione e produce la divisione dei lavori.
Grazie alla divisione, il lavoro del singolo diviene più semplice, e, in virtù di ciò, diviene più grande la sua abilità nel lavoro astratto, come pure aumenta la qualità delle sue produzioni.
Al tempo stesso, questa astrazione dell’abilità e del mezzo porta a compimento, come necessità totale, la dipendenza e la relazione reciproca degli uomini in vista dell’appagamento dei restanti bisogni.
L’astrazione della produzione, inoltre, rende il lavoro sempre più meccanico e quindi, in ultima analisi, idoneo a far sì che l’uomo possa ritrarsene e farsi sostituire dalla macchina.
Nel § 199 Hegel riprende la teoria del laissez-faire di Smith. In questa dipendenza reciproca del lavoro e dell’appagamento dei bisogni, dice, l’egoismo soggettivo si trasforma in contributo per l’appagamento dei bisogni di tutti gli altri. Abbiamo qui una doppia partizione. Da una parte abbiamo il soggetto libero della proprietà privata. L’individuo in genere che ha il diritto di perseguire il proprio singolare interesse. Siamo fuori dal regime delle corporazioni e dei servizi di un sistema giuridico precedente a quello borghese. E dall’altra un sistema generale di dipendenza che corrisponde alla divisione sociale del lavoro. Nel § 183 Hegel dice che il fine egoistico, condizionato in tal modo dall’universalità, fonda un sistema di dipendenze onnilaterale: di conseguenza, su ciò si fondano – e soltanto in questo contesto sono reali e garantiti – la sussistenza e il benessere del singolo e la sua esistenza giuridica intrecciata con la sua sussistenza, con il benessere e il diritto di tutti.
Hegel tratta qui un passaggio importante che, seguendo l’economia politica, nel tempo abbiamo imparato a schematizzare nel modello del laissez-faire o della mano invisibile. Gli individui agiscono perseguendo il proprio personale interesse. Non hanno bisogno di entrare in contatto, di parlarsi o toccarsi o volersi bene. Possono perfino avere interessi contrapposti e odiarsi, essere in guerra, ciò non impedisce loro di produrre e scambiare in quanto sono installati in un sistema di proprietà privata.
In quanto cittadini, (Bürger, dunque borghesi, scrive Hegel §187), gli individui sono persone private che hanno per loro fine il proprio interesse. Ma come è possibile per ciascuno seguire il proprio egoismo soggettivo e ricevere dagli altri ciò di cui ha bisogno senza un piano, senza una direzione centrale, senza un coordinamento, senza una comunità di interessi, senza indirizzate l’opera degli altri verso di sé, verso i propri bisogni? Più in generale, come è possibile commisurare l’incommensurabile, pareggiare l’impareggiabile, trovare, nella serie, l’occorrenza che si scambi perfettamente con ciò che abbiamo da offrire? Ciò è possibile, dice Hegel, perché ognuno è una persona, è un cittadino, perché ognuno produce per l’altro, produce per sé in quanto produce l’altro. È sé in quanto è altro. Ognuno in sé è condizionato dall’altro, in un sistema di dipendenza onnilaterale.
Poco più di un secolo e mezzo dopo Milton Friedman descrive la società del laissez-faire in questi stessi termini. Tutti sanno cos’è una matita. Ma nessuna persona singola sa come produrla. Innanzitutto, il legno di cui una matita è fatta proviene da un albero della Carolina del Nord o dall’Oregon. Tagliare e trasportare i tronchi richiede seghe e autocarri e funi e un’infinità di altre attrezzature alla cui fabbricazione concorrono innumerevoli conoscenze e professionalità impiegate nell’estrazione del minerale, nella produzione di acciaio e nella trasformazione in seghe, asce, motori; nella coltivazione di canapa e nella sua trasformazione in funi; negli alloggiamenti dei lavoratori, nella loro sistemazione per mangiare e per dormire, per non parlare delle miglia di persone che stanno dietro ogni tazza di caffè bevuta dai taglialegna. Il legno deve essere tagliato in asticelle spedite in California, dove al legno viene aggiunta la grafite estratta nelle miniere del Ceylon e lavorata nei cilindri che trovano alloggiamento all’interno della matita. Poi viene fissata la ghiera in metallo che tiene la gomma, che non è di gomma, ma di Factice, un composto simile alla gomma realizzato con olio di semi di ravizzone proveniente dall’Indonesia e mischiato con cloruro di zolfo.
