Adorno: lettera agli Anti-Capitalisti

adorno

Le scienze naturali non sono altro che edifici di concetti falsi. Offrono concetti elaborati per ragioni pratiche. Dove la pratica è ridotta alle questioni del mangiare, bere, vestire e abitare, dimenticando che l’uomo non vive di solo pane.

Il loro carattere empirico o pratico è evidente in quelle scienze che si occupano direttamente di classificazione, quali la zoologia, la botanica, la mineralogia, la chimica in quanto enumera specie chimiche, e, sotto questo medesimo aspetto, la fisica. L’universale di ciascuna di queste scienze, dice Croce (Logica), è arbitrario. È posto a discrezione di chi lo impone. Non c’è una distinzione rigorosa tra animale (l’universale della zoologia) e vegetale (l’universale della botanica) – e nemmeno, dice, tra il vivente e il non vivente, tra l’organico e il materiale. Perfino la cellula – il sommo concetto della scienza biologica – si differenzia dai fatti chimici per aspetti meramente esteriori, per caratteri empirici.

Non solo queste scienze, dice Croce, sono in balia delle infinite e individuali forme del reale, come è il caso della zoologia, che dei 15 milioni di specie (stimate) si limita a studiarne solo 400 mila; esse devono cedere anche al fatto che le specie (molte o poche che siano) fluiscono l’una nell’altra, per l’innegabile esistenza di forme intermedie graduali, anzi continue, che rendono evidente l’arbitrarietà del taglio netto che si compie quando si distacca il lupo dal cane o la pantera dal leopardo.
Alla catalogazione, momento propedeutico, può esser perdonato un certo arbitrio – bisogna pur esser pratici, se si vuol mangiare, dice Croce. Quando invece si passa alle leggi scientifiche vere e proprie la musica dovrebbe cambiare, e l’arbitrio lasciare il posto alla necessità e alla verità. Ma così non è, dice Croce. Perché la legge scientifica è la stessa cosa della catalogazione e della descrizione empiriche. In filosofia, dice, la legge è concetto puro, nelle scienze è concetto empirico: la legge del lupo è il concetto empirico di lupo. Così, dice, posto il concetto dell’acqua, H2O, e dati nella realtà tanto ossigeno e il doppio di idrogeno, e sottoposti i due corpi alle altre condizioni stabilite dalla chimica, è da concludere che si vedrà apparire acqua. Tutte le leggi scientifiche sono di questa natura. Sono in tutto simili alle catalogazioni e alle descrizioni, e devono, come quelle, supporre una costanza e uniformità della natura e della materia. Ma in natura non c’è nulla di costante e uniforme, tutto si muove e si trasforma, e ciò che si postula come costante e uniforme è nient’altro che la stessa opportunità pratica che delibera di trascurare le differenze e considerare uniforme il difforme e costante il mutevole. Il postulato dell’uniformità, dice Croce, è la richiesta di trattare e manipolare la realtà e la natura per ragioni di comodo – per mangiare, appunto!

S’insinua qui già il sospetto che la scienza, le mani in pasta, manipoli la realtà, traffichi con le cose, abbia qualche losco interesse.

Le leggi della natura, così mal poste, dice Croce; le cosiddette leggi inesorabili della natura, sono leggi che a ogni attimo vengono violate. Viceversa, le leggi filosofiche sono quelle che in ogni attimo vengono osservate. Ora, se le leggi della natura, le leggi del mio essere individuale, del mio temperamento, delle mie abitudini, delle mie forze, ossia, dice, le leggi del mio passato, mi permettono di prevedere il futuro e di prendere decisioni, se mi dicono che dopo cinque minuti un uovo è sodo, perché nel passato ho sperimentato che in cinque minuti un uovo è cotto, non bisogna dimenticare che le leggi che permettono queste previsioni sono basate su concetti empirici, cioè su schemi mnemonici, desunti da giudizi storici. Che siano utili, dice Croce, non lo si mette in dubbio. Anzi, quel che qui sostegno, dice, è appunto che sono utili, e, perché utili, non vere.

