La libertà del suolo

visura

Nelle visure catastali rilasciate dall’Agenzia del Territorio è conservato il ricordo del momento in cui il suolo venne segnato dalla partizione tra Reddito dominicale e Reddito agrario. Questa divisione corrisponde esattamente a quella tra Capitale e Reddito, ossia alle due sezioni del bilancio aziendale: lo Stato Patrimoniale e il Conto Economico. Che la terminologia rimandi alla casa e al pater non è casuale, poiché questa materia tocca direttamente la concezione della famiglia, della casa e della domus dinastica, con i connessi problemi di successione, divisione e continuità della persona che, dalla stessa epoca, comincia a dividersi tra persona fisica, titolata al possesso, e persona metafisica, titolata a intestarsi la proprietà; tra corpo fisico e transeunte, e corpo astrale infinito, sovrano, libero, immortale; tra persona terrena e persona ultraterrena, magica; tra Servo, che lavora e produce il Reddito, e Capo, che si intitola questo reddito e lo rubrica nello Stato Patrimoniale.
È merito dei fisiocratici, soprattutto di Quesnay e del suo Tableau économique, aver messo in rilievo a analizzato questa partizione, riconducendola alla struttura classista della società.
Quesnay, scrive Schumpeter (Storia dell’analisi economica, I) distinse i proprietari fondiari (classe des propriétaires, o classe souveraine, o, e ciò è significativo, classe distributive), gli imprenditori agrari (classe productive) e la classe delle persone impiegate in attività non agrarie (classe stérile).
Questo schema, ribadisce Schumpeter, non è tanto uno schema di classi come entità sociologiche, ma di gruppi economici del genere di quelli che oggi si trovano nelle statistiche degli addetti, per esempio, all’agricoltura o alle industrie minerarie o a quelle manifatturiere.
Nel 1758 Quesnay costruire un modello di ciclo e di equilibrio economico come fanno i moderni keynesiani. Perciò non deve stupire che Marx ponga i fisiocratici e Quesnay, e non Adam Smith, come i fondatori dell’analisi economica moderna.
Nel Tableau di Quesnay, dice Schumpeter, si trova anticipato lo schema di classe adottato da Marx. Vi si trovano il lavoro produttivo di plusvalore e il lavoro improduttivo, la distinzione tra capitale e reddito e il processo circolare che parte dal capitale e ritorna al capitale.
Per i fisiocratici non solo la terra produce un reddito netto, ma la rendita della terra è l’unico e solo reddito netto; reddito uguale all’intero reddito netto disponibile della società. Tutti gli altri redditi, dice Schumpeter, corrispondono a costi, sono esattamente sufficienti a ricostituire quel che si usa nel processo produttivo. Il lavoratore, dice, non riceve più di quanto è necessario a ricostituire la sua capacità lavorativa. Il capitalista non ottiene più di quanto è necessario per ricostituire il suo capitale e la sua capacità lavorativa: il lavoro, l’attività di direzione e il capitale sono sterili, e sebbene producano utilità, non generano alcun plusvalore.
Nella sua concezione generale, dice Schumpeter, questa teoria presenta una straordinaria somiglianza con quella di Marx. Proprio come Quesnay considerò la terra soltanto produttiva di un plusvalore, così Marx considerò come sorgente di plusvalore il solo lavoro. Nessuna delle due costruzioni attribuisce alcuna produttività al capitale (inteso come impianti, attrezzi e materie prime), il quale, bensì, trasmette o incorpora plusvalore creato, rispettivamente, dalla terra o dal lavoro, ma non vi aggiunge nulla. Sotto questo aspetto la teoria di Marx sembra quasi una replica dello schema di Quesnay.
Dal canto suo, Marx dice chiaramente che (Teorie sul plusvalore, 1) l’analisi del capitale, entro l’orizzonte borghese, appartiene ai fisiocratici. È questo merito che fa di essi i veri iniziatori dell’economia politica moderna.
Innanzitutto, dice Marx, i fisiocrati hanno trasferito la ricerca sull’origine del plusvalore dalla sfera della circolazione alla sfera della produzione immediata, e in questo modo hanno posto le basi per l’analisi della produzione. In secondo luogo, essi hanno stabilito con assoluta esattezza il principio fondamentale che è produttivo soltanto il lavoro che crea plusvalore, dunque il lavoro nel cui prodotto è contenuto un valore superiore alla somma dei valori consumati nella produzione di questo prodotto. Per i fisiocratici,la differenza tra valore e valorizzazione appare in modo tangibile nell’agricoltura, nella terra, nella produzione primaria. Qui è evidente che la somma dei mezzi di sussistenza che il contadino consuma annualmente, o la massa di materia che consuma, è minore della somma dei mezzi di sussistenza che produce, mentre nell’industria, dove il ricambio è mediato, la differenza appare meno evidente. Perciò, per i fisiocratici, il lavoro agricolo è l’unico lavoro produttivo, poiché è l’unico lavoro che crea un plusvalore, e la rendita fondiaria è l’unica forma di plusvalore che essi conoscono. Mentre il profitto industriale e l’interesse del denaro non sono che differenti rubriche in cui la rendita si ripartisce e passa, in determinate porzioni, dalle mani dei proprietari fondiari in quelle di altre classi.
