Il lavoro è la fonte di ogni ricchezza, dunque tutto va al lavoro secondo le giuste proporzioni.
Non è vero, dice Marx. Un programma socialista non può permettere a tali espressioni borghesi di sottacere le condizioni che sole danno un senso al lavoro. Tanto valeva copiare tutto Rousseau.
Quali sono queste condizioni, e perché a Gotha si scrive più una sviolinata russoviana che un programma socialista?
Perché non basta parlare dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo per conferire al discorso una pertinenza marxista. Perché c’è un rigore della critica marxista che la distingue da ogni altra critica della miseria, della violenza, dello sfruttamento, che la distingue da una critica del male, di stampo russoviana, di un male che sopraggiunge con la storia, con lo straniero e l’estraniazione, con la violazione di un’innocenza originaria, con una intrusione che violenta e spezza un’intimità e una purezza originarie.
Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo è frutto della cultura di tipo occidentale, delle civiltà storiche. L’inizio della storia segna la differenza, la caduta e la decadenza: la partizione tra un mondo innocente e giusto e un mondo ingiusto – il mondo del male. Ciò che sta alla base di ogni russovismo è l’immagine di una comunità immediatamente presente a se stessa, senza differenza, comunità del viso a viso, nella quale tutti i membri vivono nella prossimità del passaparola, del porta a porta, del piccolo villaggio, della trasmissione orale e del contatto vissuto e non corrotto dalla dilazione e dallo strumento, dall’estraniazione -una comunità della volontà presente e vivente. Il terreno dell’autenticità è la relazione di vicinato nelle piccole comunità dove tutti si conoscono (e si controllano). La distanziazione, la dispersione del vicinato, sono la condizione dell’oppressione, dell’arbitrio, del vizio. Gli oppressori fanno tutti lo stesso gesto: rompono la presenza, la compresenza dei cittadini, l’unanimità del popolo radunato, il contatto e la partecipazione diretta: tengono i soggetti sparsi, isolati, nell’impossibilità di vivere nello spazio di una medesima parola, di un solo e medesimo scambio persuasivo, nel soffio di un respiro.
Se avessi potuto, scrive Rousseau nell’Indirizzo al Secondo discorso, se avesi potuto avrei scelto una società la cui grandezza fosse contenuta entro i limiti delle facoltà umane, in cui ciascuno bastasse a disimpegnare il suo ufficio, sì da non essere costretto ad affidare ad altri le funzioni di cui fosse investito. Uno Stato in cui gli individui si conoscessero tra di loro, in modo che le manovre oscure del vizio non potessero sottrarsi agli sguardi e al giudizio del pubblico.
Niente dilazione o delega; presenza costante, diretta, perché la differenza e la distanziazione sono l’inizio del vizio e della corruzione.
Le facoltà propriamente umane sono quelle stabilite dalla natura, le altre, quelle alterate, corrotte dal vizio e dall’estraneazione, sono le facoltà morali, storiche, civili. È la nostra industriosità che ci toglie la forza e l’agilità naturali. Se avesse avuto una scure, scrive Rousseau, la mano dell’uomo di natura sarebbe riuscita a rompere rami così grossi? Se avesse avuto una fionda, il suo braccio avrebbe lanciato pietre con tanta energia? Se avesse avuto una scala si sarebbe arrampicato sugli alberi con tanta leggerezza? Se avesse avuto un cavallo sarebbe stato così veloce nella corsa?
È lo strumento, il mezzo, la protesi che altera lo stato di natura, che corrompe, che rende l’uomo di natura più potente di quello che è, che gli permette di ingannare i suoi simili e di superare con questi artifici i limiti posti al suo stato.
L’industriosità, dunque l’industria e gli strumenti artificiali, persino l’audacia di pensiero, il pensiero stesso, sono agenti della corruzione: l’uomo che pensa, dice Rousseau, è un pervertito. La verità è semtimento. Ecco le prove funeste che, dice, la maggior parte dei nostri mali è opera nostra e che li avremmo evitati quasi tutti conservando la maniera di vivere semplice che ci era stata prescritta dalla natura. Se essa ci ha destinati a essere sani, oso quasi affermare, dice, che lo stato di riflessione è uno stato contro natura e che l’uomo che medita è un animale degenerato. Si farebbe molto facilmente la storia delle malattie umane seguendo la storia delle società civili. Avendo così poche cause di malattie – perché cause delle malattie sono la civiltà, la storia, il pensiero e l’industriosità, il mezzo, l’industria, la protesi, la dilazione, e il denaro e la scrittura, strumenti principi della dilazione e della distanziazione – avendo così poche cause di malattie, perché non ha storia, l’uomo naturale, l’uomo integro, tutto d’un pezzo, non intaccato e non alienato, indiviso, presente a sé e mai alterato dall’estraneo, quest’uomo, dice Rousseau, non ha, dunque, bisogno di medicine, e meno ancora di medici. Se si guarda ai cacciatori e raccoglitori se ne trovano parecchi che hanno avuto delle ossa e persino delle membra rotte, e sono guariti senz’altro chirurgo che il tempo, senz’altro regime che la loro vita solita, e che non sono guariti meno perfettamente per il fatto di non essere stati tormentati con incisioni, avvelenati con medicine ed estenuati con terapie strambe. La medicina è la malattia.
Non è difficile misurare la portata di questo programma, la sua forza giunta siano ai nostri giorni. Integrato nella vita civile, l’uomo-natura diventa schiavo e debole, timoroso, strisciante, e il suo modo di vivere molle ed effeminato finisce per snervare insieme la sua forza e il suo coraggio. Tutte le comodità e il lusso e le occasioni di piacere sono altrettante cause che lo fanno più sensibilmente degenerare – il degenere, il trans-genere, il genere sono la depravazione stessa, la corruzione, la perdita del vigore, della virilità. La civiltà rende molli e effeminati. L’attacco di effeminati e acculturati contro i bifolchi è allo stesso tempo un attacco contro il genere. Il male punta direttamente a sradicare la razza dalla faccia della terra. A debellarla definitivamente. E quando non la debella la rammollisce: l’intelligenza, scrive Rousseau, corrompe i sensi e la volontà.
Si trova qui una radice della protesta anarchica e libertaria contro la Legge e contro i Poteri dello Stato e anche il sogno dei socialismi utopistici del XIX secolo, in modo particolare quello foureriano. Si ritrova qui la radice del naturalismo retrogrado, che ha nell’ecologismo attivo e progressista il principale nemico.
Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire «Questo è mio», fu il fondatore della società civile, cacciò l’uomo dallo stato di grazia naturale e diede inizio alla storia.
La recinzione della proprietà crea le condizioni che alimentano la differenza tra scarsità e abbondanza.
I selvaggi, dice Rousseau, vissero liberi, sani, buoni e felici quanto potevano esserlo per natura e quanto può esserlo ai nostri tempi il Caraibico, ancora in armonia con il creato. Essi continuarono a godere tra loro delle dolcezze dei rapporti indipendenti. Ma non appena si alzò un recinto o un muro e uno solo ebbe provviste per due, da quel momento, dice Rousseau, l’uguaglianza primitiva scomparve, s’introdusse la proprietà privata, il lavoro divenne necessario e le vaste foreste diventarono ridenti campagne che bisognò innaffiare col sudore degli uomini e nelle quali presto si videro germogliare e crescere con le messi la schiavitù e la miseria.
Il Caraibico, dice Rousseau, non desidera altro che restare in ozio. Raccoglie i frutti offerti gratis dalla natura – ce n’è per tutti, a sazietà. La scarsità è artificiale, è un prodotto della storia. Mentre il selvaggio gode liberamente i frutti di questo paradiso, e non si preoccupa del domani, non pensa, non programma la sua vita, non si dà da fare, non riflette, non si protende verso il futuro, non c’è futuro, tutto è piegato sul presente, i suoi bisogni finiscono dove finisce il suo appetito, fa fatica a pensare la mattina ai bisogni della sera. Mentre il selvaggio guarda beato il suo ombelico, il cittadino, dice Rousseau, è sempre attivo, suda, si agita, si tormenta, lavora fino a morire, perché il il lavoro è il vero motore di questa differenza. È esso che crea la disuguaglianza. La proprietà privata nasce dal lavoro, dice Rousseau. È soltanto il lavoro che dà al coltivatore il diritto sul prodotto della terra che ha lavorato e di conseguenza sul fondo. La metallurgia e l’agricoltura sono le due arti che produssero questa rivoluzione.