Che cos’è dunque questa natura?, chiede Croce. In primo luogo Natura designa il momento materiale, il momento opposto a quello spirituale, il momento meccanico opposto a quello teleologico. Nel passaggio dello spirito da una forma all’altra, nel suo travaglio, la materia è la zavorra e l’impaccio dello spirito. Senza questo travaglio lo spirito non passerebbe da una forma all’altra, non nascerebbe a nuova vita. La natura è betoniera e calce, meccanismo e materia prima.

In questo significato non vi è scienza della natura distinguibile da quella dello spirito, la quale è scienza di se stesso e del suo opposto. Così intesa, la natura non è l’opposto dello spirito, ma qualcosa di distinto. L’uomo si fa natura a ogni istante, dice Croce. Perché a ogni istante passa dal sapere al fare e dal volere e fare ripassa al sapere, il quale diventa la base per una nuova volontà e azione. In questo ulteriore significato la scienza della natura è scienza della volontà, filosofia della prassi. Ma con tutto ciò, con la scienza della prassi, dice Croce, niente hanno a che fare le scienze naturali. Le quali si occupano delle transizioni meccaniche, mentre quella si occupa della creazione pratica, che è reale solo in quanto diviene anch’essa oggetto del sapere. La natura non esiste. La materia non esiste.

Una volta dissolto il fascino delle scienze naturali, con ciò la filosofia non dissolve queste scienze che lo avevano prodotto, e non le dissolve perché, al filosofo, abbandonato lo studio e la meditazione, nulla vieta di scendere in giardino a innaffiare e potare le piante e adoperarsi da naturalista. Le scienze naturali persisteranno sempre accanto alla filosofia, non come scienze propedeutiche, di ciò la filosofia non ha bisogno, ma come scienze che rendono servizi non surrogabili, rendono possibile ordinare i libri e i quadri nei musei, aiutano a distinguere le sensazioni dalle intuizioni, le cellule dagli atomi, la gravità dall’inerzia, le percezioni della immaginazioni, la psicologia degli animali da quella dei fanciulli, il reddito dal patrimonio, la proprietà dal possesso, la canzonetta pop dalla canzone impegnata, la barzelletta dalla satira barzellettante, l’artista ben vestito dall’artista improvvisato. Il filosofo, dice Croce, espelle tutti questi schemi dalla filosofia, come elementi intrusi, che generano processi patologici. Ma quello stesso filosofo, in quanto uomo intero e di mondo, in quanto provvede al governo della casa e all’economia e al leggero e facile comunicare con i suoi simili, deve pur foggiare l’empirico e valersene, e dopo aver distinto sensazione e angoscia, narcisismo e nevrosi, reddito e capitale, epico e tragico, famiglia e monogamia, il cane e il lupo, deve pure parlare, deve fare di conto, discettare di famiglie così e così costituite, di gender, di woke, della specie cane come se si distinguesse nettamente dalla specie lupo, dell’acqua cruda e dell’acqua in bottiglia, della CO2 e della temperatura degli oceani, e di quanto anacronistica è questa lista.

Sull’altro versante, quello che più sembra scostarsi dall’ordinario empirico e librarsi nelle sfere sottili e astratte, dove la verità dovrebbe scaturire dalla precisione, imperiosa sta la matematica. Di essa Croce dice che, in quanto matematica, non conosce, ma stabilisce solo formule di uguaglianza, e non serve a conoscere, ma a contare e a calcolare il già conosciuto. E che per calcolare ha bisogno della serie numerica, la quale, muovendo dall’unità, si ottiene aggiungendo sempre un’unità al numero precedente. Ma nella realtà, dice, non c’è niente, nessuna cosa, che possa fungere da capo-serie, e nessuna cosa è staccabile dall’altra tale da generare una serie discontinua. E se la matematica abbandona il discontinuo per il continuo, essa esce da se stessa, perché abbandona la quantità per la qualità, e se resta, come deve, nel discontinuo, pone alcunché d’irreale e impensabile, perché la realtà è continua, l’uno continua nell’altro, senza soluzione. Ecco perché, conclude Croce, la matematica si compone di pseudo-concetti, concetti astratti, vuoti di verità e vuoti di rappresentazione. Se ai concetti empirici tocca la concretezza senza universalità, cioè la mera generalità, ai concetti astratti tocca l’universalità senza concretezza. Se gli uni sono pieni e muti, gli altri sono sonori e vuoti.

