L’Ape e l’Architetto

uomo

Nel capitolo 5 del primo libro del Capitale Marx spiega cos’è il lavoro.
Il lavoro è un processo che si svolge tra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. L’uomo mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita. Operando mediante tale moto sulla natura fuori di sé cambiandola, cambia allo stesso tempo la natura sua propria.
Il processo di ricambio organico è diviso da Marx in due tempi. Un tempo arcaico, remoto, che si situa sullo sfondo lontano delle età primitive, in cui il lavoro non si era spogliato della sua prima forma di tipo istintiva. E un tempo in cui il lavoro si presenta in una forma nella quale esso appartiene esclusivamente all’uomo.
Insomma, Marx distingue tra un lavoro istintivo e animale e un lavoro umano. Pone la differenza tra uomo e animale, tira una riga netta, sapendo precisamente dove segnare il margine tra ciò che è propriamente umano e ciò che non è umano, margine che oggi diventa sempre più difficile tracciare. Soprattutto, considera la differenza tra l’uomo e la natura, tra il soggetto e il suo oggetto come acquisita d’ufficio. Anche in questo caso agisce come se sapesse esattamente dove tracciare il margine. In più, si toglie dall’assoluto, suppone un fuori, esterno alla divisione, dal quale tracciare la soglia.
Dove pone Marx la soglia tra l’uomo e la natura?
La soglia tra l’uomo e la natura presuppone la soglia tra l’uomo e l’animale. Solo in quanto l’uomo si distingue dall’animale, diventa capace di distinguere tra sé e la natura.
Il ragno, dice Marx, compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin dal principio distingue il peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell’elemento naturale; egli realizza nell’elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, da lui ben conosciuto, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà. E questa subordinazione non è un atto isolato. Oltre lo sforzo degli organi che lavorano, è necessaria, per tutta la durata del lavoro, la volontà conforme allo scopo, ossia il lavoro stesso, l’oggetto del lavoro e i mezzi del lavoro.
Ciò che distingue l’uomo dall’animale è l’idea. L’animale è un tutt’uno con la cosa. Non distingue un sé che agisce da una natura sulla quale agire. Non pensa la distinzione tra sé e il mondo al di fuori di sé. L’animale non ha un mondo, è privo di mondo, non ha un oggetto, un suo oggetto. Non pensa, dunque non idealizza. Non forma le cose secondo un’idea, le cose fluisco, e lui con esse, nel fluire generale dell’universo. La materia non si fissa, rimane dinamica, non si attualizza, non si presenta, non si forma. La forma è forma per noi, che sappiamo distinguere tra forma e contenuto, ma non è forma per l’animale. L’animale non sa di tessere la sua tela. La tela non è sua, perché nemmeno lui si appartiene.
Solo sullo sfondo della divisione tra uomo e animale, appare la divisione tra uomo a natura. È su questa divisione primordiale che può elevarsi l’idea, visto che l’idea è il porre la materia come scopo della propria azione. L’animale non ha proprietà, non gli appartiene un contesto naturale. Non ha una casa sua propria. L’animale agisce, si muove, non muore, perisce, si decompone, termina, ma propriamente non muore, se la morte è la prefigurazione della propria fine. Non avendo se stesso come fine, essendo solo ingranaggio e mezzo nell’infinità dell’universo, non muore. Non c’è una dignità animale. Gli animali sono confinati ad una fissità dell’innato, del cablaggio o del programma innato. Essi si muovono, si agitano, reagiscono agli stimoli, provano anche dei sentimenti, ma non rispondono, non decidono, non dicono né si, né no. Mentre l’uomo, invece, sarebbe libero di agire, deciderebbe aldilà del macchinario, libero dall’istinto, dal cablaggio, dal ripetitivo, dall’automatico.
Su questa opposizione tra uomo e animale, tra uomo e macchina, tra uomo e natura, tra cultura e natura si costruisce un sistema di validazione, di verifica, di verità.
Come elementi accessori di questo sistema di verità emergono una estetica (nel senso dell’estetista) e una condotta igienica (sarebbe errato chiamarla morale) che associano ad ogni comportamento meccanico o animale l’etero-direzione e ad ogni comportamento umano (morale, estetico) l’autonomia e la libertà; e che vedono nell’uomo che lavora – nel proletario – , assoggettato contemporaneamente alla macchina e al bisogno organico (fame), l’abominio; soprattutto quando l’abominevole, come nel caso della soggezione al social-media, è accostato con intenzione e piacere.
 
