Negli ultimi 25 anni, tutti i Governi che si sono succeduti con l’intenzione di diminuire il gap tra il mondo del lavoro e i sistemi formativi, hanno creato un groviglio legislativo là dove è davvero difficile districarsi.
In questo contesto, la prima domanda che mi viene in mente è: “La Riforma dei percorsi tecnico-professionali del 4+2 è necessaria o si aggiunge confusione alla confusione?”
A me sembra che continuiamo a muoverci nell’ottica di quell’aforisma francese che recita: “plus ça change, plus c’est la même choose!“. ci troviamo di fronte al paradosso: cambiar tutto per non cambiar niente!
Qual è la ratio della Legge 121/24 e soprattutto a cosa mira?
L’impianto del disegno di legge, approvato pochi mesi fa, sulla scia del DL 144/22 convertito nella Legge 175/22, si presenta con l’aria ballerina della sperimentazione, salvo poi fare pressioni sulle singole scuole affinché il percorso quadriennale venga adottato.
La proposta è, per certi aspetti, allettante per gli alunni, i quali sono implicitamente attirati dalla riduzione del percorso, pertanto le singole scuole, sulle quali pesa, come un macigno sul collo, la legge del dimensionamento, un “congegno” che innesca una sorta di spirale competitiva, specialmente tra gli Istituti tecnici e professionali, si vedono costrette ad aderire alla sperimentazione, pur di mantenere un determinato numero di alunni.
Non sarebbe un dramma, se la riduzione del tempo scuola avesse come motore la riorganizzazione dei saperi, in relazione ai cambiamenti intervenuti nell’ambiente circostante, provando a dare una risposta alla crisi sociale, economica e politica in cui siamo piombati ormai da decenni. No! In questa proposta non ci sono spiragli critici sulla possibile caducità dell’intero impianto normativo, non ci sono dubbi sul dove si vuole andare a parare e non vede la crisi che avvolge la stessa scuola.
Si sostiene espressamente, rimanendo nel solco degli interventi legislativi dell’ultimo quarto di secolo, che la filiera tecnico-professionale non è conforme alle richieste e alle aspettative delle imprese. Quindi, stage, tirocini e, in generale, l’insieme delle attività di PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento) non corrispondono agli standard produttivi delle aziende.
Infatti, i management aziendali accusano il sistema formativo di non essere in grado di fornire “forza lavoro pronta”, per esplicare le mansioni e le qualifiche di cui necessitano. Sembra che a nulla valgano i mille sforzi degli Istituti scolastici di attivare didattiche laboratoriali e di adeguarle al mondo del lavoro. Non c’è via di scampo e il sistema formativo è sotto scacco.
Accorciare il tempo scuola significa allungare il tempo di lavoro ed aver lavoratori pronti per l’uso denota la riduzione dei costi di avviamento, i quali diventano prossimi allo zero. Perdipiù, attualmente, nella stragrande maggioranza dei casi, l’accesso alla produzione prende forma mediante stage, tirocini e contratti di apprendistato, ossia tutte forme di riduzioni consistenti del salario di ingresso.
Dunque, il tentativo di porre in essere la riforma dei percorsi tecnico-professionali, per la ratio da cui essa promana e che sto cercando di descrivere, mette in evidenza due aspetti essenziali:
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Nel primo si evince il rafforzamento della linea di demarcazione tra u percorsi liceali e quelli tecnico-professionali, dando valore alla tesi che gli studenti dei tecnici e dei professionali sono indirizzati prioritariamente alle linee di produzione;
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Nel secondo, invece, emerge l’inadeguatezza della formazione che ricevono gli studenti dei percorsi tecnico-professionali, buttando discredito anche sui loro formatori, cioè gli insegnanti.
La crisi che investe il sistema scolastico non è una prerogativa dell’Italia, infatti anche in altri paesi dell’area OCSE i legislatori continuano a porsi un interrogativo, che secondo Ken Robinson (1) rientra nei discorsi dell’assurdo, in quanto pretendono di conoscere in anticipo, se il sistema formativo fornisce agli studenti le competenze necessarie, per trovare il loro posto nell’economia del XXI secolo, mentre, nella realtà, non si riesce a prevedere ciò che accadrà nelle prossime due settimane, per via dell’elevata flessibilità delle relazioni produttive e dell’alea a cui sono sottoposti i mercati del lavoro.
Se finora l’ingerenza delle imprese sul sistema formativo dei tecnici e dei professionali è stata indiretta, dettando le norme morali per rendere gli studenti “appetibili” nel mercato del lavoro, con la “filiera 4+2“, un pezzo della formazione didattica viene consegnato agli ITS academy, spalancando ai privati la porta della a scuola pubblica, pertanto i gli imprenditori e i liberi professionisti potranno intervenire direttamente sulla formazione e con lo stampino produrranno forza lavoro strettamente correlata alle esigenze delle aziende.