I fisiocratici notarono anche che la produzione di plusvalore – la differenza tra valore e valorizzazione – è legata direttamente alla produttività del lavoro. Se la produttività del lavoro fosse limitata alla produzione di un quid sufficiente a soddisfare e mantenere in vita chi lo produce non ci sarebbe plusvalore.
Il sistema fisiocratico, dice Marx, ha dei limiti, anche se bisogna riconoscere che è proprio nella separazione della proprietà fondiaria dal lavoro, nella separazione tra Reddito dominicale e Reddito agrario, che bisogna cercare la prima condizione dello sviluppo del capitale.
Turgot, dice Marx, coglie bene questo passaggio quando scrive che nelle epoche più antiche [?] non si poteva distinguere il proprietario fondiario dal coltivatore, e non lo si poteva distinguere, aggiungo io, perché la produttività era appena sufficiente alla riproduzione del coltivatore stesso. Quando la produttività aumenta, e permette di mantenere, accanto al contadino, un lavoratore improduttivo che si appropria dell’eccedenza, la possibilità della separazione fa capolino nella storia dell’agricoltura.
In quei tempi antichi, continua Turgot, poiché ogni uomo laborioso aveva tanta terra quanta ne desiderava, non poteva essere tentato di lavorare per altri. Ma alla fine, dice, ogni terra trovò il suo padrone, e quelli che rimasero senza proprietà non ebbero dapprima altra risorsa che quella di scambiare il lavoro delle proprie braccia con l’eccedenza dei prodotti del proprietario terriero.
Con l’eccedenza che la terra gli garantiva, il proprietario poteva comprare alcuni uomini per coltivare la sua terra; e per uomini che vivevano di salario era indifferente guadagnarselo con questo mestiere o con qualsiasi altro.
La proprietà della terra, scrive Turgot, dovette dunque essere separata dal lavoro di coltivazione; e lo fu ben presto, i proprietari fondiari cominciarono a scaricare il lavoro di coltivazione sulle spalle dei coltivatori salariati.
Ora, continua Turgot, il semplice operaio, il quale dispone solo delle sue braccia e della sua laboriosità, non ha nulla, se non in quanto riesce a vendere la sua fatica ad altri. In ogni genere di lavoro, dice, deve accadere, e in effetti accade, che il salario dell’operaio si limiti a ciò che gli è necessario per procurarsi la sua sussistenza.
Non appena il lavoro diventa libero, dice Turgot, il prodotto della terra si divide in due parti: l’una comprende la sussistenza e il reddito del contadino, il rimanente costituisce la parte del proprietario, ossia il reddito con il quale egli può vivere senza lavorare.
La divisione di cui qui si parla comincia ad apparire già nel periodo Merovincio. L’azienda curtense prevedeva la divisione del fondo in due parti distinte, la pars dominica (demanium, demesne, mansus, indominicatus, eccetera), posta sotto il diretto ed esclusivo controllo del titolare del fondo, ed il massaricium, area divisa in varie unità rurali, detti Mansi (Mansus, Hufe, Tenure, Virgate), assegnate a coltivatori liberi e non liberi.
In genere, il Manso era di dimensioni tali da consentire il mantenimento di un nucleo familiare. I contadini che ricevevano il Manso, dice Marco Caravale (Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale), lavoravano liberamente la terra, ma avevano il diritto di appropriarsi solo di una parte del prodotto ottenuto. Il resto doveva essere consegnato al proprietario. Inoltre, essi erano tenuti a prestare la loro opera per la coltivazione della pars dominica, il cui prodotto, peraltro, spettava per intero al proprietario. In più, essi prendevano parte, insieme con i servi domestici del padrone, ai lavori di aratura e di mietitura del demense, alle opere di trasporto del prodotto dei Mansi alla Corte signorile e a tutte le attività di trasformazione dei frutti dell’agricoltura e del pascolo, destinando a detta attività un certo numero di giornate settimanali (corvées), secondo quanto fissato dalle norme consuetudinarie del luogo.