II
 
Secondo la tradizione che ancora ci ispira – dice Heidegger (Domande fondamentali della filosofia . Selezione di «problemi» della «logica» – lezioni 1937-38) – la verità è correttezza. Ancora all’inizio dell’età moderna e soprattutto nel medio evo la correttezza, intesa come rectitudo, prende il nome di adaequatio o di assimilatio o di convenientia. Si tratta di determinazioni che risalgono ad Aristotele, il quale assume come ομοίωσις (adeguazione) la verità accolta nel λόγος. La rappresentazione si adegua a quel che deve essere rappresentato. L’enunciato che contiene la rappresentazione della pietra è qualcosa di spirituale, che riguarda l’anima, e in ogni caso qualcosa di diverso dalla pietra.
In che modo l’enunciazione deve adeguarsi alla pietra?
È evidente che la rappresentazione non può – e non deve – diventare simile alla pietra. Non può diventare di pietra. Se così fosse, nel caso di un’enunciazione sul tavolo, dovrebbe diventare tavolo, e nell’enunciazione di un cane diventare cane, eccetera. Ad ogni modo, la rappresentazione deve presentare la cosa così come essa è.
Dirigendosi verso la cosa la rappresentazione può sbagliare e cogliere il falso. Ma anche nella scorrettezza la misura è data dalla correttezza. Così, di fatto, dice Heidegger, la determinazione della verità come correttezza, unitamente al suo contrario, la scorrettezza (la falsità), è chiara come la luce del sole. La verità è l’accordo della conoscenza (rappresentazione, pensiero, giudizio, enunciazione) con l’oggetto.
Contro questa concezione della verità, per certi versi ingenua, sorsero delle obiezioni quando si cominciò a dubitare, dice Heidegger, che la nostra rappresentazione raggiungesse la cosa stessa in sé, invece di restare nell’ambito della sua propria attività, ovvero entro l’ambito dell’«anima», dello spirito, della coscienza, dell’io. Dando spazio a questo dubbio si disse che le cose raggiunte dalla rappresentazione sono sempre e soltanto quelle che noi ci rappresentiamo; che, insomma, la rappresentazione non è, come si credeva, una riproduzione della cosa puntata dal sensorio. Di conseguenza si assunse l’enunciazione a proposito della verità come rappresentazione di una rappresentazione, ossia come una congiunzione di rappresentazioni. Questa congiunzione è un’attività che avviene solo nella coscienza.
Con questa dottrina, dice Heidegger, si credeva di aver purificato e superato «criticamente» la determinazione della verità come correttezza. Solo che questa «fede» – dice Heidegger – è un errore. Perché anche nel caso in cui si consideri la conoscenza come un riferimento esclusivo a rappresentazioni, non si fa altro che delimitare l’estensione del rappresentato, ma, in ogni caso, la rappresentazione si dirige verso un rappresentato continuando a concepire la verità come correttezza della rappresentazione al rappresentato.
L’opinione contenuta in questa dottrina, dice Heidegger, secondo cui la nostra rappresentazione si riferirebbe solo al rappresentato (e non alla cosa stessa), al perceptum, all’idea, prende il nome di idealismo.
La dottrina opposta, secondo cui la rappresentazione raggiungerebbe le cose stesse (res) e quel che ad esse appartiene (realia), si chiama, da quando l’idealismo ha fatto sentire il suo peso, realismo. Eppure, dice Heidegger, questi due fratelli rivali, ciascuno dei quali ritiene di essere superiore all’altro, vanno completamente d’accordo, senza rendersene conto chiaramente, sulla cosa essenziale, quella cioè che fornisce la loro occasione e la possibilità della contesa: che il rapporto con l’ente è la rappresentazione dell’ente stesso e che la verità della rappresentazione consiste nella correttezza di tale rappresentazione. Il realismo sta sullo stesso piano dell’idealismo.
Se si intende il realismo in modo originario e rigoroso si vede come anche esso sia un idealismo. Giacché, dice, anche secondo la dottrina del realismo, tanto di quello critico quanto di quello ingenuo, la res, l’ente, è raggiunta sulla strada della rappresentazione, dell’idea. L’idealismo e il realismo circoscrivono quindi le due posizioni estreme nel rapporto dell’uomo con l’ente. Che la concezione della verità come correttezza della rappresentazione sia di per sé evidente è opinione diffusa sia nella filosofia sia al di fuori di essa.
Da cosa è resa possibile la concezione della verità come adeguazione, come correttezza?
 