Nessuna delle migliaia di persone coinvolte nella produzione della matita, dice Friedman, ha svolto il suo compito perché voleva una matita. E non c’è nessuno che dalla scrivania di un ufficio centrale ha dato l’ordine a queste migliaia di persone. Né un apparato poliziesco ha imposto l’esecuzione degli ordini che non sono stati dati. Questi uomini, dice, vivono in molti paesi, parlano lingue differenti, pratica religioni diverse, possono persino odiarsi reciprocamente, ma nessuna di queste differenze ha impedito loro di cooperare per produrre la matita. Come è potuto accadere? La risposta, dice, l’ha data Adam Smith duecento anni fa.
Il Sistema dei Prezzi, dice Friedman, è il meccanismo che svolge questo compito senza direzione centrale, senza che gli uomini debbano parlare tra di loro o amarsi. Quando compri una matita o il pane, non sai se la matita o il pane sono stati fabbricati da un bianco o da un nero, da un cinese o da indiano. Il sistema dei prezzi permette alla gente di cooperare per un aspetto della loro vita, lasciando che ognuno prosegua le proprie attività per quanto riguarda tutto il resto. Che l’ordine possa emergere come conseguenza non intenzionale delle azioni di molte persone, ognuna spinta su una traiettoria diversa, fu, al tempo di Smith, dice Friedman, fu un’idea sorprendente. Questo sistema funziona e può funzionare, compreso il miracoloso Sistema dei Prezzi, solo e soltanto se ognuno è capace di produrre ferro in quanto valore d’uso, ovvero ferro virtuale che può, all’occorrenza, attualizzarsi in ghiera, in sega, in rotaia, in cilindro, in biella, in piede di porco, in motosega, in ascia, cioè ferro che sta ai suoi usi possibili come il cuore cristiano sta alle persone in carne e ossa – animandole. Il fine di ognuno, dice Hegel (§ 187), è mediato dall’universale, il quale universale si palesa loro quindi come mezzo, ecco che il fine può essere da loro raggiunto solo nella misura in cui gli individui stessi determinano in maniera universale il loro sapere, volere e fare, rendendosi così ciascuno un anello della catena di questo contesto.
Contro la verità del cuore si scaglia Nietzsche nel suo Anticristo. Cristo è ugualmente nel cuore di ognuno – è cosmopolita e democratico. Conquista gli angoli più remoti del mondo e del cuore e tiene tutto sotto la stessa legge, il buono e il cattivo, il forte e il debole, il reietto e il nobile. Non guarda in faccia nessuno. Tutti sono in Dio e tutti sono uguali, non ci sono più amici e nemici. Il mondo non è più ordinato in base a un principio genealogico – di provenienza – di casta, di ordine, di filiazione, eccetera. Dio diventa un uomo privato, per ognuno. E ognuno, purché in possesso di questa moneta e di questo lasciapassare, conta tanto quanto un altro. Le qualità che differenziano l’alto dal basso, il buono dal cattivo, il forte dal debole, il malriuscito dal ben-riuscito sono cancellate.