La matematica, come le scienze positive in genere, serve come sussidio alla memoria, serve a richiamare serie di rappresentazioni, raggruppate in concetti empirici e rese in questo modo omogenee. La matematica serve a costruisce strumenti per contare e calcolare, e per compiere quella sorta di finta sintesi a priori, che è la numerazione degli oggetti singoli. Essa presuppone elementi distinti perfettamente identici. Quando si vuole porre l’ideale di una scienza matematica della natura, dice Croce, si è costretti ad assume come punto di partenza elementi distinti ma perfettamente identici, e perciò impensabili: quantità senza qualità, che sono nient’altro che le finzioni matematiche. Affonda nella realtà, credendo che questa sia senza mutamento e dunque senza storia, e se viene usata e applicata è perché, come le altre, è utile. Dei granelli di sabbia che calpestiamo possono essere considerati (e non lo sono) uguali tra loro, più difficilmente ci giova fare il medesimo conto per gli uomini che sono nostri prossimi amici e avversari.

Così separati, e fatte le dovute pulci, questi due momenti diventano facile bersaglio della derisione e dell’attacco dei più raffinati pensatori europei dell’inizio del Novecento. L’animosità contro l’intelletto distruttore, dice Adorno (Dialettica negativa, 80), si unisce a quella contro il cosalmente alienato. Si scaccia il contenuto perché meramente empirico. Si condanna il lavoro del concetto come storia di una decadenza (109). Il giovane Lukacs e il giovane Heidegger da sempre si sono rafforzati a vicenda.

Si condanna l’alienazione o estraneazione, la perdita nelle cose, il diventare materia, relitto, derelitto, cosa tra le cose, cosa che trae il senso da ciò che sta intorno, da fuori, dal forestiero. Una condanna che èdesiderio di controllo, di rimanere attaccati al suolo, alla patria, che è paura di scindersi o vedersi scissi, di perdersi nel mare delle cose.

La paura di perdere il potere e il controllo fa immaginare e difendere un infinito conchiuso, senza nulla all’esterno, senza estranei e alieni, che diventa unità mitica, nostalgia di un passato remoto che si perde nella notte dei tempi.

Si vuole il libero, il non asservito a qualche interesse, all’industria o alla scienza. L’anti-illuminismo si salda all’anti-capitalismo. Il sapere è corrotto dall’interesse e dal denaro, dagli affari. Elettrificazione + Soviet non fanno un sovrano.

Il cosale, dice Adorno (170), è materialmente cattivo.

Si vorrebbe dinamizzare in pura attualità tutto ciò che è, e appiattire ogni virtualità, ogni aspirazione e ogni trascendenza sul presente. Ma ciò, dice Adorno, tende all’ostilità verso l’altro, l’estraneo [Fremder], il cui nome non a caso echeggia nel termine alienazione [Entfremdung].

La fine dell’alienazione e del sapere corrotto porterebbe a un’umanità conciliata. Ma l’assoluta dinamica sarebbe quel gesto che si soddisfa violentemente in se stesso e abusa del non identico come sua mera occasione.

Da una parte Husserl, e il suo odio per la psicologia, in verità la paura che essa ritorni nei suoi teoremi, come lapsus, come incubo, come spinta, come deviazione. La sua supposizione (illusoria, dice Adorno) della forma assoluta, cioè che il pensiero possa scrollarsi di dosso quel contenuto materiale grazie alla forma dell’assolutamente. Sullo stesso versante, al polo soggettivo, dice Adorno, a braccetto, il concetto puro, funzione del pensare. Il proton eidos dell’idealismo a partire da Fichte, il quale ritiene che nel movimento dell’astrazione ci si liberi di ciò da cui si astrae – dalla zavorra del corpo materiale. Il corpo, dice Adorno, viene sì espulso dal pensiero, bandito dal suo dominio originario, ma non annientato: crederlo è magico [magia, o regresso al mito, significa per Adorno, giungere alla convinzione che sensibile e sovrasensibile possono unirsi o che in un tempo remotissimo siano stati uniti]. Senza pensato il pensare contraddirebbe già al proprio concetto, e questo pensato accenna anticipatamente all’essente.