III
 
Nella proposizione «La pietra è dura», l’enunciazione e la rappresentazione, dice Heidegger, devono dirigersi verso l’oggetto, questo ente (la pietra stessa) deve essere preliminarmente accessibile.
Affinché la rappresentazione possa dirigersi verso qualcosa, questo qualcosa (la pietra, il frutto, la montagna, il mare) deve essere accessibile, disponibile, deve essere là. [Per l’animale la cosa stessa non sarebbe ancora là, l’animale non avrebbe il questo e il quello, e dunque nemmeno l’ora].
Tuttavia, dice Heidegger, non basta che la cosa (la pietra) sia accessibile. Deve mantenersi aperta non solo la pietra stessa, ma anche l’area che il dirigersi verso la cosa deve abbracciare per cogliere la pietra stessa. Insomma, la pietra non può essere colta nello spazio vuoto, la pietra è sempre colta sullo sfondo di un ambiente che l’accoglie. Anche questo ambiente, allo stesso modo della pietra, deve essere accessibile. Insieme alla pietra deve darsi anche l’area circostante. Inoltre, dice, anche la persona che compie la rappresentazione e che con la rappresentazione si dirige verso la cosa deve restare aperta, deve essere disponibile. Infine, la persona deve essere aperta anche per l’altra persona, affinché, nella comune rappresentazione di ciò che viene comunicato nell’enunciazione, sia possibile dirigersi verso una stessa cosa insieme agli altri e a partire dal con-essere con gli altri, trovando con loro l’accordo sulla correttezza della rappresentazione.
La correttezza dell’enunciazione presuppone 4 ambiti aperti: 1) della cosa, 2) l’ambito tra la persona e la cosa, 3) della persona nei confronti della cosa, 4) della persona nei confronti dell’altra persona. In più, dice Heidegger, questo aperto non sarebbe quel che è e che deve essere, se ognuno dei membri fosse di nuovo incapsulato nella sua separazione dagli altri. Non può darsi una pietra senza un contesto, la pietra non può essere assunta fuori contesto. Non ci sono pietre fuori contesto. Così come non ci sono persone fuori contesto. Il contesto, la pietra e la persona sono contemporanei e sono un tutt’uno.
Questa quadruplicità del tutt’uno è l’aperto, il dischiuso – dice Heidegger. Questo dischiuso non viene solo prodotto grazie alla correttezza della rappresentazione, ma al contrario viene assunto come qualcosa che già si impone. La correttezza della rappresentazione è possibile solo quando essa possa stabilirsi nell’essere-aperto come in quel che la regge e la protegge. L’essere-aperto è il fondamento, il suolo, lo spazio-di-gioco di ogni correttezza.
Si potrebbe ritenere che il dischiuso, in quanto fondamento della verità come certezza, debba essere interrogato, debba fornire esso stesso una giustificazione. Altrimenti, la verità stessa si troverebbe a poggiare i piedi su qualcosa di arbitrario.
Può stupire, dice Heidegger, che finora questo fondamento della correttezza non sia mai stato messo seriamente in questione. Il fatto non sorprende se si considera che la relazione dell’uomo con l’ente, concepita sin dall’antichità come rappresentare e apprendere immediati, sembra essere quella più usuale. Sino al punto che anche l’essenza dell’uomo si è modellata su di essa. Che cosa dice, infatti, l’antica e ancora oggi valida definizione essenziale dell’uomo come animal rationale (zòon lògon èchon)? Si traduce: l’uomo è quell’essenza vivente che ragiona; l’uomo è un animale, ma un animale dotato di ragione.
Che cosa significa ragione [Vernunft], ratio, νοῦς? – chiede Heidegger.
Se ragioniamo in modo metafisico – e non psicologico – allora Vernunft significa: l’immediato apprendimento dell’ente.
La definizione corrente dell’uomo assume ora questo significato: l’uomo, ossia quell’essenza che apprende l’ente.
Non rimane da chiarire se l’essenza della verità dipenda dall’essenza dell’uomo di volta in volta data, oppure se non sia il contrario.
 
IV
 
Si dice che l’essenza di una cosa sia quel tratto generale e unico che vale per i numerosi casi singoli. L’essenza del Tavolo, dice Heidegger, indica quel medesimo tratto che spetta a ogni tavolo in quanto tavolo. L’universale è quindi quel che dà la misura «all’insieme» delle sue reali e possibili particolarità. Stendersi dall’alto e avere valore si dice in greco κατά (cfr. κατηγορία). L’insieme che racchiude in sé tutti i singoli casi si dice ὄλον. L’essenza che vale per molti casi è dunque το καθόλου.
L’essenza, dice Heidegger, sovrasta il singolo caso e per questa ragione la si intende anche come γένος. Si è soliti tradurre questa denominazione con genere. «Tavolo in generale» è il genere che comprende le specie dei tavoli per mangiare, per scrivere, per cucire, i quali essi stessi esistono «realmente» solo nelle loro singolarità, di nuovo sempre diverse. Ma qui γένος è ancora più vicino al significato originario della parola: la generazione, la discendenza, la provenienza. Solo con il predominio della logica, γένος come provenienza diviene γένος «genere» nel senso dell‘universalità che sta al di sopra della specie.
L’essenza, dice Heidegger, è ciò da cui la singola cosa, in quel che essa è, proviene, da cui discende. Per questa ragione, l’essenza di una cosa, ossia quel che è di volta in volta singolo, può anche essere colto come quel «che» il di volta in volta singolo, in un certo senso, «era» prima di diventare quel singolo che esso «è». Perché se fosse già, non importa come, uguale al tavolo in generale, allora non sarebbe mai possibile costruire un singolo tavolo; mancherebbe proprio quel che questo singolo tavolo in quanto tavolo deve diventare. L’essenza viene quindi intesa da Aristotele come quell’essere del singolo ente che esso, il singolo ente, era già prima di diventare questo singolo ente (το τί ἦν εἶναι). Tutte queste determinazioni dell’essenzialità dell’essenza, το καθόλου (il generale), το γένος (la provenienza), το τί ἦν εἶναι (ciò-che-era-essere), colgono l’essenza come quel che precede e sta nel fondamento della singola cosa, ὑπο/κείμενον.
 