Sembra di sentire parlare il Marx dei Manoscritti del 44, quando dice (riporto integralmente il brano tanto è lampante e vicino all’invettiva di Nietzsche) che il lavoro astratto cancella tutte le particolarità delle persone reali che creano oggetti d’uso gli uni diversi dagli altri. Il valore che si incarna in ogni merce, come lavoro astratto e valore di scambio, cancella ogni oggetto d’uso particolare, cancella ogni differenza. Come manifestazione dello stesso valore, gli oggetti d’uso incarnano una sola differenza, di carattere quantitativo; una differenza che pone termine alla deriva della serie infinita di rapporti e di contese in cui un oggetto d’uso entra nella pretesa, vana, di definire il suo essere così e così. Nel valore di scambio, che prende corpo nel denaro, ce n’è abbastanza per far nero il bianco, brutto il bello, ingiusto il giusto, volgare il nobile, vecchio il giovane, codardo il coraggioso. Esso allontana i sacerdoti dagli altari; strappa di sotto al capo del forte il guanciale. Questo giallo schiavo (il valore di scambio) unisce e infrange le fedi; benedice i maledetti; rende gradita l’orrida lebbra; onora i ladri e dà loro titoli, riverenze, lode nel consesso dei senatori. È esso che fa risposare la vedova afflitta; colei che l’ospedale e le piaghe ulcerose fanno apparire disgustosa, esso profuma e prepara di nuovo giovane per il giorno d’aprile. Avanti, o dannato metallo (l’oro, il denaro), tu prostituta comune dell’umanità, che rechi la discordia tra i popoli. Tu dolce regicida, o caro divorzio tra padre e figlio, tu splendido profanatore del più puro letto coniugale, tu Marte valoroso, seduttore sempre giovane, fresco, amato, delicato, il cui rossore scioglie la neve consacrata nel grembo di Diana; tu, Dio visibile, che fondi insieme strettamente le cose impossibili, e le costringi a baciarsi! Tu parli in ogni lingua, per ogni intento; o tu pietra di paragone di tutti i cuori; e col tuo valore gettalo in una discordia che tutto confonda in modo che le bestie abbiano l’impero del mondo. Ciò che mediante il valore di scambio incarnato è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò posso comprare, quello sono io stesso. Quanto grande è il potere del valore di scambio incarnato, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del valore di scambio incarnato sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne. E quindi io non sono brutto, perché l’effetto della bruttezza, la sua forza repulsiva, è annullata. Io, considerato come individuo, sono storpio, ma il valore di scambio incarnato mi procura ventiquattro gambe; quindi non sono storpio. Io sono un uomo malvagio, disonesto, senza scrupoli, stupido; ma il valore di scambio incarnato è onorato, e quindi anche il suo possessore. Il valore di scambio incarnato è il bene supremo, e quindi il suo possessore è buono; il valore di scambio incarnato inoltre mi toglie la pena di esser disonesto; e quindi si presume che io sia onesto. Io sono uno stupido, ma il valore di scambio incarnato è la vera intelligenza di tutte le cose; e allora come potrebbe essere stupido chi lo possiede? Inoltre costui potrà sempre comperarsi le persone intelligenti, e chi ha potere sulle persone intelligenti, non è più intelligente delle persone intelligenti? Io che col valore di scambio incarnato ho la facoltà di procurarmi tutto quello a cui il cuore umano aspira, non possiedo forse tutte le umane facoltà? Forse che il mio valore di scambio incarnato non trasforma tutte le mie deficienze nel loro contrario ?
E se il valore di scambio incarnato è il vincolo che mi unisce alla vita umana, che unisce a me la società, che mi collega con la natura e gli uomini, non è il valore di scambio incarnato forse il vincolo di tutti i vincoli? Non può esso sciogliere e stringere ogni vincolo? E quindi non è forse anche il dissolvitore universale? Esso è tanto la vera moneta spicciola quanto il vero cemento, la forza galvano-chimica della società.
Il valore di scambio incarnato è la divinità visibile, la trasformazione di tutte le caratteristiche umane e naturali nel loro contrario, la confusione universale e l’universale rovesciamento delle cose. Esso fonde insieme le cose impossibili. Il valore di scambio incarnato è la meretrice universale, la mezzana universale degli uomini e dei popoli. La confusione e il rovesciamento di tutte le qualità umane e naturali, la fusione delle cose impossibili – la forza divina – sua propria risiede nella sua essenza in quanto è l’essenza estraniata, che espropria e si aliena, dell’uomo come essere generico. Il valore di scambio incarnato è il potere alienato dell’umanità.
Quello che io non posso come uomo, e quindi quello che le mie forze essenziali individuali non possono, lo posso mediante il valore di scambio incarnato. Dunque il valore di scambio incarnato fa di ognuna di queste forze essenziali qualcosa che esso in sé non è, cioè ne fa il suo contrario.
Quando io ho voglia di mangiare oppure voglio servirmi della diligenza perché non sono abbastanza forte per fare il cammino a piedi, il valore di scambio incarnato mi procura tanto il cibo quanto la diligenza, cioè trasforma i miei desideri da entità rappresentate e li traduce dalla loro esistenza pensata, rappresentata, voluta nella loro esistenza sensibile, reale, li traduce dalla rappresentazione nella vita, dall’essere rappresentato nell’essere reale. In quanto è tale mediazione, il valore di scambio incarnato è la forza veramente creatrice.