L’agricoltura, in particolare, proietta il selvaggio nella storia. Non c’è agricoltura senza storia, senza la previdenza di bisogni futuri. Occorre accettare la perdita di ciò che si può consumare subito, il seme; occorre trattenersi e rinviare, rinunciare a un piacere attuale, per un piacere possibile; il programma, il calcolo, la previsione, lo sdoppiamento, la storia, avanzano nella vita presente del selvaggio il quale deve imparare a pensare a se stesso come a un altro. Questa è, di fatto, dice Rousseau, la vera causa di tutte queste differenze: che il selvaggio vive in se stesso, mentre l’uomo socievole è sempre fuori di sé – alienato – ed è solo nel giudizio dell’altro che trae il sentimento della propria esistenza. Ma traendo la propria verità dall’altro, tutto diventa simulacro, simulazione, apparenza, tutto diventa fittizio – onore, amicizia, virtù, e spesso persino i vizi; insomma, dice, domandando sempre all’altro quello che siamo e non osando mai interrogare noi stessi, in mezzo a tanta filosofia, tanta umanità e civiltà e tante massime sublimi non abbiamo che un’apparenza esterna ingannatrice e frivola, onore senza virtù, ragione senza saggezza e piacere senza felicità.
Ecco dunque l’uomo storico – civile; da uomo libero e indipendente che era prima, a causa dei nuovi bisogni, viene asservito per così dire a tutta la natura, e soprattutto ai suoi simili, di cui diventa schiavo anche quando ne diviene il padrone: se è ricco ha bisogno dei loro servizi, se è povero ha bisogno del loro soccorso.
Non ti mangio, dunque ti penso, e pensandoti penso a quell’altro me al tempo in cui ti raccoglierà e ti mangerà. Il trattenimento e l’allungamento è l’andirivieni che spazializza la storia.
Il lavoro, alla base dei nuovi bisogni, produce la proprietà privata: il prodotto del lavoro appartiene a chi ha faticato per ottenerlo. Il lavoro, opposto all’ozio, è identificato con il dispendio di forza fisica – il sudore della fronte biblico. E il rifiuto del lavoro rappresenta la fine della fatica, la fine di quell’esilio terrestre in cui ci si guadagna da vivere con la fatica e con il sudore della fronte. Il lavoro – opposto all’ozio –, e inteso come dispendio di energia fisica, è naturalizzato.
È questa naturalizzazione che disturba Marx. Ancora nel 1948, nel suo Manuale – Economia – Samuelson definisce il lavoro (insieme alla terra) come uno dei fattori primari della produzione.
Un fattore primario, dice Samuelson, non è il risultato di un processo, ma esiste in virtù di fattori fisici e biologici, ovvero di fattori naturali, anziché storici.
La differenza tra lavoro e ozio ruota intorno alla fatica. La differenza tra natura e storia, che guida tutto il Discorso, si chiude su una naturalizzazione della storia: c’è storia, ma è ancora una storia che si piega alla natura. La storia inizia con il lavoro, ma il lavoro è fatica, è mero dispendio di forza fisica. Rifiuto del lavoro significa qui rifiuto della fatica, diritto all’ozio. Questo rifiuto, con il quale si fa passare il lavoro come fatica, cioè come un fattore fisico e biologico, è un’espressione usata dai borghesi per sottacere le condizioni che sole danno un senso. E qual è questo senso?, chiede Marx con disappunto. Che il lavoro crea la ricchezza e che dunque la ricchezza appartiene al lavoro? I borghesi, dice, hanno buoni motivi per attribuire al lavoro una forza creatrice; perché proprio dal fatto che il lavoro ha nella natura la sua condizione deriva che l’uomo, il quale non ha altra proprietà all’infuori della sua forza-lavoro, deve essere, in tutte le condizioni di società e civiltà, lo schiavo degli altri uomini che si sono resi proprietari delle condizioni materiali del lavoro.
Il lavoro crea la ricchezza – una di quelle verità lapalissiane che giustifica ogni compenso, ogni rapina, ogni abuso, ogni rendita, anche le più ingiustificate, come quelle dei campioni dello sport e della musica e dei geni delle app informatiche. Che derivi dalla spremitura dei muscoli o dalle spremiture delle meningi, la ricchezza è frutto della creazione e della fatica.
Tutte queste giustificazioni borghesi, che celano le condizioni entro le quali si produce la ricchezza, sono insopportabili in un programma socialista.
Rousseau dichiara apertamente che il filo naturale che intreccia quello storico e che fornisce il tessuto differenziale con il quale imbastisce il Discorso è fantastico. Non c’è nessuno stato di natura. Non è impresa da poco quella di sceverare ciò che vi è di artificiale nella natura attuale dell’uomo, dice, e di conoscere bene uno stato che non esiste più, che forse non è affatto esistito e probabilmente non esisterà mai, e sul quale tuttavia è necessario avere delle idee giuste per giudicare bene intorno al nostro stato presente.
La natura che qui opera contro la storia, differenza senza la quale non si potrebbe avere alcuna idea sulla storia, è fittizia, dunque storica. E la storia, che qui inizia con il lavoro, finisce per sprofondare nella natura, nella fatica, nel dispendio di forza fisica e biologica.
Il programma socialista di Gotha riprende ed estende tutto questo dispositivo naturalizzante. E Marx non ha che da rammaricarsi per gli anni spesi sulle panche del British Museum, per le distinzioni che i socialisti trattano come lana caprina, le distinzioni tra lavoro e forza-lavoro, tra valore e uso, tra costi di produzione e prezzo, e tra prezzo e valore di scambio, tra lavoro produttivo e improduttivo. Quando Marx nel programma legge della giusta ripartizione del reddito da lavoro chiede sgomento: Di cosa si parla qui quando si parla di Reddito da lavoro? Si parla del prodotto del lavoro o del suo valore? Perché se seguiamo il filo naturalizzante del discorso socialista dovremmo considerare solo il quanto delle quantità fisiche e non la quantità che esprime il valore. E se fosse il valore, dovremmo considerare il valore complessivo del prodotto o solo quella parte di valore che il lavoro ha aggiunto al valore dei mezzi di produzione consumati? «Reddito da lavoro», dice, è un’espressione vaga, e parlare di giusta ripartizione del prodotto del lavoro a partire da un’espressione vaga è disgustoso. Che cos’è una giusta ripartizione?, chiede Marx. Non affermano i borghesi che l’odierna ripartizione è giusta? Non viene forse dato al lavoratore il giusto prezzo pattuito? Il contratto non viene forse rispettato? Nello scambio tra capitale e forza-lavoro non vige lo stesso principio che rogala lo scambio di equivalenti delle merci? Viene forse violato questo principio? L’ingiustizia sta in questa violazione? L’ingiustizia sta forse nella truffa, nel raggiro, nella gabola? Certo che no.
Marx smonta questa infrastruttura borghese sin dai primi sui scritti economici. Si consideri Lavoro salariato e capitale, del 1848, un testo che Engels ripubblica nel 1891 e dove spiega che non appena gli economisti considerarono il lavoro come la fonte dalla ricchezza e applicarono alla merce «lavoro» questo modo di determinare il valore caddero da una contraddizione in un’altra. Quando esprimiamo il valore del «lavoro» con il lavoro speso nella sua produzione ci aggiriamo in un circolo vizioso. Anche quando consideriamo il quanto di questo lavoro, e lo misuriamo in settimane, giorni e ore, non sappiamo ancora niente del valore di un’ora di lavoro, sappiamo soltanto che esso è uguale a un dato quanto, cioè che è uguale a se stesso – dunque, non sappiamo niente.
In Lavoro salariato e capitale, un testo al quale Engels apporta qualche (giustissima) piccola correzione, Marx abbozza una critica della miseria, della violenza, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo che la distingue da ogni altra critica. In questo testo un’attenzione strutturale, di tipo strutturalista (e qui Althusser avrebbe dovuto leggere con più generosità), un’attenzione che deriva dalla conoscenza dell’economia politica inglese, più da Smith, dunque da Hume, che da Ricardo, è continuamente perturbata da un tensione genealogica tutta tedesca.