V
 
La prima caratteristica che Aristotele introduce relativamente all’essenza, dice Heidegger, è quella secondo cui l’essenza contiene il generale, per esempio, l’essenza tavolo è tutto quel che i singoli tavoli hanno in comune e quindi nell’enunciazione su di essi quel che vale per tutti i tavoli. Questa caratteristica dell’essenza, quel che è comune rispetto ai casi singoli, è stata messa in rilievo da Platone, che l’ha chiamata το κοινόν.
Questo carattere dell’essenza, di essere il tratto generale, da allora in poi è rimasto il più usuale, anche se certamente il più superficiale. Infatti, non c’è bisogno di una meditazione approfondita per vedere che è insufficiente caratterizzare l’essenza come κοινόν, l’universale che vale per molti casi singoli. Perché quel che costituisce l’essenza del tavolo non è l’essenza per il fatto di valere per molti singoli tavoli, reali e possibili, ma al contrario: può valere per i singoli tavoli solo in quanto ne è l’essenza. Il carattere del κοινόν non può essere il contrassegno autentico dell’essenza; in ogni caso esso è la conseguenza dell’essenza.
Se esaminiamo i restanti caratteri dell’essenza introdotti da Aristotele, dice Heidegger, ci imbattiamo in una determinazione tanto semplice da non dirci nulla: l’essenza di qualcosa è quel che cerchiamo quando ci chiediamo τι εστιν, «che cos’è questo?», «che cos’è questo e che cos’è quello?», una pianta, una casa. L’essenza è il τί εἶναι, il che-cos’è di un ente. Chiederci che cosa sia qualcosa ci è troppo familiare. Che cosa qualcosa sia è la sua essenza. Ma che cos’è questo stesso «che cosa»? C’è ancora una risposta ulteriore? Certamente – risponde Heidegger. La risposta è stata data da Platone. Che cosa sia qualcosa, il che-cos’è (το τί εἶναι), per esempio che cosa sia una casa o un uomo, è quel che nella cosa cui ci si rivolge è costantemente presente. Una casa non potrebbe mai crollare se non fosse una casa.
Questo elemento costante è, al tempo stesso, dice Heidegger, quel che, quando ci imbattiamo in una casa nominandola ed esperendola in quanto quella cosa che essa è, per esempio in quanto casa, abbiamo sin dall’inizio nello sguardo, anche se non guardiamo. Entrando in una casa, prestiamo attenzione alla porta, alle scale, ai corridoi e alle camere e solo a queste cose, perché altrimenti non potremmo affatto muoverci all’interno della casa. Per contro, non prestiamo alcuna vera e propria attenzione a quel che tutte le cose elencate sono, prese unitariamente, ossia la casa. Tuttavia, proprio quel che quelle cose sono, la casa, l’essenza, viene visto anticipatamente, sempre, ma non propriamente osservato. Se, infatti, volessimo abbandonarci ad una simile osservazione dell’essenza, non entreremmo mai nella casa, né vi abiteremmo mai. Eppure, di nuovo, il che-cos’è, l’elemento costante viene comunque anticipatamente visto, e visto necessariamente. Vedere si dice in greco ιδειν, la cosa vista nel suo essere-stata-vista si dice ἰδέα. Quel che viene visto è quel che l’ente dà di sé anticipatamente e costantemente. Che cosa esso sia, il suo che-cos’è è l’ἰδέα; e inversamente l’«idea» è il che-cos’è e il che-cos’è l’essenza. L’ἰδέα è, più esattamente e pensata in maniera greca: l’aspetto offerto da qualcosa, la sembianza che qualcosa ha e che, per così dire, mette davanti a sé per offrirsi alla visione, ειδος. Solo di fronte a quel che è anticipatamente e costantemente visto in questo modo, visto e non osservato propriamente, per esempio la casa, possiamo fare esperienza di questa porta in quanto porta, di queste scale in quanto scale per accedere a questo piano della casa e alle sue camere, e servircene. Che cosa succederebbe se questa visione mancasse? Si provi a pensare questa possibilità fino in fondo – dice Heidegger.
 
VI
 
Se nel nostro rapporto immediato con il singolo ente non scorgessimo già anticipatamente di volta in volta l’essenza, in termini platonici, se non avessimo anticipatamente nello sguardo le «idee» delle singole cose, allora, dice Heidegger, saremmo e resteremmo ciechi di fronte a tutto quel che queste cose sono nel particolare, in questo o in quel modo, qui e ora, e nelle relazioni che di volta in volta stabiliscono. Di più ancora: il modo e l’ampiezza in cui scorgiamo l’essenza ci permettono anche di esperire e di determinare il particolare delle cose. Quel che sta nello sguardo preliminare e il modo in cui esso sta nello sguardo preliminare decidono di quel che noi di volta in volta effettivamente vediamo nel particolare. Questo rapporto fondamentale, sul quale nel pensiero usuale non ci si sofferma mai e al quale si pensa troppo raramente nonostante le numerose indicazioni, si fa particolarmente chiaro nel caso negativo.
Non quel che constatiamo in maniera presumibilmente esatta e addirittura con strumenti e apparecchiature è l’essenziale, ma solo lo sguardo preliminare che apre il campo ad ogni constatazione. In termini platonici lo sguardo preliminare sull’aspetto offerto da qualcosa, sul suo ειδος, dà l’ἰδέα, quel che l’ente è, la sua essenza.
 