Già in base a questa determinazione il valore di scambio è dunque l’universale rovesciamento delle individualità, rovesciamento che le capovolge nel loro contrario e alle loro caratteristiche aggiunge caratteristiche che sono in contraddizione con quelle.
Sotto forma della potenza sovvertitrice qui descritta il valore di scambio incarnato si presenta poi anche in opposizione all’individuo e ai vincoli sociali, ecc., che affermano di essere entità per se stesse. Il valore di scambio incarnato muta la fedeltà in infedeltà, l’amore in odio, l’odio in amore, la virtù in vizio, il vizio in virtù, il servo in padrone, il padrone in servo, la stupidità in intelligenza, l’intelligenza in stupidità.
Poiché il valore di scambio incarnato, in quanto è il concetto esistente e in atto del valore, confonde e inverte ogni cosa, è la universale confusione e inversione di tutte le cose, e quindi il mondo rovesciato, la confusione e l’inversione di tutte le qualità naturali ed umane.
Chi può comprare il coraggio, è coraggioso anche se è vile. Siccome il valore di scambio incarnato si scambia non con una determinata qualità, né con una cosa determinata, né con alcuna delle forze essenziali dell’uomo, ma con l’intero mondo oggettivo, umano e naturale, esso quindi, considerato dal punto di vista del suo possessore, scambia le caratteristiche e gli oggetti gli uni con gli altri, anche se si contraddicono a vicenda. È la fusione delle cose impossibili; esso costringe gli oggetti contraddittori a baciarsi. Se presupponi l’uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore, fiducia solo con fiducia, ecc. Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo artisticamente educato; se vuoi esercitare qualche influsso sugli altri uomini, devi essere un uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e sollecitandoli realmente. Ognuno dei tuoi rapporti con l’uomo, e con la natura, dev’essere una manifestazione determinata e corrispondente all’oggetto della tua volontà, della tua vita individuale nella sua realtà. Se tu ami senza suscitare una amorosa corrispondenza, cioè se il tuo amore come amore non produce una corrispondenza d’amore, se nella tua manifestazione vitale di uomo amante non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è un’infelicità.
Se vuoi godere dell’arte devi essere all’altezza, mentre il valore di scambio permette a tutti, anche ai deboli e reietti e insipienti di accedere alle cose alte (abbassandole), eccetera. La differenza con Nietzsche è davvero minima – inesistente.
Questa divinità della decadence, dice Nietzsche, mutilata delle sue virtù e dei suoi istinti virili; divenuta ormai meccanicamente, il Dio dei fisiologicamente regrediti. Se ne andrà frattanto in vagabondaggio in terra straniera: da allora non se ne stette mai quieta in alcun luogo: sinché finì per trovarsi ovunque a casa sua, questo grande cosmopolita – finché ebbe dalla sua parte il gran numero e metà della Terra.
Il Dio del gran numero, questo democratico tra gli dei.
Un Dio che si adatta a tutti, perché chiede a tutti di essere al suo cospetto niente – niente di particolare. Tutti uguali. Tutti sminuiti, tutti ridotti a nulla. In Dio, dice Nietzsche, è divinizzato il nulla, è consacrata la volontà del nulla, è data l’universalità astratta – il questo è: un oggetto generico, senza qualità, solo valore – solo quantità.
Affinché tutto ciò sia possibile, dice Nietzsche; affinché l’amore sia possibile, Dio deve essere persona.
Perché ci deve essere questo passaggio di Dio nel mondo, questa incarnazione, questo suo diventare persona?
Siccome il tempo di lavoro è la misura immanente dei valori, perché avere acanto ad esso un’altra misura esterna? Perché il valore di scambio diviene prezzo? Perché tutte le merci stimano il proprio valore in una merce esclusiva, che in tal modo viene trasformata nell’esistenza esclusiva del valore di scambio, in denaro? Perché questo passaggio?, si chiede Marx. Non basta sapere che ogni merce è lavoro e scambiarla secondo il lavoro che ha richiesto per essere prodotta, come credeva possibile Proudhon?
Questo problema, dice Marx, era il problema che Gray doveva risolvere. E invece di risolverlo, immaginava che le merci potessero riferirsi l’una all’altra direttamente in quanto prodotti del lavoro sociale.