Un negro è un negro, si legge in Lavoro salariato e capitale. Soltanto in determinate condizioni diventa uno schiavo. Una macchina filatrice di cotone è una macchina per filare il cotone. Soltanto in determinate condizioni essa diventa capitale. Sottratta a queste condizioni essa non è capitale, allo stesso modo che l’oro in sé e per sé non è denaro o lo zucchero non è il prezzo dello zucchero. Nella produzione gli uomini non sono in rapporto soltanto con la natura. Il loro rapporto con la natura, la produzione, ha luogo soltanto nel quadro di legami storici e rapporti sociali storicamente determinati. Con l’invenzione di un nuovo strumento di guerra, dell’arma da fuoco, dice, tutta l’organizzazione interna dell’esercito necessariamente si modificò, si modificarono i rapporti sulla base dei quali i singoli costituiscono un esercito e possono operare come esercito, e si modificò pure il rapporto dei diversi eserciti tra loro. I rapporti di produzione, entro i quali gli individui producono, i rapporti sociali di produzione, si modificano, dunque, si trasformano, e si trasformano con la trasformazione e con lo sviluppo dei mezzi materiali di produzione, delle forze produttive. La società antica, la società feudale, la società borghese, sono simili complessi di rapporti di produzione, e ognuno di questi complessi caratterizza, nello stesso tempo, un particolare stadio di sviluppo nella storia dell’umanità.
Il capitale nella società borghese non consta soltanto di mezzi di sussistenza, di strumenti di lavoro e di materie prime, non consta soltanto di prodotti materiali; esso consta pure di valori di scambio. Tutti i prodotti di cui esso consta sono merci. Il capitale non è dunque soltanto una somma di prodotti materiali; esso è una somma di merci, di valore di scambio, di grandezze storiche.
Il lavoro, dice Marx (e qui Engels corregge con forza-lavoro), non è sempre stato una merce. Non è sempre stato lavoro salariato, cioè lavoro libero. Lo schiavo non vende la sua forza-lavoro al padrone di schiavi, come il bue non vende al contadino la propria opera. Lo schiavo, insieme alla sua forza-lavoro, è venduto una volta per sempre al proprietario. Egli stesso è una merce, ma la forza-lavoro non è una merce sua. Il servo della gleba vende soltanto una parte della sua forza-lavoro. Non è lui che riceve un salario dal proprietario della terra; è piuttosto il proprietario della terra che riceve da lui un tributo. Il servo della gleba appartiene alla terra e porta frutti al signore della terra. L’operaio libero invece vende se stesso, e pezzo a pezzo.
Cosa vuol dire per la forza-lavoro diventare una merce? Vuol dire che la forza spesa (lavoro) produce un oggetto d’uso (la ricchezza di Rousseau e del programma di Gotha) che non è ricchezza per chi produce direttamente (lavoratore e capitalista), ma è ricchezze per un compratore possibile, eventuale, potenziale. Per il lavoratore e l’imprenditore l’oggetto d’uso è ricchezza potenziale, valore di scambio. La merce, dice Marx (Introduzione 57), a differenza del semplice oggetto naturale, si afferma, diviene merce soltanto nel consumo, soltanto alla fine del ciclo. La merce non è una consistenza presente, naturale, una riserva di ricchezza. Una ferrovia sulla quale non si viaggi e che quindi non si logori e non venga consumata, dice, è soltanto una ferrovia in potenza [possibile], diventa attiva soltanto nel consumo, soltanto quando una domanda la trasforma e l’attiva.
Il lavoro libero non è paragonabile a quello del servo e dello schiavo, nemmeno i loro prodotti sono paragonabili. Incardinati in condizioni (storiche) diverse (modi di produzione), le quali determinano una valutazione (un senso, dice Marx) differente, questi prodotti esprimono una ricchezza del tutto differente. Il servo appartiene alla terra e porta al signore un tributo, sotto forma di servizio o oggetto d’uso. L’oggetto non riceve alcuna forma-valore indipendente dal suo proprio valore d’uso, o dal bisogno individuale dei permutanti. Lo schiavo è più un cavallo o una macina che un fornitore d’opera, il suo valore si ammortizza esattamente nel prodotto, non c’è sdoppiamento tra quello che fa e quello che può fare.
La forza-lavoro può apparire sul mercato come merce solo in quanto e perché è offerta e venduta come merce dal suo possessore, dalla persona di cui è forza-lavoro. Il possessore della merce deve poter disporre di tutti i suoi usi possibili. Affinché la venda come merce, il suo possessore deve poterne disporre, quindi deve essere libero proprietario della sua capacità lavorativa, della sua persona. Il lavoratore e il possessore di denaro, dice Marx, s’incontrano sul mercato ed entrano in rapporto reciproco come possessori di merci di pari diritti, unicamente distinti dal fatto che l’uno è compratore e l’altro venditore; quindi anche come persone giuridicamente eguali – eguali! Il perdurare di questo rapporto esige che il proprietario della forza-lavoro la venda sempre soltanto per un determinato tempo, perché se la vende in blocco, una volta per tutte, vende se stesso, vende tutti i suoi possibili usi – la possibilità coincide con l’attività o l’attualità, non c’è sdoppiamento e virtualizzazione – si trasforma da uomo libero in schiavo, da possessore di merci in merce. Deve, in quanto persona, riferirsi costantemente alla sua forza-lavoro come a una sua proprietà, quindi come a una sua propria merce, e può farlo solo in quanto la mette a disposizione del compratore sempre soltanto in via transitoria, per un periodo di tempo determinato, non esaurendo le possibilità di uso in questa vendita; la lascia temporaneamente in uso, e perciò, con la sua vendita, non rinuncia alla proprietà su di essa. Dunque, la libera proprietà privata e lo scambio di eguali – e non il furto – sono la condizione del libero mercato.
Anche le categorie economiche, dice Marx, recano la loro impronta storica. Nell’esistenza del prodotto come merce sono racchiuse determinate condizioni storiche. Per diventare merce, il prodotto deve non essere prodotto come mezzo immediato di sussistenza per il produttore medesimo. Là dove è prodotto per il consumo immediato non si sviluppa la ricchezza nella forma del valore di scambio. Ciò avviane quando la divisione del lavoro diventa la regola della struttura economica.
La rappresentazione del prodotto come merce presuppone una divisione del lavoro all’interno della società, e la divisione del lavoro, il non produrre più direttamente per se stessi, ma per il mercato, richiede la scissione della merce in valore d’uso e valore di scambio. Questa scissione non è tipica del capitalismo, è comune alle formazioni socio-economiche storicamente più diverse.
Dal lato della produzione, la forza-lavoro si realizza solo estrinsecandosi; si attua soltanto nel lavoro. Nella sua estrinsecazione, nel lavoro, si consuma una data quantità di muscoli, nervi, cervello ecc. umani, questo dispendio particolare di forza fisica, produce particolari oggetti d’uso, ma questi oggetti sono ricchezza per chi li produce solo in una società in cui prevale il consumo diretto, in una società in cui il consumo è indiretto, dove si produce per il mercato, sia per il produttore diretto – il lavoratore – sia per chi l’impiega – l’imprenditore – essi sono valori di scambio, ovvero oggetti d’uso per una domanda potenziale.
Dal lato contrattuale, nella circolazione semplice, il possessore della forza-lavoro, con la sua vendita, riceve subito ogni volta il prezzo pattuito – il giusto prezzo. Nella circolazione non c’è una produzione di surplus, ciò che è segnato come costo corrisponde esattamente a ciò che è segnato come ricavo – esattamente, equamente. Nella circolazione la forza-lavoro è trattata come un valore di scambio con un suo prezzo.
Il consumo della forza-lavoro, ovvero la realizzazione del suo valore d’uso, si compie, come per qualunque altra merce, fuori dal mercato, e quindi nella sfera della produzione. E qui che avviene il miracolo della moltiplicazione della ricchezza – ed è qui che che si consuma lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo; qui si produce il conflitto tra lavoro (forza-lavoro) e capitale.
Nella circolazione semplice lo scambio è libero: compratore e venditore di una merce come la forza-lavoro, sono unicamente determinati dal proprio libero volere, si accordano come persone libere dotate, di fronte alla legge, degli stessi diritti; il contratto è il risultato finale in cui le loro volontà si danno un’espressione giuridica comune. Qui c’è anche eguaglianza: compratore e venditore si riferiscono l’uno all’altro solo come possessori di merci e scambiano equivalente contro equivalente. E qui c’è libera proprietà privata, da ambo i lati. Ognuno dispone soltanto del suo. E ognuno dei due contraenti ha a che fare soltanto con se stesso: la sola forza che li avvicina e li mette in rapporto è quella del loro utile personale, del loro particolare vantaggio.