 
VII
 
Nella traduzione (trasporto) in latino della concezione greca dell’ente, dice Heidegger, l’ ἰδέα non venne più compresa a partire dall’ente e dal suo carattere fondamentale, la presenza, ma come l’immagine riflessa e, per così dire, come il risultato di determinate comprensioni e rappresentazioni. L’idea è una semplice rappresentazione (percipere, perceptio, ἰδέα); al tempo stesso, essa è accomunata alle cose singole (Cartesio, nominalismo).
Per i greci, che hanno interpretato l’ente come costantemente presente, dice Heidegger, quel che il tavolo in quanto tavolo è appartiene ad ogni tavolo, tanto che sia realmente presente quanto che sia solo pensato o desiderato. Il che-cos’è è l’elemento costante. Ma il fatto che un singolo tavolo, come si dice oggi, «esista», che sia reale e presente, la sua realtà ed esistenza, tutto questo non appartiene affatto alla sua essenza. In termini strettamente platonici, l’essenza di un ente viene compromessa proprio dalla sua realizzazione, perdendo la sua purezza e così, in un certo senso, la sua universalità. Nella misura in cui, per esempio, l’essenza «tavolo» viene realizzata qui e ora con questo determinato legno, con determinate misure e secondo un determinato progetto, allora qui sarà «reale» solo un determinato «tavolo», mentre proprio l’essenza «tavolo» in questo singolo tavolo non sarà pienamente reale secondo tutte le possibilità e varianti, sarà invece limitata. Questo singolo tavolo qui e ora, pensato e visto in maniera greco-platonica, non è certo un nulla, è comunque un ente (ὄν), un ente che però, paragonato all’essenza, rimane unilaterale, tale cioè che non avrebbe dovuto essere (μὴ) un μὴ ὄν. Per il Greco, nelle singole cose che ci circondano, essente non è il qui e ora, l’in questo modo o in quello, il questo ogni volta particolare, ma, al contrario, essente è quel che ogni volta è la cosa particolare e quel che è già visto anticipatamente, l’idea. In questo senso, anche Aristotele, nonostante alcune differenze, pensa in maniera platonico-greca. Ma se, ora, un tavolo è reale come lo è questo, qui e ora, noi diciamo che esso è, che «esiste», mentre l’«idea», per noi, è solo rappresentata e pensata, qualcosa di soltanto pensato e quindi non propriamente reale. Per questo motivo, a noi, uomini di oggi, le «idee» non suggeriscono nulla se non vengono realizzate. Per noi sono importanti la realizzazione e il successo, tanto importanti che alla fine, nella ricerca del successo le idee vanno perdute.
Per i Greci l’«esistenza» e la realtà di un ente, ossia proprio quel che noi siamo soliti indicare come l’«essere» dell’ente, non appartengono affatto all’essere-essente dell’ente. Dopo l’epoca dei Greci, deve dunque essere avvenuto nel corso della storia occidentale un capovolgimento della concezione dell’’«essere».
Con «essere», dice Heidegger, i Greci intendono la costante presenza di qualcosa. L’elemento costante, nell’ente che di volta in volta è in un certo modo, è il suo «che-cosa-esso-è» e l’elemento presente è proprio questo che-cosa in quanto l’aspetto prevalente, ειδος, a partire da qui, si vede anche come mai la «realtà», l’essere-accessibile, non appartenga propriamente all’ente; perché quel che qualcosa è, infatti, può consistere anche nella possibilità. Un tavolo possibile è pur sempre un tavolo; esso possiede questo «che-cos’è», anche se gli manca l’essere-accessibile. La realizzazione dell’essenza è superflua per l’essenza stessa e, al tempo stesso, qualcosa che ne pregiudica la purezza, giacché in un tavolo reale è realizzata soltanto quest’unica possibilità.
 