L’idea di un’educazione pubblica, per come l’abbiamo vista nascere e sviluppare e per come la stiamo ancora vivendo, nonostante le contraddizioni che da essa affiorano, è un’idea rivoluzionaria e ha sostenerlo non è un sedicente agitatore delle masse, ma Ken Robinson, uno scrittore mite, che ha lavorato a lungo, come formatore per il Governo britannico, sulle riforme del sistema scolastico.
L’istruzione pubblica è uno dei capisaldi dello Stato sociale ed è libera e gratuita per tutti, non è un privilegio per pochi eletti ed è tenuta in piedi con la fiscalità generale.
L’affermazione del Diritto allo studio incontrò numerosi ostacoli lungo il suo percorso, in quanto i suoi più accaniti oppositori sostenevano che i figli della classe lavoratrice non erano educabili.
Per capire il senso di questo lungo travaglio, è bene ricordare che nella seconda metà del XIX secolo, in Inghilterra, uno dei paesi più sviluppati al mondo, era ancora molto diffuso il pensiero che i pargoli della working class erano geneticamente incapaci di leggere e scrivere, quindi n non valeva la pena spendere tempo e denaro su questa utopia. (2)
Nel XX secolo, le generazioni che ci hanno preceduto hanno attraversato due guerre mondiali e la Grande crisi degli anni trenta, prima che i fautori dello Stato sociale costruissero le fondamenta del sistema scolastico pubblico, per affrontare, da questo punto di vista, due dei cinque giganti individuati da W. Beveridge: la disperazione e l’ignoranza.
In Italia, da un censimento del 1951, risulta che il tasso di analfabetismo è ancora pressante ed è compreso tra il 2% della Lombardia e il 32% della Calabria.
L’intervento dello Stato, in base all’impostazione keynesiana, consente di uscire dalla miseria generalizzata, realizzando le politiche di pieno impiego, cioè espandendo il lavoro salariato nel settore pubblico, mediante la soddisfazione di quei bisogni che venivano de-privati, inquanto sottostavano al principio dell’accumulazione capitalistica, secondo il quale le risorse per soddisfarli erano scarse.
In base alla logica del capitale, che non contempla la filantropia, la costruzione di una scuola ha senso solo se l’investimento assume la configurazione di un sito di produzione per il mercato, ossia la combinazione dei fattori produttivi, il capitale fisso e quello variabile, nello specifico la struttura, con le relative attrezzature e il personale docente, quello tecnico, amministrativo e ausiliario, prende forma solo se si prevede che ci siano studenti (clienti) disponibili ad intercettare l’offerta formativa, pagando il relativo prezzo.
Qualcosa del genere accade in molte scuole private degli USA — anche in altri paesi – là dove, nel 2019, il Boarding School Review ha affermato che le tasse per l’accesso all’istruzione secondaria variano da 9.600 a 90.000 dollari all’anno.
In simili circostanze, è chiaro che solo i ragazzi che appartengono alle famiglie benestanti possono permettersi di terminare il secondo ciclo delle scuole superiori o d’iscriversi all’Università, a meno che i soggetti economicamente più fragili non vincano le limitatissime borse di studio o, nella maggior parte dei casi, accendano mutui bancari che porteranno sulle loro spalle, sperando che tutto vada per il verso giusto e troveranno il fatidico lavoro, per restituire i debiti contratti.
Il secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, com’è noto, facendo leva sul principio di solidarietà, ha rappresentato la spinta per il superamento delle disparità economiche, che di fatto limitavano l’accesso all’istruzioni dei bambini e degli adolescenti delle classi meno abbienti, i quali venivano avviati precocemente al lavoro, per accorciare il tempo, attraverso cui esercitavano un peso sulle condizioni di esistenza delle loro famiglie.
La scolarizzazione di massa è un processo graduale e capillare che si snoda su tutto il territorio nazionale, il cui motore trova la sua energia nei bisogni di emancipazione del movimento operaio e contadino, ma anche nel pensiero di esponenti del modo cattolico come don Lorenzo Milani e don Roberto Sardelli. Il primo considerava la scuola come il luogo mediante il quale si impara ad apprendere insieme, non da soli, la sua visione pedagogica supera l’individuo isolato, pertanto se si vive un problema comune, allora “sortirne insieme è la politica, mentre sortirne da soli è l’avarizia”.
Negli anni 50 e 60 del secolo scorso, non tutti i bambini potevano accedere a strutture idonee, per svolgere le lezioni, infatti don Sardelli svolse la sua azione pedagogica nella baraccopoli del Parco degli Acquedotti a Roma, formando giovani menti che misero in discussione la sudditanza personale.