Da una parte dunque si inalbera il concetto puro, che rifugge da ogni contatto con l’empirico, perché l’empirico è putrefazione, interesse, utilitarismo, decadenza, morte. La ricerca della libertà e dell’autodeterminazione sovrana è distanza dal mondo, ritiro o rifiuto del mondo, eremitismo e tebaide, ascetismo e rinuncia, astinenza, digiuno.

Dall’altra ci si appiattisce sull’empirico. Che cos’è il sovrasensibile, il trascendente? È un aldilà al quale immolare la propria differenza. Un ideale di bellezza, un ideale di uomo. L’uomo bianco – un ideale di razionalità –, la logica fisico-matematica, eccetera, sono un dover essere, uno scopo a cui sacrificare la propria esistenza e differenza, la propria unicità – un sacrificio che restituisce cosa?, se non un esemplare uscito da uno stampo col quale si vuol plasmare l’intera umanità. Che cos’è l’ideale se non il necessario e vero, cioè ciò che non può essere altrimenti, che non ha possibilità, il morto, per il quale le possibilità coincidono con l’attualità – un giorno senza notte, un tempo senza tempo. La verità ideale è ciò che non muta, che vale per ciascun membro e in ogni circostanza, e ciò che, una volta accettata, preme e schiaccia in una formina, in un cliché, in uno stampo. È il totale, il genere, la sostanza, la verità che prevale sull’individuo. Il sistema hegeliano sembrava aver superato la separazione tra sensibile e intelligibile, tra Terra e Cielo, tra necessario e contingente, come se in esso le parole e le cose celebrassero la loro riunione. Ma si trattava dell’estrema violenza del pensiero, della sua tirannia assoluta, del suo dominio esclusivo, del trionfo dello spirito e, con esso, del trionfo della filosofia. Gli hegeliani – gli uomini spirituali – si sono messi in testa qualcosa che deve essere realizzato. Essi hanno concetti dell’amore, del bene, del genere, della lingua, del parlare correttamente e scorrettamente, del vestire, del mangiare bene, del curarsi, dello stare a casa confinati o dell’uscire a passeggio con il cane, del fitness, della salute e del salutismo, del come curarsi, di cosa sia stare bene e di cosa sia stare male, di come parlare e di quando parlare, hanno un’idea degli aggettivi corretti e degli aggettivi scorretti, di come si cammina e si ancheggiare e di come è disdicevole fischiettare al passaggio di un fimminiello, hanno una ricetta per stare sopra e una per stare sotto, per il coito corretto e per quello scorretto, per la spesa intelligente e per la spesa insostenibile, per il consumo di acqua in bottiglia, di assorbenti, di cotton fioc, per l’uso della paperella nei bagnetti delle bambine, per il gloss alla prugna, per l’andare a piedi e il camminare nei boschi, per le vacanze in salotto a km zero, per l’amicizia, per l’umanità purché sia una e plurima, hanno un concetto per ogni cosa, una definizione per ogni cosa, un nome unico, un’etichetta, una prigione semantica, eccetera, e li vorrebbero veder realizzati. Per questo vogliono costruire sulla Terra un regno dell’amore, in cui nessuno agisca più per interesse personale, ma tutti, invece, «per amore», per amore del prossimo, per amore della terra, per amore dell’amicizia, per amore dello Stato o dell’Occidente, eccetera. Essi vogliono – pensate un po’ la violenza assoluta del progetto! – fare di ogni individuo una persona, di ogni persona un’ape operaia, di ogni diverso un valore, di ogni differenza un bene. Vogliono portare sulla Terra il regno dei Cieli. L’uguaglianza, la giustizia, l’amore devono regnare – devono dominarci. L’uomo – l’ideale -, qui è Stirner che parla, deve venire edificato in noi, anche se noi, poveri diavoli, dovessimo perirne, secondo il famoso fiat justitia, pereat mundus. E invece, l’uomo e la giustizia sono idee, fantasmi, bugie, per amore delle quali si sacrifica tutto: per questo gli spiriti bigotti sono «pronti a sacrificarsi», a farsi inoculare la sostanza che appiattisce – una dose per ognuno, una dose per tutti, e in fondo a ogni cuore la stessa sostanza – la morte della razza. Io non sono il mio corpo e la mia carne, io sono spirito, e la carne e il corpo sono ciò che deve essere abbandonato – sacrificato – per elevarsi alla perfezione spirituale dell’idea. L’uomo è un’idea – la giustizia è un’idea.