VIII
 
Il vero è determinato come correttezza dell’enunciato – dice Heidegger. Se in questo momento dico «Quest’aula è illuminata», produco un enunciato su un fatto (A è B) che è, a sua volta, un fatto, ovvero l’esempio di una legge. Dunque, se l’enunciato è un fatto, cioè un esempio (un esemplare), un caso particolare di una «verità», posso giungere a questa verità particolare solo in quanto, anticipatamente, è già stabilito e fondato che la verità significa la correttezza dell’enunciazione.
Ciò che qui interessa, dice Heidegger, non è la dimostrazione di questa verità particolare, ma la dimostrazione essenziale di ciò che rende vera questa verità particolare – la sua legge.
L’essenza non significa un caso singolo. La sua caratteristica è invece quella di valere per molti casi. La determinazione dell’essenza del vero vale per tutte le enunciazioni corrette. La determinazione essenziale della verità come correttezza dell’enunciazione può quindi essere dimostrata solo se tutte le enunciazioni reali fossero portate alla presenza, affinché in esse venga mostrato complessivamente ed universalmente l’accordo con la delimitazione posta dall’essenza.
Ma come avrebbe potuto Aristotele, dice Heidegger, raccogliere tutte le enunciazioni realmente formulate, tanto da lui quanto da tutti gli altri uomini passati e futuri, per dimostrare in esse la legittimità della determinazione essenziale del vero? È evidentemente impossibile. Il risultato è dunque che la determinazione essenziale non può essere dimostrata con i fatti, nel nostro caso con tutte le enunciazioni corrette pronunciate di fatto. In primo luogo, perché questi fatti non si possono abbracciare con uno sguardo e condurre alla presenza. Ma anche se questo tentativo senza speranze dovesse riuscire, la determinazione essenziale non sarebbe, tuttavia, fondata. L’essenza, infatti, non vale solo per tutte le enunciazioni reali, ma anche e soprattutto per quelle possibili, non ancora formulate. E come potrebbe essere dimostrata l’adeguatezza della definizione della verità tramite tutti i casi possibili di enunciazione corretta? Dunque, il modo in cui fondiamo come proposizione fattuale l’enunciazione su quest’aula (il suo essere di fatto illuminata) non consente una fondazione dell’enunciazione essenziale «verità è correttezza dell’enunciazione»; e non lo consente, non solo perché non sarebbe possibile portare alla presenza, senza eccezioni, tutti i casi, tanto quelli di fatto quanto quelli possibili, ma innanzitutto perché questo procedimento fondativo, la prova di un’enunciazione essenziale tramite il rimando ai singoli casi corrispondenti, è insensato – dice Heidegger. Posto che si voglia dimostrare nella sua misura legittima l’enunciazione essenziale adducendo proposizioni corrette per misurare in esse l’adeguatezza dell’enunciazione essenziale e per trovare che essa corrisponde a quelle proposizioni e che la verità è la correttezza dell’enunciazione, come faremmo a trovare quelle proposizioni corrette che dovrebbero servire come prove della misura legittima della determinazione essenziale? Solo separandole dalle proposizioni false, e questo potremmo farlo solo se sapessimo già che cosa sono le proposizioni vere, se sapessimo cioè in che cosa consiste la loro verità. Non appena tentiamo di dimostrare una determinazione essenziale servendoci di fatti particolari o anche di tutti i fatti reali e possibili, dobbiamo constatare con sorpresa che presupponiamo già la misura legittima della determinazione essenziale, anzi, che dobbiamo presupporla per poter afferrare e addurre quei fatti che dovrebbero servirci come prova.
Dunque, dice Heidegger, la fondazione delle proposizioni essenziali ha condizioni e difficoltà sue proprie. La concezione dell’essenza e quindi la fondazione delle proposizioni essenziali sono di tipo diverso rispetto alla conoscenza di fatti particolari e di connessioni di fatti, e corrispondentemente sono diverse dalla fondazione di tale conoscenza di fatti.
Com’è possibile determinare e più in generale introdurre, per esempio, l’essenza «tavolo», che cosa sia un tavolo, se prima non ci si è imbattuti per lo meno in un singolo tavolo reale, dal quale, come si dice, sulla via dell’«astrazione», traiamo e stacchiamo l’essenza generale «tavolo», facendo «astrazione» dalle singolarità del tavolo di volta in volta particolare? Dobbiamo invece chiederci: che cosa ha diretto la realizzazione di quel singolo tavolo in quanto tavolo, già prima che avesse inizio questa realizzazione, per la costruzione di questo tavolo, se non quel che un tavolo deve essere? Per poter costruire quello che magari è il primo di tutti i tavoli, non è necessario che prima sia pro-dotta l’«idea-tavolo»? O le due cose procedono di pari passo? Il concepire l’essenza non è tale che «pro-duce» prima di ogni altra cosa l’essenza, senza metterla insieme casualmente a partire da singoli casi già accessibili?
Ma secondo quale legge e secondo quale regola viene «pro-dotta» l’essenza? – chiede Heidegger.
Viene pensata arbitrariamente e, poi, quel che in quel modo è stato pensato viene giustificato con una parola? Ogni cosa, qui, è puro arbitrio? E se non è arbitrio, è forse solo una questione relativa all’esigenza di accordo propria della lingua? Come se ci si mettesse d’accordo sull’uso di determinate parole per indicare determinate rappresentazioni, come se la parola «tavolo» collegasse questa rappresentazione e quella per indicare quel certo oggetto? L’aspetto collettivo, allora, sarebbe solo l’identità espressa nel suono «tavolo», usato per indicare di volta in volta i tavoli particolari. Ma a quell’unica parola «tavolo» non corrisponde ancora l’unità e l’identità di un’essenza; l’intera questione sull’essenza è una questione grammaticale. Ci sono solo singoli tavoli, aldilà dei quale non c’è anche un’«essenza» tavolo. Quel che prende questo nome, visto criticamente, è solo l’identità del segno usato per denominare i tavoli particolari, gli unici che siano reali.
Ma proprio quel che caratterizza il tavolo in quanto tavolo, quel che esso è e che lo distingue, in base a questo suo che-cos’è, dalla finestra, proprio questo è indipendente dall’immagine linguistica e sonora della parola. Infatti, nelle altre lingue, il suono e la scrittura della parola sono diversi e tuttavia intendono la stessa cosa che noi chiamiamo «tavolo». Solo questa unità e identità conferiscono all’accordo nell’uso linguistico una meta e un appoggio. Dunque, l’essenza deve già essere anticipatamente posta per poter essere nominata e detta nella stessa parola. Ma allora il nominare e il dire autentici sono il porsi originario dell’essenza, certo non nel senso di una ricerca dell’accordo, ma come il dire che regge dando la misura.
Si tratta di sottrarre il tema dell’essenza all’arbitrarietà.
 