Nella corvée, il lavoro che il servo fa per sé, e il lavoro che è costretto a fare per il signore, si distinguono nello spazio e nel tempo in modo tangibile ai sensi. Nel lavoro schiavistico, anche la parte della giornata lavorativa in cui lo schiavo si limita a reintegrare il valore dei propri mezzi di sussistenza, e nella quale, perciò, lavora di fatto per se stesso, appare come lavoro per il suo padrone: ogni suo lavoro appare come lavoro non pagato. Nel lavoro salariato, invece, anche il lavoro non pagato, il pluslavoro, appare come lavoro pagato. Là, dice Marx, il rapporto di proprietà nasconde il lavoro compiuto dallo schiavo per sé; qui, il rapporto monetario nasconde il lavoro che il salariato compie gratuitamente.
Nella divisione del lavoro il prodotto non è mezzo immediato di sussistenza per il produttore medesimo. L’oggetto d’uso prodotto non è ricchezza per chi lo ha prodotto. Per un artigiano che produce 10 paia di scarpe al mese, solo il primo paio (che usa direttamente) è un valore d’uso, ricchezza immediata, mentre le altre 9 paia sono valori di scambio, dalla vendita delle quali spera di incassare un prezzo che consenta di ottenere gli oggetti d’uso che desidera. Se questi valori di scambio non realizzano il loro prezzo, allora non diventano ricchezza effettiva, attiva, per il calzolaio, restano nella sua disponibilità come oggetti privi di valore, come una catasta di oggetti inutili, destinati alla discarica.
La produzione di valori di scambio, dice Marx, è comune alle formazioni socio-economiche storicamente più diverse. Ma ciò che distingue il capitalismo da altri modi di produzione, e dunque distingue la forma di ricchezza da esso creata dal tutte le altre, è la differenza tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Qui c’è un lavoro che produce reddito e un lavoro che produce capitale. C’è un lavoro che integra il reddito del lavoratore e un lavoro che valorizza il capitale. Nel prezzo del lavoro questa distinzione è occultata. Negli oggetti d’uso, intesi come ricchezza naturale, questa differenza è occultata. Nel contratto d’opera, questa differenza è occultata.
Gli Economisti non distinguono tra valore di scambio (momento astratto della ricchezza) e valore d’uso (momento concreto della ricchezza). Senza questa distinzione occultano la società civile, la divisione del lavoro, la valorizzazione del capitale investito.
Posto che la divisione tra valore di scambio e valore d’uso è decostruibile, che non si dà mai valore d’uso che non sia affetto dal valore, dunque dalla virtualizzazione, il che impedisce, a priori, ogni ritorno a una primitività non segnata, indivisa, intatta, non alienata, eccetera, e rubrica tutti i discorsi sul ripristino di uno stato anteriore come mitologici; posto tutto ciò bisogna seguire Adorno quando dice che (Dialettica negativa), tramite lo scambio entità singole diventano commensurabili, identiche. La diffusione del principio trasforma tutto il mondo in identico, in totalità. Se però venisse negato astrattamente il principio; se si propagasse come ideale che, in onore dell’irriducibilmente qualitativo, non si scambi più uguale con uguale, sarebbe una scusa per la ricaduta nel torto antico. Infatti, lo scambio di equivalenti consistette sin dall’inizio nel fatto che in suo nome venivano scambiati elementi diseguali, e approvato il plusvalore del lavoro. Se si annulla semplicemente la categoria di misura della comparabilità, emergerebbe al posto della razionalità, che inerisce al principio di scambio, ideologicamente ma anche come premessa, l’appropriazione immediata, la violenza, e oggi il mondo del privilegio dei monopoli e clique. La critica al principio di scambio come principio identificante del pensiero vuole che venga realizzato l’ideale di uno scambio libero e giusto, che fino a oggi è stato solo un pretesto. Una volta che la teoria critica lo ha svelato come lo scambio di un uguale eppure diseguale, la critica dell’ineguaglianza nell’uguaglianza mira ancora all’uguaglianza, pur con ogni scetticismo verso il rancore insito nell’ideologia borghese dell’uguaglianza, che non tollera nulla di qualitativamente diverso.
La libertà può diventare reale soltanto tramite la coazione civilizzatrice, non come retour à la nature.
Seppur fittizie – anzi, senza dubbio fittizie – queste distinzioni operano, e non smettono di operare, allargano sempre più il loro dominio, fino a fornire l’impronta stessa del sistema capitalistico. In primo luogo esse permettono di articolare altre differenze, quella tra scambio diretto e scambio differito, tra produzione per l’autoconsumo e produzione per la vendita, dunque tra valore d’uso e valore di scambio, tra valore di scambio e prezzo, tra prezzo nominale e prezzo effettivo.
È evidente che, di principio, non può esserci auto-consumo senza virtualizzazione, dunque senza dilazione, e che non ci può essere virtualizzazione senza posizione assoluta. Una volta chiarito che queste differenze sono fittizie, e che non funzionano senza passare in una posizione assoluta, non si può negare la loro operatività. Come posso ricondurre il valore del prodotto al valore del lavoro senza la distinzione tra lavoro astratto e lavoro concreto? E come posso farlo senza la distinzione tra valore di scambio e valore d’uso?
L’Economia, che non ammette queste differenze, deve considerare l’offerta uguale alla domanda. Per il fatto stesso di esser prodotto, un oggetto d’uso è già ricchezza – è naturalmente ricchezza (legge di Say). L’offerta ha sempre una domanda corrispondente. Ogni spesa (domanda) presuppone un guadagno (offerta). Non ci sono pasti gratis. Chi non lavora (chi non si offre) non mangia (non domanda) – lo schema è sempre quello della legge di Say, o della ricchezza come dotazione naturale. Si tratta dello stesso modo di ragionare del radicalismo romantico e regressivo alla Rousseau. Anche qui non si ammette differenza tra lavoro che produce valore di scambio e lavoro che produce valore d’uso. Si appiattisce (naturalizza) il tutto sulla natura. Il lavoro è solo e soltanto dispendio di forza fisica, e ciò che esso produce sono solo e soltanto oggetti d’uso. Ecco perché pensa il rifiuto del lavoro come rifiuto della fatica fisica, come ozio, come decrescita, eccetera, suscitando il disappunto dei comunisti tutti d’un pezzo (CTP), i quali, seduti dalla stessa parte, ritengono, adottando lo stesso criterio, che chi non lavora non ha diritto a mangiare, venendo la ricchezza dalla fatica. Al rifiuto del lavoro, che perlopiù è rifiuto di faticare, di produrre oggetti d’uso, i CTP rispondono con la massima: Chi non lavora non mangia. Senonché, il lavoratore libero, nella società capitalista, a differenza dello schiavo e del servo della gleba, produce valori d’uso, ma solo come veicoli del valore di scambio. Il lavoratore non si rifiuta di produrre oggetti d’uso – (di faticare, insomma). Come potrebbe? Se non in un’utopia in cui a produrre per l’uomo ci sia lo schiavo (meccanico). Si rifiuta di produrre valori di scambio. Non valori di scambio in generale, ma solo quelli che veicolano un plusvalore. Un poeta che scrive sonetti che nessuno compra, fatica, forse anche di più di un lavoratore libero che per 18 ore spiega Dante alle Superiori e viene pagato dallo Stato o di un poeta che vende su Amazon. Il poeta produce un valore d’uso che potrebbe avere anche un valore di scambio e un prezzo (come avviene per quelli assunti a diritto d’autore [eventuale] da Amazon), ma il suo prodotto non ha domanda, anche se ha lettori. Ecco, secondo gli Economisti e i CTP il poeta non può mangiare, perché solo il valore di scambio (realizzato) decide chi può e chi non può mangiare. Se fossimo in una società dove a regnare è la penuria, avrebbe anche un senso sottomettersi al valore d’uso, ma qui siamo in una società in cui la produzione del valore d’uso è limitata dal valore di scambio e non dalla volontà del lavoratore di astenersi dalla fatica.