Da una parte Husserl, dall’altra Stirner.

La concezione kantiana, dice Adorno, permetteva ancora dicotomie come forma e contenuto, soggetto e oggetto, senza che la disturbasse la reciproca mediatezza dei due elementi contrapposti; non ne notava l’essenza dialettica, la contraddizione quale implicata dal loro senso.

Soltanto il maestro di Heidegger, Husserl, dice Adorno, ha poi totalmente acuito l’idea di apriorità, e ha ribadito che in ogni sentire risiede un valutare, e che è tutto e solo un valutare, e che se si è capito questo, allora scompare anche il pregiudizio, secondo cui il sentimento non conterrebbe alcuna particolare legge di ragione né sarebbe in grado di documentarne da sé l’esistenza, il pregiudizio secondo cui, anzi, qualcosa del genere dovrebbe essere assurdo (Introduzione all’etica, p. 177). E non deve stupire affatto che oggi, tutti quelli che si richiamano a Fichte, sono gli stessi che hanno il terrore dell’invasione, della degenerazione. Attaccati al suolo, si identificano col suolo, con la patria, con la terra e con i contadini, la nazione, con i vaccari, eccetera. Si intestano l’anti-capitalismo e con parole prese a prestito da Marx parlano (a vanvera) di esercito industriale di riserva quando vedono un legno approdare sulle coste crotonesi. Un anti-capitalismo tisana e propoli, oroscopo e Yoga, Tai Chi e Sashimi, Budda e Sai Babba, Ayurvèda e Vegano, Agopuntura e Digiuno.

Il fardello della Teoria Critica è pesante. Essa combatte su due fronti.

Quando Husserl, il razionalista, attacca l’empirismo, Adorno non può dargli torto: in ogni sentire risiede un valutare, certo. Ma quando Husserl ripete che in ogni relativismo risiede un assoluto, Adorno non può non ritenere questa critica (giusta) miserabile, e considerare più fruttuoso riconoscere il relativismo come una forma limitata della coscienza (32). Una forma limitata dalle coscienza dell’individualismo borghese, la quale attribuisce alle opinioni dei singoli individui lo stesso diritto, come se non ci fosse un criterio della loro verità. Ognuno, in quanto individuo, ha il diritto di dire e fare ciò che più gli garba. Dietro questo modo di fare borghese, dice Adorno, si cela il disprezzo della verità e del sovrasensibile, l’accecamento rispetto al momento sovra-individuale, tramite il quale soltanto la coscienza individuale diventa pensiero. Dietro questo modo di fare, dice, si cela il disprezzo dello spirito a favore del predominio dei rapporti materiali come unica cosa che conti. Il relativismo è materialismo volgare – il pensiero disturba il guadagno. Relativo è il prezzo sul mercato. Il disprezzo colpisce sempre il contenuto – il valore d’uso. Relativo è il fatto che ognuno agisce secondo il criterio individualistico della proprietà privata – occultando completamente il momento sociale della divisione del lavoro. Divisione all’interno della fabbrica, e divisione nella società e nel mondo, quindi occulta la collaborazione. In secondo luogo, mentre ognuno produce e consuma agendo individualmente, come se il mondo iniziasse e finisse con lui, in un tripudio sovranista e libertario, tutti restano legati alla catena del valore, e tutto si converte in prezzi e la composizione è arbitrio e violenza bruta – anche guerra: mano che colpisce brutalmente, più che mano invisibile. Il relativismo occulta questo: non c’è scambio senza universale, non c’è sensualismo materialista e consumista senza il momento sovrasensibile, senza la società.