Inoltre, fatto di non secondaria importanza, i possessori dei Mansi erano tenuti ad utilizzare per la trasformazione del loro prodotto soltanto i servizi che erano forniti dal signore. Il mulino, il frantoio, il forno utilizzabili erano soltanto quelli del padrone e non potevano essere sostituiti da altri costruiti e posseduti dai titolari dei Mansi.
Il Dominus deteneva l’autorità e il potere di organizzare la produzione e regolare la distribuzione. Questa potestà, dice Caravale, nota nelle fonti come Banno (comando), collocava il Dominus in una posizione di superiorità.
La libertà dei titolari dei Mansi si esprimeva entro la cornice della potestà del Dominus. Il signore fondiario e la comunità rurale erano legati da un vincolo sinallagmatico: in cambio della soggezione e dell’acquisizione di gran parte del prodotto, il signore assicurava a tutti gli abitanti della sua terra 1) protezione da nemici esterni e da pericoli naturali, 2) tutela dei diritti e pace tra di loro.
Il titolo sul Manso costituiva un diritto limitato, in quanto il Manso continuava a essere parte del fisco Reggio. Dunque, le persone e la terra erano inquadrate sotto la potestà del Dominus. Si veniva così a delineare un regime di libertà in cui sia il lavoro sia il suolo erano incardinati in un ordine pressoché immediato che dal Dominus scendeva al Manso e dal Manso saliva al Dominus, e se pure la partizione tra capitale e lavoro andava delineandosi, sia l’uno che l’altro rimanevano limitati dal vincolo bilaterale.
In questo quadro, dice Caravale, si affermò la Signoria Fondiaria, la quale si avvaleva di rapporti tra soggetti di diritto profondamente diversi da quelli dell’originario mondo germanico. In particolare, dice, essa comportò la fine della sostanziale parità di condizioni di cui gli uomini godevano nell’ordinamento popolare della tradizione germanica. Parità che si avviò ad essere sostituita da una differenza di classe molto marcata tra chi era legato al reddito dominicale e che era legato al reddito agrario.
In età carolingia, dopo la metà del secolo VIII, il sistema Signorile curtense risulta ampiamente testimoniato, esso appare come realtà già da tempo consolidata ed induce perciò a supporre la sua presenza almeno nel secolo precedente.
Il quadro appena delineato è complicato dalla divisione del Fisco regio in terre amministrate direttamente dal re per il tramite di suoi agenti, e terre da lui concesse in via temporanea ai propri fedeli, che le fonti, dice Caravale, cominciano ad indicare con il termine di vassalli. Trova allora conferma l’idea che nel periodo carolingio presero avvio le prime norme che avrebbero in seguito dato vita all’ordinamento feudale. L’atto formale con cui nasceva il rapporto tra il re e il suo fedele era l’accommendatio, con la quale, dice Caravale, il secondo metteva le proprie mani in quelle del monarca.

Proprio perché posseduta dall’assegnatario in via non definitiva, dice Caravale, tale porzione di terreno viene indicata con il termine di beneficio. La disposizione del sovrano riguardava esclusivamente il passaggio di uno o più curtes reggie ad altro soggetto il quale, per la durata della concessione, usava la terra in termini analoghi a quanto il sovrano stesso aveva fatto fino ad allora.
Poiché la forma di organizzazione economica era quella curtense, anche nel caso di queste curtes vassallatiche si esercitava una potestà di tipo signorile.
Questa potestà signorile era a termine e limitata, perché il fondo era destinato a rientrare nel patrimonio diretto del sovrano, e anche durante la concessione era considerato appartenente al fisco Reggio e come tale soggetto all’autorità signorile del monarca.
Nella seconda metà dell’XI secolo la Signoria fondiaria si avvia verso una decisiva trasformazione verso che passa attraverso la monetizzazione delle rendite fondiarie.
I signori fondiari, dice Caravale, da una parte trasformano i Mansi in fondi concessi dietro pagamento di un censo ed esenti da prestazioni personali di lavoro, dall’altra restringono la riserva signorile, trasformata per la maggior parte in lotti assegnati in affitto o a censo.
La graduale riduzione delle corvée e la trasformazione dei contadini in censuari ebbe la conseguenza di stimolare la produzione, impegnando in maniera esclusiva sul fondo la forza lavorativa del contadino che possedeva il lotto e della sua famiglia e consentendogli di appropriarsi di una quota consistente del proprio raccolto. Il censo assunse forme e caratteri diversi non solo da regione a regione, ma anche nell’ambito della medesima zona: consisteva, comunque, nel versamento di una quota del prodotto sotto forma di parte del raccolto o di denaro. Duby riconosce che per la coltivazione della riserva le cui dimensioni tendevano a diminuire rispetto al passato, i signori facevano largo uso di manodopera domestica, riducendo il ricorso ai servizi di corvée dei contadini.

Articoli consigliati