IX
 
Abbiamo notizia dell’essenza delle cose che ci circondano (casa, albero, uccello, sentiero, vecchio, uomo, ecc.), dice Heidegger, e tuttavia non sappiamo nulla dell’essenza. Infatti, non appena vogliamo determinare più da vicino e soprattutto fondare nella sua determinatezza ciò di cui abbiamo notizia sicura e tuttavia indeterminata, cadiamo subito nell’incerto, nell’oscillante, nel conflittuale, nell’infondato. Ma torniamo ad essere del tutto sicuri nelle distinzioni: non confonderemmo mai un uccello con una casa. Questo aver notizia dell’essenza, per quanto abituale e indeterminato, abusato e logoro possa essere, ci guida costantemente e ovunque in ogni passo e in ogni sosta nel mezzo dell’ente e in ogni pensiero sull’ente. Questo stato delle cose degno di nota chiarisce come ad aver la determinante «vicinanza» alla nostra «vita» non siano i fatti immediatamente dati, i soli reali, afferrabili e visibili e quindi ogni volta i soli ad essere intesi e propugnati. «Vicinanza alla vita», per usare questo modo di dire, «vicinanza alla vita» come cosiddetta «realtà», è l’essenza delle cose, che ci è nota e tuttavia ignota. La cosa vicina e più prossima non è quel che il cosiddetto uomo di fatto crede di afferrare, ma è l’essenza, che per i più resta la cosa più lontana, persino quando viene loro indicata, nella misura in cui essa consente di essere indicata nella maniera abituale.
In quale enigma ci siamo imbattuti? – dice Heidegger.
Quale segreto attraversa l’uomo, tale che quel che a lui pare essere semplicemente l’ente (i famosi fatti aderenti alla realtà) non è l’ente, e tale che, per così dire, questo costante disconoscimento della vicinanza dell’essenza dell’ente forse appartiene addirittura all’essenza dell’uomo, disconoscimento che proprio per questo motivo non deve essere valutato come una carenza, ma essere concepito come la condizione necessaria per la possibile grandezza dell’uomo, l’uomo che occupa la posizione centrale tra l’essere e l’apparenza, l’uomo per il quale la cosa più vicina è la più lontana e la più lantana la più vicina?
 