La critica storica che Marx conduce nel testo del 1848 è sostenuta da una splendida lettura sincronica, di tipo strutturalista. Ciò che l’operaio produce per sé, dice, non è la seta che egli tesse, non è l’oro che egli estrae dalla miniera, non è il palazzo che egli costruisce. Ciò che egli produce per sé è il salario; e seta, e oro, e palazzo si risolvono per lui in una determinata quantità di mezzi di sussistenza, forse in una giacca di cotone, in una moneta di rame e in un tugurio.
Gli oggetti d’uso che produce non sono niente per l’operaio, se non i mezzi per ottenere il salario. Questi valori d’uso appartengono a chi ha pagato l’operaio, sono la contropartita del salario. Anche per il proprietario non valgono in quanto oggetti d’uso, ma solo in quanto mezzi per rientrare in possesso del capitale anticipato, maggiorato di un guadagno. Gli oggetti d’uso sono per lui valori di scambio, venduti a un prezzo dato.
Gli Economisti, scrive Marx, dicono che il prezzo medio delle merci è uguale ai costi di produzione; che tale è la legge. Siccome i costi di produzione sono composti dalle materie prime, dai semilavorati e dalle infrastrutture (capannoni e macchine), le quali devono essere state estratte o fabbricate con lavoro umano, dunque il costo di produzione è interamente lavoro, lavoro presente e lavoro ammortizzato. Dal che risulta che il prezzo è uguale al costo del lavoro, che la base del prezzo è il lavoro.
Nell’Economia classica i prezzi ruotano introno a un centro che, essendo la fonte del valore e dunque del prezzo, non può avere prezzo. Se si prova a dargli un prezzo si cade in un circolo – dunque il lavoro, come nella teologia, è actus purus, pura attività, senza virtualità – presenza piena. Ciò significa che il lavoro è esattamente e sempre ciò che è: l’invariante. Non può cambiare, non può diventare qualcos’altro, perché è già pienamente e perfettamente ciò che è, il motore immobile, naturale, connaturato a ogni uomo: che cos’è l’uomo? È lavoro. Se non lavora non è uomo, non mangia, è morto.
Marx non si accontenta di sostituire al lavoro, centro intorno al quale ruotano tutti i valori, un altro centro, e nemmeno, cosa più importante, si accontenta di un posto vacante (strutturalismo in senso stretto). Vacanza che permette (nell’Economia post-classica) la sostituzione senza fine di segni, in una catena strutturale in cui ogni prezzo è il riferimento ad altri prezzi, in uno schema di sostituzioni indeterminato fissato da un cosiddetto battitore d’asta (Walras). Anche nel sistema col battitore si deve conoscere in anticipo ciò che si troverà alla fine.
Marx non si accontenta né del razionalismo dei primi né dell’empirismo dei secondi, e in ciò segue passo passo Hegel.
Certo, dice Marx, si potrebbero considerare le oscillazioni come legge, e la determinazione sulla base dei costi di produzione come fatto occasionale. La legge che governa la struttura dalla quale escono i prezzi sarebbe una legge di rapporti differenziali (oscillazioni). Le merci non avrebbero né una designazione estrinseca (oggetto d’uso) né un significato intrinseco (costi di produzione), ma solo un senso di posizione. Il prezzo risulterebbe sempre dalla combinazione di oggetti d’uso che non sono di per sé significanti. Il senso sarebbe sempre un risultato, un effetto: non solo un effetto come prodotto, ma anche un effetto ottico, un effetto di linguaggio, un effetto di posizione. Ci sarebbe profondamente un non-valore del prezzo, da cui il prezzo stesso risulterebbe. Dunque non ci sarebbe alcuna giustificazione del prezzo, ogni prezzo, anche il più sconsiderato, come le remunerazioni delle star della musica e del cinema e dei manager delle aziende di successo, sarebbe un prezzo esatto, equo, incassato – ogni incasso si giustificherebbe da sé, per il fatto stesso di essere stato incassato. La legge sarebbe quella della partita doppia: ogni ricavo giustifica, necessariamente, e a priori, il relativo costo. Se c’è stato un incasso vuol dire – è lapalissiano – che c’è stato un costo. Se l’artista incassa un milione di euro come ricavo, vuol dire che ha faticato per un milione di euro. Questa è la logica naturalizzante di tipo russoviana. Ma questa è anche la logica differenziale di tipo strutturalista. La coincidenza del prezzo con i costi di produzione è accidentale.
Marx non oppone a questa forma di strutturalismo l’essenzialissimo dell’Economia classica. Non dice che va bene rapportare l’incasso con il costo sostenuto. Dice che queste oscillazioni, che considerate più da vicino portano con sé le più terribili devastazioni e scuotono la società borghese dalle fondamenta come terremoti, solo queste oscillazioni determinano nel loro corso il prezzo secondo i costi di produzione. Il movimento complessivo di questo disordine è il suo ordine. Nel corso di questa anarchia industriale, in questo movimento ciclico la concorrenza compensa, per così dire, una stravaganza con l’altra.
Sono le oscillazioni anarchiche – senza governo, senza soggetto, senza centro di riferimento, senza legge – che determinano il prezzo secondo i costi di produzione. Sono le forze, le differenze di forze che spingono e producono come effetto il prezzo come costo di produzione. Sono queste forze che producono un’oscillazione, un andare su e un andare giù, che si fissa, quando si fissa, in un prezzo che ha come margine il costo di produzione. Sono queste forze che scuotono nella società borghese persino i fondamenti, e se i fondamenti riguardano il lavoro e i costi di produzione, ebbene, queste oscillazioni scuotono anche questi fondamenti, portando il prezzo al di sotto o al di sopra dei costi, in modo spropositato e persino vergognoso, portano il prezzo a livelli tali da produrre un terremoto che devasta l’intera struttura. Il prezzo non si fissa al costo di produzione, oscilla pericolosamente, nemmeno il lavoro contenuto può fermare le oscillazioni. Un effetto strutturalista, una irresponsabilità strutturalista, è inarrestabile, agisce sempre, non ci sono antidoti. Se il prezzo non si fissa al costo di produzione, va da sé, la società fallisce. Cosa succede invece quando il prezzo è superiore al costo di produzione? Succede che il costo di produzione non è un centro imperturbabile. Subisce la stessa forzatura strutturalista. Se il costo di produzione fosse uguale al lavoro spesso (e per produrre una merce si spende solo e soltanto per il lavoro), ognuno potrebbe pretendere per il suo prodotto il prezzo che desidera, e non ci sarebbe prezzo (come avviene oggi in molti mercati, dove il prezzo non ha alcun riferimento).
Il capitale non consta soltanto di prodotti materiali; esso consta pure di valori di scambio, non è dunque soltanto una somma di prodotti materiali; esso è una somma di merci, di valori di scambio, di grandezze storiche. Esso, dice Marx, rimane lo stesso se mettiamo cotone al posto di lana, riso al posto di frumento, piroscafi al posto di ferrovie, alla sola condizione che il cotone, il riso, i piroscafi – il corpo del capitale – abbia lo stesso valore di scambio, o lo stesso prezzo della lana, del frumento, delle ferrovie, in cui esso prima era incorporato.
Accanto al corpo fisico e materiale della merce c’è un corpo metafisico, immateriale. Il corpo fisico è variabile e pertanto non conta. Ciò che conta e su cui bisogna fare affidamento, dice Marx, è il corpo metafisico.
Bene, siamo all’interno di ciò che oggi chiameremmo arbitrarietà del segno. Non conta ciò in cui il valore si incorpora – lana, oro, piroscafo, ferrovia; ciò che conta è il valore ideale, che al mutare del significante rimane identico a se stesso.
Il corpo del capitale, dice Marx, può trasformarsi continuamente senza che il capitale subisca il minimo cambiamento. In più, qui Marx fa un’ulteriore distinzione, il quanto di questo capitale, il suo ammontare, non può cambiare nulla della sua destinazione di essere capitale, o di avere un prezzo determinato. Grande o piccolo che sia, un albero resta sempre un albero. Non è la grandezza – il quanto – che ci dice che cos’è un capitale, il quanto ci dice il più e il meno di una determinata cosa, non ci dice che cosa è questa cosa. Se scambiamo la merce con oro, con carta moneta o con buoni-ore lavorate, cambia forse il suo carattere di essere una merce, un valore di scambio? Certo che no.
Siamo, insomma, nel più tradizionale idealismo. Quel tipo di pensiero abbracciato oggi dagli Economisti cosiddetti circuitisti.