Tutti sono in Dio, certo! Dove sta allora la rivoluzione di Cristo rispetto al vecchio Dio ebraico, il Dio nascosto, invisibile, non percepibile, contrario a ogni feticcio, a ogni vitello d’oro?
Posto dinnanzi al problema dell’essere, il popolo ebraico, dice Nietzsche, ha preferito, con una consapevolezza assolutamente inquietante, l’essere a qualsiasi prezzo: questo prezzo fu la radicale falsificazione di ogni natura, di ogni naturalità, di ogni realtà, dell’intero mondo interiore come di quello esteriore.
Nientificarono le differenze ontiche. Nientificarono l’essere. Essere è Nulla. Crearono un concetto antitetico alla natura. Svalutarono la natura. Nel giudizio «Tutto è», svalutarono tutto – tutto è in Dio: è la trasvalutazione di tutti i valori naturali.
L’ebraismo seppellisce il mondo politeista Greco-Romano. Il mondo delle differenze empiriche, degli Dei passionali e vendicativi, gli uni contro gli altri, e annulla le soggezioni e gli assoggettamenti, le signorie di sangue e di stirpe, le nobiltà e le dinastie: i figli che ereditano dai padri passioni e tradizioni.
Viene detto No a ogni oggetto d’uso, a ogni passione e sentimento, a ogni contatto intimo e a ogni differenza qualitativa. Questo popolo, dice Nietzsche, produsse per il suo istinto un’altra formula, la quale era logica fino all’auto-negazione: essa negò, come cristianesimo, anche l’ultima forma della realtà, il popolo santo, il popolo degli eletti, la stessa realtà ebraica. Per salvarsi, arrivò a negare se stesso.
Con il suo universalismo astratto, globale, mondiale e mondializzante, negò se stesso. Tutto è permesso – anche da qui la scarica di Nietzsche contro Dostoevskij. E poi oltre, con il Protestantesimo, arrivò l’invenzione di una forma di esistenza ancora più astratta,… il cristianesimo nega la chiesa. Fu il NO detto a tutto quanto era ecclesiastico e teologico. Fu una rivolta contro i buoni e i giusti, contro i santi d’Israele, contro la gerarchia della casta, il privilegio, l’ordinamento, la formula; fu l’incredulità negli uomini superiori; il NO detto a tutto quanto era ecclesiastico; fu il no allo splendore rinascimentale della chiesa, alla forza della chiesa, fu il no alla sua mano lunga sul mondo.
Che cosa significa lieta novella? chiede Nietzsche. La vita vera, la vita eterna è trovata, non viene promessa, esiste, è in noi: come vita nell’amore, nell’amore senza detrazioni o esclusioni, senza distanza. Ognuno è figlio di Dio – Gesù non pretende assolutamente nulla per sé solo – ognuno, in quanto figlio di Dio, è uguale all’altro.
Lo Spirito di Dio, spirito che alberga nei nostri cuori, ci solleva dai sensi e dal contatto mondano, dalla differenza che gerarchizza le passioni e i desideri, ci congiunge senza bisogno di una stretta di mano, senza una carezza o un abbraccio.
Con il cristianesimo, dice Nietzsche, conosciamo uno stato di morbosa irritabilità del senso tattile, che rifugge tremando da ogni contatto, da ogni presa degli oggetti solidi … odio istintivo di ogni realtà, come fuga nell’irrefrenabile, nell’inconcepibile, come ripugnanza a ogni formula, a ogni concetto spazio temporale, a tutto ciò che è stabile, costume, istituzione, chiesa, come uno starsene di casa in un mondo in cui non viene più in contatto alcuna specie di realtà, in un mondo meramente interiore, un mondo vero, un mondo eterno – il regno di Dio in noi.
Ma serviva un altro passo avanti. Ancora un passo avanti, dice Nietzsche: la volontà di Dio deve essere conosciuta – a questo scopo è necessaria la rivelazione.