La presunta relatività sociale delle idee, dice Adorno, obbedisce alla legge oggettiva della produzione sociale sulla base della proprietà privata dei mezzi di produzione. La scepsi borghese – incarnata dal relativismo come dottrina – è ottusa.

Il compito della Teoria Critica è arduo. Deve attaccare Empirismo e Razionalismo insieme, e insieme, difenderli da se stessi. Deve riconoscere ciò che di buono e di vero c’è in Husserl e in Heidegger e in Lukács e poi sdraiarli.

Dal XVII secolo la grande filosofia, dice Adorno (191), ha definito come suo interesse più specifico la libertà, con il mandato implicito della classe borghese di fondarla in modo evidente. Il concetto di libertà – autonomia e sovranità, auto-fondazione del soggetto – si sviluppa parallelamente alla proprietà privata.

La libertà, dice Adorno, viene ceduta alla razionalità, che la limita e allontana dall’empiria, in cui non la si vuole affatto vederla realizzata. Il compito di trattare le cose del mondo, i fatti empirici, viene appaltato alla scienza positiva. L’empiria non può essere allontanata, deve essere subordinata, in quanto favorisce la produzione.

Non appena la questione della libertà della volontà si riduce a quella della decisione del singoli, separando i singoli dal loro contesto, separandoli dalla società, essa obbedisce all’inganno di un puro essere in sé assoluto.

Già in Kant e poi negli idealisti, dice Adorno (192), l’idea della libertà si presenta contrapposta alla ricerca specializzata, specialmente psicologica. I suoi oggetti vengono relegati da Kant nel regno dell’illibertà, la scienza positiva deve essere relegata al di sotto della speculazione. La decisa condanna romantica della scienza è un risultato del capitalismo.

Il compito di Adorno dunque non è facile. Ciò rende difficile la lettura della Dialettica negativa. Da un lato Adorno deve spiegare come emerge l’episteme moderna – e non lo fa nel modo facile di Heidegger. L’epoca dell’immagine del mondo riprende e rilancia l’accusa contro le scienza. Heidegger dice, Vedete, le nuove discipline scientifiche – la fisica, la storia – sono poste a disposizione dell’utile. In esse l’esperimento è guidato dalla legge ipotizzata e mira al reperimento di fatti che verifichino tale legge o ne neghino la verifica. Il singolare, il raro, il semplice, insomma il grande nella storia, non è mai ovvio e resta pertanto inspiegabile. L’indagine storiografica non nega il grande nella storia, ma lo spiega come l’eccezionale. In questa spiegazione il grande viene commisurato all’abituale e al medio. La scienza decide degli uomini e delle cose del mondo sia calcolandone in anticipo il corso futuro, sia calcolandone il corso passato. Nel primo caso è posta (installata, gestelt) la natura, nel secondo, la storia. L’uomo e la natura non sono più qualcosa di autonomo, sono una riserva di materiali utili, materie prime: energia, minerali, campi, forza-lavoro, ecc. Solo ciò che è così posto come materia prima è, ha un valore, ha un senso. Al di fuori del processo di valorizzazione e della catena del valore l’oggetto stesso (il valore d’uso) è niente – non ha valore. La valorizzazione richiede il progetto, e il progetto la legge, e la legge il soggetto, la certezza della legge, la sua sovranità. La legge deve essere necessaria e universale. Ciò, dice Heidegger, si realizza nel mondo moderno, mediante la sdivinizzazione. Essa è il processo attraverso cui l’immagine del mondo si cristianizza, ponendo a base del mondo l’infinito, l’incondizionato, l’assoluto. È fuori di dubbio che il cristianesimo, liberando l’individuo, ha fatto trionfare il soggettivismo e l’individualismo. Ma, dice, il decisivo non è che l’uomo si è emancipato dai ceppi precedenti, ma che l’essenza stessa dell’uomo subisce una trasformazione col costituirsi dell’uomo a soggetto. Il cuore della scienza è il soggetto. Esso, dice Heidegger, non ha alcun riferimento all’io e all’uomo empirici. Come in Cartesio e in Kant il soggetto è ciò che è primo rispetto al mondo empirico, è ciò in cui quest’ultimo trova la sua verità. La verità del mondo è nel soggetto che lo pone, che lo progetta, che lo produce. Nel mondo medievale le cose e gli esseri erano ens creatum, erano il frutto dell’azione creatrice di Dio inteso come causa prima e suprema. Il valore di ogni cosa era commisurato all’appartenenza all’ordine del creato, e corrispondere, come causato, alla causa creatrice, a Dio. In nessun caso, dice Heidegger, il valore era posto dall’uomo, era ricondotto all’uomo, alla sua forza inventiva e alla sua forza-lavoro. La rappresentazione moderna è ancora più lontana da quella del mondo greco, dove gli oggetti e gli esseri si schiudevano da sé, senza causa, senza sostegno, senza appoggio, senza differenza. Solo con Platone il valore degli esseri diventa idea, e gli esseri si apprestano a diventare oggetti e a trovare nel soggetto il principio di ogni misura. Solo ora gli esseri si dividono in oggetti e soggetti, e questi ultimi si pensano come individui, e nasce l’individualismo, o si pensano come società, collettività o comunità e nasce il comunismo. Il soggetto è il produttore e gli esseri sono i prodotti, valgono, se valgono, solo in quanto prodotti dell’uomo. In questa impresa il soggetto pone in gioco la potenza illimitata dei suoi calcoli, della pianificazione e del controllo di tutte le cose. La scienza, dice, è una forma indispensabile di questo signoraggio sul mondo.