Si può affrontare la questione dal lato idealista, e dire che tutto cambia tranne il valore e che questo valore è uguale al lavoro contenuto, ma si finisce in un circolo tautologico. Oppure si può affrontare il problema partendo dal lato empirico e dire che il valore deriva dalla differenza di una merce da tutte le altre, ma si finisce in un regresso all’infinito. Oppure, terza ipotesi, si può affrontare il problema dicendo che la serie si arresta al limite del lavoro contenuto, o che il limite della serie è il lavoro contenuto, che le oscillazioni hanno come limite invalicabile il lavoro contenuto, che alla fine del loro andamento si ritrovano fissate al lavoro contenuto. Senonché, il lavoro contenuto ha un prezzo, e questo prezzo, dice Marx, deve soddisfare i nostri bisogni, ma questi bisogni sono storici, i nostri godimenti nascono nella società; noi li misuriamo quindi sulla base della società, e non li misuriamo sulla base dei mezzi materiali per la loro soddisfazione. Poiché sono di natura storica essi sono relativi. In più, bisogna considerare che gli operai, in cambio della loro forza-lavoro, ricevono una determinata somma di denaro. E il denaro ha un valore facciale e un potere d’acquisto. Gli operai continuano a ricevere lo stesso valore pattuito anche quando il potere di acquisto varia in più o in meno, in conseguenza di un aumento o di una diminuzione dei prezzi. Il salario nominale, dice Marx, non coincide con il salario reale. Ma né il salario nominale, cioè la somma di denaro per la quale l’operaio si vende al capitalista, né il salario reale, cioè la quantità di merci ch’egli può comperare con questo denaro, esauriscono i rapporti contenuti nel salario. Perché il salario reale è una quantità che sta sempre anche in rapporto con il guadagno o col profitto del capitalista. E questa proporzione può aumentare o diminuire. Il salario reale può restare immutato, anzi può anche aumentare, e ciò nonostante il salario relativo può diminuire e l’operaio impoverirsi rispetto al capitalista. Il potere della classe capitalista sulla classe operaia è aumentato. E poi, aggiunge Marx, riconosciamo che quanto più il lavoro è semplice, quanto più facilmente si impara, quanto minori costi di produzione occorrono per rendersene padroni, tanto più in basso cade il salario, perché, come il prezzo di qualsiasi altra merce, esso è determinato dai costi di produzione. E, ancora, più il lavoro è produttivo, più produce e più a buon mercato diventa esso stesso.
Se si segue il valore lungo la linea delle sue incarnazioni, ci si rende conto che esso slitta e sfugge continuamente – non si fissa. Il costo di produzione per esempio, diventa un mito (alla Lévi-Strauss). Bisognerebbe scartare tutti i fatti (alla Rousseau) per ottenere un valore che non sia affettato empiricamente. Ma non si può, dunque Marx insiste e chiede (siamo in Salario, prezzo e profitto): Cosa intendiamo dire quando affermiamo che i prezzi delle merci sono determinati dai salari? Poiché i salari non sono che un termine per designare il prezzo del lavoro, intendiamo dire con ciò che i prezzi delle merci sono determinati dal prezzo del lavoro. Poiché il prezzo è valore di scambiano espresso in denaro, la cosa si riduce a dire che il valore della merce è determinato dal valore del lavoro, oppure che il valore del lavoro è la misura generale del valore. Ma allora, chiede Marx, come viene determinato il valore del lavoro? Qui, dice, arriviamo a un punto morto. Insomma, dice, se noi facciamo del valore di una merce qualsiasi, per esempio il lavoro, la misura generale e il regolatore del valore, non facciamo altro che spostare la difficoltà, perché determiniamo un valore per mezzo di un altro valore che, a sua volta, ha bisogno di essere determinato – regresso infinito.
Quando per via empirica si crede di essere giunti alla fine e aver determinato il prezzo, in verità si propone un prezzo che era conosciuto già all’inizio, un prezzo ideale.
Insomma, dice Marx, il dogma che i salari determinano i prezzi delle merci si riduce a dire che il valore è determinato dal valore. Dunque, ritorna a chiedere, da cosa è determinato il valore di una merce? Davvero esso è del tutto relativo, e non si può fissarlo senza considerare una merce nei suoi rapporti con tutte le altre merci? Ma, dice, sappiamo dall’esperienza che i rapporti tra una merce e tutte le altre si estendono all’infinito.
Se non sono le merci nella loro singolarità materiale cosa determina il valore?
I valori di scambio delle merci, dice Marx, non hanno nulla a che fare con le loro proprietà naturali. Un uomo che produce un oggetto per il suo proprio uso immediato, per consumarlo egli stesso, dice, produce un prodotto (un oggetto d’uso), ma non una merce. Per produrre una merce egli non deve produrre un articolo che soddisfi un qualsiasi bisogno, e il suo lavoro stesso deve essere una parte della somma totale di lavoro impiegato dalla società. Esso deve essere subordinato alla divisione del lavoro nel seno della società. Esso non è niente senza gli altri settori del lavoro e li deve, a sua volta, integrare.
Si tratta di un passaggio notevole, che ributta il tema nell’arena strutturalista, e dice addio a ogni metafisica, all’idea stessa di sostanza del valore. Non c’è sostanza del valore, oppure se affiora, affiora a partire dalla divisione sociale del lavoro.
Se consideriamo le merci come valori, le vediamo esclusivamente sotto questo solo punto di vista, come lavoro sociale realizzato, fissato, o, se volete, cristallizzato. Sotto questo rapporto esse possono distinguersi l’una dall’altra solo perché rappresentano una quantità maggiore o minore di lavoro.
Le merci possono distinguersi l’una dall’altra, e possono farlo solo in quanto sono lavoro sociale cristallizzato – lavoro sociale cosificato. Se c’è una metafisica, questa metafisica si rende operativa cosificandosi. Se c’è una costante, un’invariante, una sostanza, eccetera, questa sostanza è una cosa, deve essere una cosa, o, perlomeno, deve agire come cosa, tornare come cosa (singolare – non il genere) – niente spirito, niente idea, niente metafisica. Se c’è metafisica, questa metafisica è fisica, materiale, terrena, storica.
Che cos’è il lavoro sociale fissato? È il lavoro sottoposto al rullo della divisione sociale del lavoro.
Il lavoro sociale non è ciò che gli operai fanno insieme, in comune. Sociale qui non vuol dire in comune. Non vuol dire nemmeno la media di un lavoro svolto insieme, ognuno secondo le proprie capacità. Il sociale al quale qui si fa riferimento attiene alla società civile. L’economia, dice Marx, occulta – nasconde – la società civile.
Che cos’è la società civile?
La società civile è quella struttura nella quale, dice Marx, l’uomo può isolarsi (Introduzione 57). In questa solitudine ciò che io posso mi appartiene: sono libero.
La divisione sociale del lavoro rende il lavoro dell’operaio tanto unilaterale quanto ha reso molteplici i suoi bisogni. E proprio per questo il suo prodotto gli serve solo come valore di scambio (Capitale I,3). La specializzazione isola il produttore nella produzione di un segmento di merce e, in casi sempre più rari, nella produzione di un solo tipo di merce. Mentre i suoi bisogni crescono, la capacità di soddisfarli è distribuita ai quattro angoli del pianeta, in altrettanti liberi produttori che fra di loro non si parlano. La divisione del lavoro, dice Marx, è una struttura spontanea di produzione, le cui fila si sono tessute e continuano a tessersi alle spalle dei produttori di merci. Struttura spontanea e anonima – niente soggetto e niente sostanza. Una struttura senza centro.
Il libero produttore, dice Marx, che produce nella solitudine della divisione del lavoro – solitudine in quanto la struttura nella quale è inserito è anonima e arbitraria, non c’è un soggetto che decide chi produce e cosa produrre -, questo produttore produce valori di scambio, oggetti che non hanno una utilità dirette per chi li produce, ma hanno un’utilità per altri, potenzialmente per ogni altro produttore distribuito nella struttura della divisione del lavoro. Il produttore non produce per il suo bisogno presente – qui si insinua, con una modalità dirompente, dunque non nella modalità ordinaria e storiografica, dunque teleologica, s’insinua la storia – produce per un bisogno eventuale, possibile. Il suo prodotto, dice Marx, serve solo come valore di scambio. L’utilità per chi lo produce è la sua generale scambiabilità. Ma questa utilità è solo eventuale – possibile. Solo quando la vendita si perfeziona, il prodotto riceve la sua conferma di valore – e il produttore riceve la sua sostanza. Il controvalore che il produttore desidera, dice Marx, si trova nelle tasche del compratore. Per tirarlo fuori di lì, la merce deve essere anzitutto valore d’uso per il possessore del controvalore, e quindi, dice, il lavoro speso in essa dev’essere speso in forma socialmente utile, cioè far buona prova come articolazione della divisione sociale del lavoro.