Al cospetto di Dio siamo tutti uguali, tutte le merci sono valori, e tutti siamo delle merci – senza pretese, senza gerarchia, senza differenza. Ma questa uguaglianza deve essere determinata, deve essere conosciuta, ognuno deve sapere che proprio lui e non un altro, lui in carne e ossa, con le qualità e le differenze che lo rendono unico, vale e vale una certa misura. Posta l’uguaglianza universale, bisogna porre la differenza specifica. L’universale astrazione in cui uno è uguale a tutti, deve diventare universalità concreta, in cui uno è uguale a un altro. Si tratta di un passaggio che immette pari pari dalla tradizione greco-romana nella tradizione cristiana e che nel tempo, trascinandosi sino all’altro ieri, dice Hegel, matura in proprietà privata.
Cos’è dunque questa nuova proprietà apparsa l’altro ieri? Non è certamente quella cosa che intende Proudhon. Quel rapporto reificato che articola ogni discorso dell’economia politica tradizionale. La proprietà privata è il diventare concreto di questa negazione assoluta: è la negazione – non l’eliminazione o il consumo – di ogni qualità dell’oggetto d’uso, il suo recedere e ammutolirsi per lasciar parlare il valore di scambio nella lingua dei prezzi.
Non si tratta di un passaggio che può essere cancellato, immaginando che le cose possano procedere in una sorta di comunicazione senza mediazione – diretta – una democrazia diretta, senza alienazione, dunque senza incarnazione, senza passaggio empirico, materiale. Hegel lo chiarisce bene. Non c’è determinazione senza negazione. Non c’è auto-determinazione. Non c’è immediatezza della determinazione, essa passa sempre attraverso l’esperienza e l’esperienza dell’altro.
Dal canto suo, Marx dice a Gray (e a Proudhon): forse un giorno sarà anche possibile considerare il lavoro come immediatamente sociale, e rinunciare alla composizione attraverso l’alienazione nei prezzi. Ma oggi siamo vincolati alla proprietà privata, e gli oggetti d’uso subiscono l’esposizione alla proprietà privata, vengono al mondo come proprietà privata. Considerare il tempo di lavoro contenuto nelle merci come tempo di lavoro immediatamente sociale, significa considerarlo come tempo di lavoro comune, ossia come tempo di lavoro di individui direttamente associati. Così, infatti, dice Marx, una merce specifica come l’oro e l’argento, non potrebbe contrapporsi alle altre merci come incarnazione del lavoro generale, il valore di scambio non diventerebbe prezzo, ma non diventerebbe neanche valore di scambio il valore d’uso, il prodotto non diventerebbe merce, e in tal modo sarebbe eliminata la base della produzione borghese. Ma non è questa l’idea di Gray. Secondo Gray i prodotti dovrebbero essere prodotti come merci, ma non scambiarsi come merci. Gray incarica di questo pio desiderio una banca nazionale. Da un lato la società, nella forma della banca, rende i singoli individui indipendenti dalle condizioni dello scambio privato, e dall’altro fa che essi continuino a produrre sulla base dello scambio privato. Così egli trasforma il capitale in un capitale nazionale, la proprietà fondiaria in proprietà nazionale, e guardando la sua banca un po’ più da vicino, si trova non soltanto che con una mano riceve merci e con l’altra distribuisce i certificati del lavoro consegnato, bensì che essa regola la produzione stessa. Ogni merce è direttamente denaro. Il che significa – in un regime di proprietà privata – che basta produrre per veder realizzato il valore della propria merce. Questa era la teoria di Gray, dice Marx. Ma rimane privilegio del signor Proudhon e della sua scuola di predicare seriamente come nocciolo del socialismo la degradazione del denaro e l’ascensione in cielo della merce e ridurre in tal modo il socialismo a un elementare malinteso circa il necessario nesso tra merce e denaro.
Siccome Proudhon tiene la produzione sotto il rapporto della proprietà privata, deve immaginare l’unione di ciò che è separato come una elevazione in cielo – come una comunione in Dio. Ma la comunione in Dio non è sufficiente. In un regime di proprietà privata la determinazione di quanto una marce vale si realizza per opposizione.