In queste baracche, abitate da persone povere, senza acqua potabile e corrente elettrica, non predomina la rivalità o il desiderio bramoso di sopraffare l’altro: si cerca di trovare insieme una via d’uscita.
Negli anni 60 c’è la piena occupazione e quasi tutti i giovani e gli adulti in età lavorativa, che vivono in quelle baracche, sono impiegati nel settore edilizio e riescono a mantenere le proprie famiglie, quindi nonostante le difficili condizioni di lavoro, la comunità respira un’aria di speranza e la nuova generazione acquisisce la consapevolezza che con la scuola si possa trovare un lavoro meglio remunerato o quantomeno possa fungere da ascensore sociale, superando la rigida stratificazione sociale formatasi nel corso dei decenni precedenti.
Nei primi anni 70 – racconta Galapagos – le imprese contattavano direttamente i neolaureati e questi ultimi non dovevano neanche inoltrare la domanda, per poter lavorare; l’allievo di Federico Caffè, appena laureato, rifiutò un lavoro ben pagato in una grande banca, orientandosi, invece, verso un Istituto di ricerca pubblico. (3)
Questa motivazione ha funzionato fino a quando non è riemerso il problema della disoccupazione, a metà degli anni 70, in Italia e in altri paesi dell’’area OCSE.
Il moltiplicatore della Spesa pubblica, una volta innalzato il livello del reddito complessivo, nel senso che le condizioni di vita di milioni di persone sono diventate accettabili o decenti, non riesce ad espandere ulteriormente la domanda aggregata e il connesso lavoro salariato, se non con l’aumento delle relative imposte o il ricorso all’indebitamento.
Con il passare degli anni, per ottenere la stessa posizione economica, nello svolgimento di un ruolo simile, non era più sufficiente conseguire il diploma. Nel settore pubblico, per esempio, in ambito scolastico, fino al 2001, per l’accesso all’insegnamento nella scuola primaria è sufficiente il conseguimento del Diploma dell’Istituto Magistrale, negli anni successivi diventa necessaria la Laurea in Scienze della Formazione Primaria.
Ma se le barriere in entrata aumentano, se i requisiti di accesso prevedono ulteriori titoli, poiché i posti disponibili sono continuamente inferiori alle domande inoltrate, tutto ciò non significa che le competenze e le conoscenze non siano adeguate al mercato del lavoro, anzi, è proprio il mercato del lavoro che è intasato dal proliferare dei titoli. Se hai conseguito il TFA Sostegno e ti mancano i 30 CFU, scivoli id 1.000 posizioni, nella GPS di Roma, quindi rischi di non prendere l’incarico a tempo determinato. Ma nel frattempo, si moltiplicano i corsi formativi a pagamento nelle Università telematiche.
Ora, questo discorso, in un certo senso, vale anche per gli studenti: non è vero che sono meno formati o hanno meno competenze rispetto al passato. La loro capacità produttiva, che si presenta come il risultato delle generazioni precedenti, in quanto combinazione del sapere e del saper fare con le nuove tecnologie, sopravanza di gran lunga la domanda di forza lavoro delle imprese, pertanto i giovani vengono messi in lista di attesa (Stage, tirocini) o instradati nello svolgimento di lavori improduttivi o assunti con contratti a tempo determinato, reiterati nel tempo, dando luogo a un immenso flusso di “fatica sprecata”.
Nella loro indole, le nuove generazioni percepiscono le prospettive cupe e le richieste bizzarre che provengono dal mondo del lavoro, avvertono, in qualche misura, il deprezzamento salariale, che li attende, legato alla precarietà lavorativa. Tuttavia, quello che, forse, non riescono a concepire è il come le istituzioni scolastiche continuino ad ostinarsi a dare delle risposte che non trovano una corrispondenza nelle nuove circostanze che sono state create.
Il messaggio che continuano a ricevere è che la scuola abbia lo scopo di trovare un lavoro o quantomeno che essa percorra tutte le vie possibili, affinché si raggiunga l’obiettivo, quando emerge con una certa intensità che è sempre più difficile riprodurre il lavoro salariato.
Il riproporre, con insistenza, quelle soluzioni che hanno funzionato prima che lo Stato sociale entrasse in crisi, a metà degli anni 70 del secolo scorso, negli ultimi due lustri, come dice Robinson, sta amplificando il morbo dell’ADHD, di altri disturbi che richiedono il supporto psicoterapeutico e, in generale, di quel fenomeno noto come dispersione scolastica, poiché, sempre più spesso, gli studenti non riescono a trovare la motivazione per andare a scuola.
/1) Ken Robinson, Cambiare i paradigmi dell’educazione, https://www.youtube.com/watch?v=SVeNeN4MoNU.
2) ibidem
3) Galapagos, La compagnia del riformista, in Scritti quotidiani di F. Caffè, a cura di R. Carlini, Manifestolibri 2007, p. 151.