Il compito di Adorno è difficile. Mentre Heidegger, trovando la tavola apparecchiata, a un capo le scienze positive e all’altro i trafficoni idealisti, si scaglia contro i primi facendoli a pezzi, e deride i secondi in quanto tengono accesa la fiammella che fa sentire ancora vivi e partecipi della storia i primi, e nella sua furia dileguante vorrebbe fare del mondo un cumulo di teste mozzate, senza compromessi, senza mediazione, uno sterminio generalizzato, senza guardare in faccia nessuno, un 93 ancora più terrificante, mentre sogna di un passato in cui le cose si palesavano senza intermediari – si presentavano da sé, per proprio conto, ponevano la propria legge, sovranamente, o per mano di un sovrano o di un Dio che poneva la cosa nella sua dimora e sul suo suolo natio nascondendo la mano, dava senza essere saputo e veduto, facendo abuso di quell’idea di infinito, ereditata dall’idealismo e rovinata più di ogni altra, a alla quale non si riesce a rinunciare. Vedete, dice, tutta questa grazia è stata ridotta a niente. Siamo gettati sul suolo da cosa? Dobbiamo dire grazie al trattore? – al trattore!, all’epoca non c’era chatGPT e l’auto elettrica. Siamo stati sradicati dalla forza motrice che si impianta [il gestell] e incorpora i fiumi e la terra facendoli diventare protesi della macchina. La natura è violata, il velo è tolto, eccetera.

Per Adorno il compito è più difficile. Non può – con Marx – non riconoscere il ruolo di demistificazione della scienza e l’apporto della tecnica nel sollevare le genti dalla miseria e dalla fame. Non sputa, come Heidegger, nel piatto dove mangia, e non gli è difficile riconosce che i contadini, tanto osannati da Heidegger, vivono dei sussidi alla produzione, dei contributi governativi trasferiti all’agricoltura proprio dall’industria e dal gestell. Come Heidegger, fa notare che nel XVII secolo si apre un nuovo quadro. E che la scienza, alleata del capitalismo, sfrutta e devasta ciò che tocca, e lo fa condannando ciò che l’alimenta: l’uomo e la tecnica. Dunque, la libertà borghese è sempre una libertà che si esprime nella presa di distanza dal mondo, in un’idea di sovranità e purezza, la purezza della decisione e del performativo, contrapposta alla impurità della scienza e della ricerca specializzata, specialmente psicologica – vedi gli attacchi di Husserl alla psicologia empirica e il silenzio di Heidegger sulla psicanalisi. Il capitalismo, la pretesa del capitalismo, è liberarsi, alla fine del ciclo, di quella materia, di quella scienza, di quella forza lavoro utilizzate per ottenere più denaro. Quel che si vuol far credere è che il denaro viene dal denaro, che denaro è uguale a denaro, e che il suo avverarsi in quanto capitale non implica il suo altro, il lato empirico, materiale. Oltre il romanticismo, che si sentì come dolore del mondo, sofferenza per l’alienazione, dice Adorno, si eleva l’espressione di Eichendor «bella estraneità».