Il borghese, a differenza del lavoratore a servizio o sotto la corporazione, produce in piena autonomia e libertà. La proprietà privata dei mezzi di produzione consente di produrre prescindendo dalla volontà degli altri produttori e consumatori. Per il produttore, il bene prodotto per il mercato non rappresenta niente, se non l’universalità astratta del valore. L’oggetto è prodotto non per il suo uso, per le sue qualità e per le sue facoltà di soddisfare il bisogno di chi lo ha realizzato. In quanto oggetto d’uso il prodotto non vale niente, non è niente. Questa negazione assoluta è il momento di costituzione del valore astratto. Dopodiché, questo prodotto particolare – e non un altro – deve trovare la sua misura per scambiarsi, e la trova proprio nello scambio, ovvero nell’opposizione a tutte le altre merci. Considerarlo come immediatamente scambiabile, per il semplice fatto che è prodotto del lavoro, significa credere che un valore di scambio possa prescindere dal valore d’uso. Ma per realizzare il valore di scambio – per dargli una misura, prim’ancora di venderlo – bisogna accompagnare al mercato l’oggetto d’uso e confrontarlo con altri oggetti d’uso. Solo dal confronto con l’altro si determina la misura del suo valore. Pretendere che questa determinazione si realizzi senza mediazione, significa credere di realizzare il valore di scambio prescindendo dal valore d’uso. È l’illusione del denaro che crea denaro: l’ascensione in cielo, dice Marx. L’idea cioè che una categoria possa generare un oggetto d’uso, che il valore possa figliare oggetti utili, che la quantità possa generare quanti di materia, che la determinazione possa prodursi senza negazione; che l’infinito possa figliare, che l’infinito possa stare da una parte e il finito dall’altra.
Nell’amore si sopporta più che in qualsiasi altra condizione, si tollera tutto, dice Nietzsche. L’amore è l’apertura a tutto. Ma questo tutto è niente. Affinché l’amore sia possibile, che si tolga cioè dall’astratto niente, scrive Nietzsche, Dio deve diventare persona. Occorre, dice, una potenza dispensatrice di valore. Nietzsche, a differenza dei romantici, riconosce la necessità di un Dio. Non c’è immediatezza e contatto immediato: occorre la mediazione di un Dio. Occorre, sillogizzando, passare per il termine medio. Il regno dei cielo è una condizione del cuore – non qualcosa che giunge oltre la terra, o dopo la morte.
Il Regno di Dio non è qualcosa che si ottiene: non ha un ieri e un domani, non giunge tra mille anni – è l’esperienza di un cuore; esiste ovunque e in ogni dove.
Dio è dentro di noi, è ognuno di noi. Il cristianesimo, dice Nietzsche, deve la sua vittoria a questa miserabile adulazione della verità personale. In tal modo esso ha attratto a sé precisamente tutti i falliti, tutti coloro che covano la rivolta, tutti coloro che se la cavano male, l’intera feccia e schiuma dell’umanità. Il veleno della dottrina dei “diritto uguali per tutti” – è stato diffuso dal cristianesimo nel modo più sistematico; procedendo dagli angoli più segreti degli istinti cattivi, il cristianesimo ha fatto una guerra mortale ad ogni senso di venerazione e di distanza tra uomo e uomo, cioè al presupposto di ogni elevazione, di ogni sviluppo della cultura. Con il risentimento delle masse si è fabbricato la sua arma principale contro di noi, contro tutto quanto vi è di nobile, di lieto, di magnanimo sulla terra, contro la nostra felicità sulla terra.
E non sottovalutando la sorte funesta che dal cristianesimo si è insinuata fin nella politica! Nessuno oggi ha più il coraggio di vantare diritti particolari, diritti di supremazia, un sentimento di rispetto dinnanzi a sé e ai suoi pari – un phatos della distanza.
L’aristocraticità del modo di sentire venne scalzata dalle più sotterranee fondamenta mercé questa menzogna dell’uguaglianza delle anime.
Dentro ognuno s’insinua la stessa anima. Non ci sonno differenze che contano, quest’anima rende tutti comparabili, il nobile e il contadino, l’uomo e la donna, il padre e il figlio, scioglie le caste e le corporazioni, scioglie la famiglia patriarcale e il clan familiare, scioglie i vecchi legami comunitari e le combriccole di vicinato, toglie il suolo da sotto i piedi e rende tutti cittadini del mondo, lava il sangue e cauterizza le ferite, liscia, leviga, rende indistinguibili, squaglia i dialetti in una lingua universale. L’aristocrazia, il merito, la capacità, la differenza che innalza o abbassa, la distanza tra amico e nemico, la collera che giustifica la vendetta: l’anima cristiana cancela tutto.