Anche qui, quando Marx parla di lavoro speso in forma socialmente utile, non allude ad alcuna comunità di produttori o consumatori. Sia il produttore, sia il consumatore, producono e consumano in piena libertà (solitudine). Senonché, il loro prodotto vede confermato il suo valore solo in quanto articolazione della divisione sociale del lavoro, cioè, solo se si innesta in questa struttura anonima e arbitraria, solo in quanto parte di questa comunità senza comunità. Può darsi, dice Marx, che la merce sia prodotto di un nuovo modo di lavoro, che pretenda di soddisfare un bisogno sopravvenuto di recente, o che voglia provocare per la prima volta, di sua iniziativa, un bisogno. Un particolare atto lavorativo che ancora ieri era una funzione tra le molte funzioni di un medesimo produttore di merci, oggi forse si strappa via da questo nesso, si fa indipendente e, proprio per questo, manda al mercato il proprio prodotto parziale come merce autonoma. Le circostanze possono essere mature o immature per tale processo di scissione. Il prodotto soddisfa oggi un bisogno sociale [anche qui, sociale vuol dire strutturale, un bisogno che si esprime nella struttura della divisione del lavoro, che dunque emerge in modo autonomo, comune, ma senza comunità]. Domani, dice Marx, forse sarà cacciato dal suo posto, del tutto o parzialmente, da una specie simile di prodotto. Anche se il lavoro è membro patentato della divisione sociale del lavoro, se dal suo cantuccio già in passato ha visto confermare la sua offerta, con ciò non è garantito affatto anche oggi il suo proprio valore d’uso. Se il bisogno sociale di quel prodotto [il bisogno che in quel frangente spazio-temporale la struttura esprime], che ha la sua misura come tutto il resto, è soddisfatto già da prodotti rivali, il nostro prodotto diventa sovrabbondante, superfluo e con ciò inutile – inutile. Inutile anche e soprattutto per il suo produttore.
Quando si producono valori di scambio la conferma avviene a posteriori, dopo la produzione, da una struttura anonima e arbitraria. L’utilità o l’inutilità del proprio lavoro è sancita da questa struttura. Non siamo nell’ordine della fatica e del dispendio di cervello e muscoli. Non siamo in un regime di auto-consumo. Siamo nella divisione sociale del lavoro, dove il valore d’uso è subordinato al valore di scambio, e dove il lavoro utile è subordinato al lavoro astratto. È il valore di scambio, la sua filiera e la sua struttura, che decidono chi può e chi non può produrre, che cosa si può produrre, e lo decide a fine fatica. Non è la fatica che blocca o spaventa il lavoratore. Non è l’ozio il suo orizzonte. È il valore di scambio il suo padrone, quel padrone che lo mette a riposto forzato, che lo stacca dalla catena del senso, che lo tiene disoccupato, in un ozio forzato più pesante della fatica. Rifiuto del lavoro significa prima di tutto e soltanto rifiuto del lavoro astratto, rifiuto del valore di scambio come regime che stacca la spina e rende insensata la fatica del lavoratore, anche quando la sua fatica si è applicata con maestria e devozione e ha prodotto un valore d’uso di tutto rispetto.
Quando, invece, il valore d’uso fa buona prova di sé, dice Marx, realizza il suo valore di scambio. Ora si domanda: quanto denaro? Certo, la risposta è anticipata nel prezzo della merce, esponente della sua grandezza di valore. Questa grandezza è arbitraria, e si attesta sui costi di produzione presunti. Presunti perché? Perché è sempre la divisione del lavoro – la struttura anonima – che corregge oggettivamente, dice Marx, cioè in modo anonimo, eventuali errori di calcolo del produttore, perché la struttura non tollera produttori che non producano alla media socialmente necessaria di tempo di lavoro. Anche qui il termine sociale è fuorviante. Non c’è nessuna media, e non c’è società, stare insieme, decidere insieme, parlarsi. I produttori non hanno bisogno di parlarsi e sono liberi proprio in quanto non si parlano e decidono autonomamente. Cos’è dunque il lavoro socialmente necessario? Quel che ieri era, senza possibilità di dubbio, tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione di un determinato oggetto d’uso, dice Marx, oggi ha cessato di esse tale, come il compratore dimostra zelantemente con le quotazioni dei prezzi di vari rivali del nostro prodotto. Per nostra disgrazia ci sono molti produttori dello stesso oggetto d’uso al mondo. Poniamo infine che ogni unità dell’oggetto d’uso prodotto gettato sul mercato contenga soltanto tempo di lavoro socialmente necessario. Tuttavia, dice, la somma complessiva di questi oggetti d’uso può contenere tempo di lavoro speso in modo superfluo – inutile. Se lo stomaco del mercato non è in grado di assorbire la quantità complessiva di oggetti al prezzo normale fissato, ciò prova che è stata spesa una parte troppo grande del tempo complessivo sociale di lavoro nella produzione di questi determinati oggetti. Insomma, puoi produrre alle condizioni date, con le tecniche date e ai costi dati, gli stessi di tutti gli altri, ma la struttura può decretare l’inutilità del tuo prodotto e del tuo lavoro. Non c’è alcuna garanzia. Puoi aver faticato bene, ma la conferma della fatica arriva sempre a posteriori e dal mercato. L’effetto è lo stesso, dice Marx, che se ogni singolo produttore avesse impiegato nel suo prodotto individuale più del tempo di lavoro socialmente necessario. Il tuo buon prodotto è bocciato, e tu sei bocciato, come se tu avessi lavorato male, allo stesso modo di un incapace e non avesi creato ricchezza. Di fronte alla domanda tutti i prodotti delle stesso genere (e in generale tutti i prodotti di ogni natura) valgono come un unico prodotto, e un singolo prodotto vale come una singola aliquota di esso. A parità di prodotti, tutti si livellano sul prodotto che costa meno. A dettare le condizioni è la concorrenza tra produttori.
A questo punto, dice Marx, i possessori di merci scoprono che quella stessa divisione sociale del lavoro che li rende produttori privati indipendenti, rende poi indipendente anche proprio da loro il processo sociale di produzione e i loro rapporti entro questo processo, e che l’indipendenza delle persone l’una dall’altra s’integra in un sistema di dipendenza onnilaterale e imposta dalle cose. A comandare è la struttura anonima, e che il salto mortale necessario per la realizzazione del prezzo riesca è deciso dal caso.
Cosa distingue questa struttura proposta da Marx dalla struttura degli strutturalisti? Per gli strutturalisti il centro è vacante, e poiché è vuoto permette innumerevoli permutazioni, e tutte le permutazioni, poiché hanno un senso, sono giuste. Non c’è un centro regolatore. Un’unità di misura fissa, un parametro statico. Tutto si muove, tutto cambia, tutto diviene.
Per gli Economisti classici, per Ricardo, al centro c’è un soggetto che misura, ma che, stando fuori dalla competizione, non può essere misurato, perché se fosse misurabile e venisse misurato, non potrebbe occupare il posto che occupa – il sovrano, la sostanza.
Marx sa benissimo che anche il lavoro è apprezzato, non sta fuori dalla struttura, sollecitato dalle altre forze che si muovono e competono subisce un continuo cambiamento di valore – è una forza produttiva e non un soggetto. E il valore stesso è tanto arbitrario quanto lo è il significante che lo trasporta: dunque arbitrarietà del significante e arbitrarietà del significato. Insignificanza del valore d’uso (quando si tratta di valori di scambio) e insignificanza del valore di scambio stesso. I valori di scambio non hanno alcuna base solida di ancoraggio. Questa base non è né il lavoro concreto né il lavoro astratto.
Fin qui la decostruzione della differenza tra lavoro concreto e lavoro astratto.