Sul versante empirico Adorno deve sostenere le ragioni del trascendentale. A chi propone un’assoluta dinamica [attualità senza virtualità], deve far notare che si tratta di un gesto che si soddisfa violentemente in se stesso e abusa del non identico come sua mera occasione. L’illusione di possedere immediatamente il molteplice, si capovolgerebbe in mitologia, come aggressione mimetica, nell’orrore del diverso. Se venisse negato astrattamente il principio, dice Adorno; se si propagasse come ideale che, in onore dell’irriducibilmente qualitativo, non si scambi più uguale con uguale, sarebbe una scusa per la ricaduta nel torto antico. Infatti, dice, lo scambio di equivalenti consistette sin dall’inizio nel fatto che in suo nome venivano scambiati elementi diseguali, e approvato il plusvalore del lavoro. Se si annulla semplicemente la categoria di misura della comperabilità, emergerebbe al posto della razionalità, che inerisce al principio di scambio, ideologicamente ma anche come premessa, l’appropriazione immediata, la violenza, e oggi il mondo del privilegio dei monopoli e delle cricche (141).

L’essente singolare, dice Adorno (146), giunge a sé soltanto nel suo estraniamento, non nel suo indurimento; questo si può ancora imparare da Hegel, senza far concessioni ai momenti regressivi della sua dottrina dell’estraneazione. La possibilità di penetrare nell’interno richiede quell’elemento esteriore. L’esistenzialismo, vuole contrapporre l’esistenza alla scienza specializzata alienata. Per paura della reificazione recedono dal contenuto. Cadono nell’idealismo. Il pensiero così purgato da ogni elemento di contenuto non è superiore alla scienza specializzata senza concetto. Il pensiero non può conquistare nessuna posizione in cui quella divisione soggetto e oggetto scompaia immediatamente, che esiste in qualunque pensiero, nel pensare stesso.

La filosofia esige oggi, come ai tempi di Kant, critica della ragione per mezzo della ragione, non la sua messa al bando o eliminazione. Con il divieto di pensare, il pensiero sanziona ciò che meramente è. Lo stato conciliato non ammetterebbe l’estraneo, bensì sarebbe felice che resti nella vicinanza assicurata il distante, il diverso, al di là dell’eterogeneo e del proprio.

L’accusa instancabile di reificazione si chiude a tale dialettica (167). È vero che l’immediatezza. pone un freno all’idolatria della deduzione. E tuttavia il dato nella sua forma misera e cieca non è oggettività, bensì solo il valore-limite che il soggetto non riesce del tutto a controllare entro il proprio ambito, dopo aver sequestrato l’oggetto concreto. C’è una resistenza della materia al recupero sillogizzante, il capitale investito può non ritornare, il recupero dell’investimento è possibile, non certo, l’abbraccio è possibile, ma non sicuro.

L’esaltata inseparazione di esistenza ed essenza diventa così – per darle il nome preciso, dice Adorno – ciò che essa è, cecità della connessione naturale, fatalità dell’incantamento, assoluta negazione della trascendenza che tremola quando si parla di essere (107).

Heidegger deve condannare il lavoro critico del concetto come storia di una decadenza. Heidegger è anti-intellettualistico per coazione al sistema. Egli tende la mano al mito, dove tutto può essere e significare tutto (106).

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