La decostruzione di Marx, a differenza di altri tipi di decostruzione (quella di Baudrillard, per esempio), ha un elemento materialista che la caratterizza.
Gli Economisti, scrive Marx (Lavoro salariato e capitale), dicono che il prezzo medio delle merci è uguale ai costi di produzione; che tale è la legge.
In Miseria della filosofia Marx aveva già avanzato questa riserva: Non è affatto la vendita di un prodotto qualsiasi al prezzo del costo di produzione che costituisce «il rapporto di proporzionalità» tra l’offerta e la domanda, cioè la quota proporzionale di questo prodotto in relazione all’insieme della produzione; sono le variazioni della domanda e dell’offerta a indicare al produttore la quantità in cui bisogna produrre una data merce per ricevere in cambio almeno le spese di produzione. E come tali variazioni sono continue, vi è anche un continuo movimento di flusso e riflusso di capitali nei diversi rami dell’industria. Non «esiste un rapporto di proporzionalità» del tutto costituito – dice Marx; esiste solo un movimento costituente. Come nota giustamente Ricardo, dice Marx, «aumentando costantemente la produttività, diminuiamo costantemente il valore di alcune cose già prima prodotte». È importante insistere su questo punto, dice Marx, che cioè a determinare il valore non è il tempo in cui la cosa è stata prodotta, bensì il minimo di tempo in cui essa è suscettibile di essere prodotta, minimo che viene rivelato appunto dalla concorrenza.
Quando aumenta la produttività, tutti i valori vengono riscritti. È il futuro che scrive e riscrive il passato. Supponete per un istante, dice Marx, che non esista più concorrenza, e che quindi non esista più alcun mezzo per constatare il minimo di lavoro necessario alla produzione di una merce; che accadrà? Sarà sufficiente impiegare nella produzione di un oggetto sei ore di lavoro per essere in diritto, secondo Proudhon, di esigere in cambio il sestuplo di colui che per la produzione del medesimo oggetto abbia impiegato solo un’ora. Il che cozza contro il buon senso, oltre che con la ragionevolezza economica. La formula per così dire «egualitaria» è un’esclusiva di Proudhon? chiede Marx. È stato lui per primo ad immaginare di riformare la società, trasformando tutti gli uomini in lavoratori immediati, che scambiano quantità di lavoro eguali? Certo che no.
È stato il comunista Bray a inventare la formula: «Il costo di produzione determinerebbe in ogni circostanza il valore del prodotto, e valori eguali verrebbero scambiati sempre con valori eguali».
Un’ora di lavoro di Pietro si scambia con un’ora di lavoro di Paolo – dice Marx. Ecco l’assioma fondamentale di Bray. Dunque, dice Marx, se si suppone che tutti i membri della società siano lavoratori immediati, lo scambio di quantità eguali di ore di lavoro è possibile solo alla condizione che sia stato convenuto in anticipo il numero delle ore che sarà necessario impiegare nella produzione materiale. Ma una simile convenzione esclude lo scambio individuale.
Dunque, da una parte abbiamo valori di scambio che aspirano a realizzare il prezzo e che sono indifferenti al valore d’uso, e prezzi che sono indifferenti al valore di scambio, che oscilla senza ancoraggio, ma che, non possono scendere al di sotto dei costi di produzione. Poiché i costi di produzione sono composti da lavoro presente e lavoro passato, il limite di oscillazione è costituito dal lavoro che di volta in volta si cristallizza in un prodotto. Il limite alle oscillazioni è il minor costo di produzione espresso in un dato momento in un mercato. Si tratta, anche in questo caso, di un valore variabile, storico, ma tuttavia fisso, consistente, materiale, insormontabile.
Mentre invece l’Economia ciancia intorno a un valore ideale – sia esso naturale o convenzionale. Per Adam Smith, scrive Marx nei Lineamenti (II, 277), il lavoro non muta mai il suo valore, una determinata quantità di lavoro per l’operaio è sempre una determinata quantità di lavoro, ossia in Smith, un sacrificio quantitativamente uguale. Che io riceva molto o poco per un’ora di lavoro – e ciò dipende dalla produttività e da altre circostanze – io ho lavorato una sola ora. Ciò che ho dovuto pagare per il risultato del mio lavoro, per il mio salario, è sempre la stessa ora lavorativa, comunque possa mutare il risultato. «Uguali quantità di lavoro devono avere in tutti i tempi e in tutti i luoghi, per chi lavora, un uguale valore. Nel suo normale stato di salute, di forza e di attività, e secondo il grado abituale di abilità e di destrezza che egli può possedere, egli deve sempre sacrificare la medesima porzione del riposo, della sua libertà, e della sua felicità. Quale che sia la quantità di merci che egli riceve come mercede del suo lavoro, il prezzo che egli paga è sempre lo stesso. Tale prezzo può certo comprare una quantità ora minore ora maggiore di queste merci, ma solo perché muta il loro valore, non il valore del lavoro che compra. Esso è perciò il prezzo reale delle merci; il denaro è soltanto il loro prezzo nominale.»
La struttura di Smith, una struttura che permetta la variazione di tutti i prezzi, ha un centro che non può mutare. Il metro che misura deve esser fisso – non misurabile. Sta, come causa non causata, come motore immobile, come sostanza, come soggetto, dunque come attività pura (senza possibilità di cambiare – senza negatività), sta a tutto ciò che varia (i prezzi) come ciò che è fisso, immobile, fissato alla sua natura fisica e biologica – senza storia.
Ciò che Marx critica in Smith è la concezione di una struttura con un centro che permette infinite permutazioni, di una storia che ha il suo senso fuori dalla storia.
Lavorerai col sudore della tua fronte! fu la maledizione che Jehova scagliò ad Adamo. E così, dice Marx, come maledizione, Adam Smith considera il lavoro. Il «riposo» figura come lo stato adeguato, che si identifica con la «libertà» e la «felicità». Il pensiero che l’individuo «nel suo normale stato di salute, forza, attività, abilità e destrezza» abbia anche bisogno di una normale porzione di lavoro, e di eliminare il riposo, sembra non sfiorare nemmeno la mente di Adam Smith. Senza dubbio la misura del lavoro si presenta come un dato eterno, che riguarda lo scopo da raggiungere e gli ostacoli che per raggiungerlo debbono essere superati mediante il lavoro. Ma che questo dover superare ostacoli sia in sé una manifestazione di libertà – e che inoltre gli scopi vengano sfrondati dalla parvenza della pura necessità naturale esterna, e siano posti come scopo che l’individuo stesso pone – ossia come realizzazione di sé. Oggettivazione del soggetto, e perciò come libertà reale, la cui azione è appunto lavoro: questo, A. Smith lo sospetta tanto meno. Senza dubbio egli ha ragione nel fatto che nelle forme storiche del lavoro, quale lavoro schiavistico, lavoro servile e lavoro salariato, il lavoro si presenti sempre come qualcosa di repellente, sempre come lavoro coercitivo esterno, di fronte a cui il non-lavoro si presenta come «libertà» e «felicità». Del lavoro che ancora non si è creato le condizioni affinché il lavoro sia lavoro attraente, auto-realizzazione dell’individuo, il che significa affatto che sia un puro spasso, in puro divertimento, secondo la concezione ingenua e abbastanza frivola di Fourier. Un lavoro realmente libero, per esempio, comporre, è al tempo stesso la cosa maledettamente più seria di questo mondo, la fatica più intensiva che si sia. Sia come sia, dice Marx, qui non si tratta di considerare la teoria del lavoro o del suo momento filosofico, bensì del momento economico.
La negazione del riposo, in quanto mera negazione, sacrificio ascetico, non crea nulla. Uno può macerarsi, martoriarsi ecc. tutto il giorno, come monaci ecc., e questa quantità di sacrificio che egli fa non cava un ragno dal buco. Il prezzo naturale delle cose non sta nel sacrificio che si fa per ottenerle. Ciò fa pensare piuttosto alla concezione non-industriale che vuole acquistare ricchezza facendo sacrifici agli dei. A. Smith considera il lavoro sotto un profilo psicologico, in relazione alla gioia o alla infelicità che arreca all’individuo. Ma fuori da questa relazione affettiva con la sua attività, esso è pur qualcos’altro – in primo luogo per altri, giacché il mero sacrificio di A non gioverebbe affatto a B; eccetera…
Chi non lavora non mangia. Critica al programma di Gotha