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L’essenza, dice Heidegger, non è colta a partire da fatti, e neppure è trovata come un fatto.
La concezione dell’essenza è un modo della pro-duzione dell’essenza. Tuttavia, se la concezione dell’essenza viene pro-dotta solo nella concezione stessa, allora la «fondazione» della concezione non può richiamarsi a qualcosa di pre-esistente cui la concezione si adatterebbe. Nel senso di una tale fondazione la concezione dell’essenza è quindi necessariamente infondata. Dobbiamo allora concludere che la conoscenza dell’essenza non ha fondamento?
Platone – dice Heidegger – caratterizza l’essenza come il che-cos’è dell’ente e il che-cos’è come ἰδέα, come lo sguardo che mette in mostra l’ente. In quel che è la cosa di volta in volta particolare sopraggiunge la stabilità. La cosa, con il «che cosa essa è», viene collocata in se stessa su di sé; il «che cosa è» è la sua configurazione. Quel che un singolo ente è, per esempio un tavolo (il suo aspetto, la sua configurazione e quindi la sua struttura), non viene in primo luogo raccolto da singoli tavoli pre-esistenti, ma al contrario: questi singoli tavoli possono essere stati costruiti ed essere adesso presenti, solo se e solo nella misura in cui sono stati costruiti in base all’immagine preliminare di qualcosa come un tavolo. L’immagine preliminare è l’aspetto scorto anticipatamente di quel che deve dare al tavolo la sembianza di tavolo, l’«idea», l’essenza.
E lo «scorgere anticipatamente», il «condurre-allo-sguardo» l’essenza dovrebbero forse essere un «pro-durre»? Tutto dice il contrario. Quel che deve essere scorto, per essere portato al nostro sguardo, non dovrebbe già esistere? Certamente. E, infatti, per lo meno la concezione greco-platonica dell’essenza come ἰδέα esclude che concepire l’essenza sia «pro-durre» l’essenza. Da lungo tempo, poi, si sa, in base all’interpretazione abituale della dottrina platonica delle idee, che Platone insegnava che le idee esiterebbero (al di fuori di ogni mutamento e declino) per sé e in sé in un luogo iperuranico, cosicché non sarebbe affatto greco dire che le idee vengano pro-dotte.
Tuttavia, dice Heidegger, anche per i Greci, la concezione dell’essenza è una pro-duzione. Per rendercene conto non dobbiamo fare altro che intendere grecamente il «pro-durre». In base alle riflessioni proposte più sopra, «pro-duzione» dell’essenza significa, in primo luogo e in via negativa: l’essenza non viene raccolta a partire dai singoli casi come loro carattere generale; essa ha un’origine sua propria. Quando noi parliamo di produzione, pensiamo a un singolo oggetto che viene fatto e costruito. Ma qui non si intende dire questo; pro-durre, usiamo intenzionalmente questa parola, qui deve essere preso lessicalmente. L’essenza deve essere pro-dotta, condotta fuori dall’ignoranza e dal nascondimento in cui si trovava. Fuori verso che cosa? Verso la luce; essa è condotta allo sguardo. Questo condurre-allo-sguardo è un singolare modo di vedere. Esso non vede nel momento in cui contempla qualcosa di preesistente e di già accessibile, ma solo nel momento in cui porta la cosa da guardare all’anticipazione di se stessa. È un vedere che estrae, non un semplice cogliere con lo sguardo le cose che ci vengono incontro lungo il sentiero e che stanno intorno, non è un semplice prestare attenzione a qualcosa cui finora non la si era prestata, ma che tuttavia è senz’altro osservabile. Il vedere quell’aspetto che si chiama idea è un guardare-fuori che estrae, è un vedere che costringe a vedere la cosa prima che la cosa venga vista. Questo vedere, che conduce e vede nella sua visibilità la cosa stessa da guardare prima che essa sia scorta, lo denominiamo quindi un vedere-di-vedere [Er-sehen].
Questo produrre non è un costruire o un fare, non è dunque un trovare. Infatti, quel che può essere trovato, deve già essere, prima di essere trovato.
Così, per i Greci, l’essenza e il porsi stanno in una luce particolarmente ambigua: l’essenza non viene costruita, né però la si incontra come si incontra casualmente una singola cosa semplicemente presente, ma la si vede, invece, vedendo; la si pro-duce. Da che cosa e verso che cosa? Da quel che nel visibile resta non veduto, dall’impensato in quel che, da quel momento in poi, deve essere pensato.
Siccome il fondamento non si può pro-durre, allora potrebbe partire da una ipotesi?
No, dice Heidegger. Ogni «ipotesi» nel senso moderno presuppone già una ὑπόϑεσις, il porsi di un’essenza.
Il porsi dell’essenza ha sempre in sé l’apparenza dell’arbitrarietà, dell’inusitato, quando venga misurato con i criteri delle cose abituali. E questo tratto inusitato, di nuovo, non è qualcosa di discosto e di bizzarro, ma, al contrario, è quella semplice cosa che non potrà mai essere avvicinata tramite procedimenti fondativi, finché non si vedrà di vederla, ogni volta essa stessa e ogni volta nuovamente, finché nell’uomo non sarà restato lo sguardo essenziale.
Riassumendo: la verità come correttezza della rappresentazione presuppone, per poter essere quel che è (accordo con l’oggetto), l’esser-aperto dell’ente, giacché solo con l’essere-aperto l’ente diventa capace di essere oggetto e la rap-presentazione di portare tale oggetto davanti a se stessa. Questo essere-aperto si è quindi rivelato come il fondamento della possibilità della correttezza.
Misurato con i criteri di oggi il concetto greco di verità è infondato. Se con «fondazione» intendiamo l’esigenza di riferire a qualcosa di precedentemente già senz’altro esistente, anche se non sempre nota, allora le essenze, nel porsi, restano senza fondazione. In tal maniera, può essere legittimata, ossia fondata, solo quella conoscenza che cerca di conoscere e di determinare le cose già presenti: la conoscenza dei fatti. Ma in ogni conoscenza dei fatti, come guida e supporto, c’è già una conoscenza di essenze. Dalle nostre riflessione, dice Heidegger, è emerso che una concezione essenziale non può mai essere fondata nel modo di una conoscenza di fatti. Giacché, non solo, in primo luogo, non è possibile raccogliere tutti i fatti reali che riguardano l’essenza considerata, per esempio l’essenza tavolo, ma, in secondo luogo, una tale raccolta sarebbe comunque insufficiente perché l’essenza vale anche per i tavoli possibili. In terzo luogo e soprattutto, una fondazione dell’essenza e della determinazione essenziale che facesse ricorso ai corrispondenti fatti reali e possibili è in se stessa contraddittoria. Infatti, per reperire e per scegliere i fatti appartenenti all’essenza e per proporli come prove della misura legittima del porsi dell’essenza, si deve già presupporre che l’essenza abbia una legalità.
L’essenza e la determinazione essenziale non sopportano quindi fondazioni simili a quelle che si compiono continuamente nel campo della conoscenza dei fatti. L’essenza di qualcosa non viene semplicemente trovata come si trova un fatto, ma essa deve, non essendo senz’altro già preesistente nella cerchia della rappresentazione e del pensiero immediati, essere pro-dotta. La pro-duzione è un modo del fare, e quindi in ogni concezione di essenze come in ogni porsi dell’essenza c’è qualcosa di creativo. Il tratto creativo ha sempre un aspetto violento e arbitrario, come se si dovesse nascondere che questo tratto è congiunto ad una legalità superiore, che deve essere protetta di fronte all’invadenza dell’ordinario modo di pensare, dotato di una sua misura regolare, sempre pretesa, e che aborrisce le eccezioni. Se chiamiamo il porsi dell’essenza pro-duzione e poi trattiamo dell’«essenza» inanzi tutto nella concezione greca (ἰδέα), allora anche la «pro-duzione» deve essere compresa in senso greco.
Pro-durre significa qui portare-alla-luce, portare qualcosa allo sguardo in modo che non sia semplice contemplazione di fronte a qualcosa di preesistente, ma un vedere tale che solo grazie ad esso, vedendo, la cosa da vedere sia con-dotta, portata al vedere.
Ogni concezione dell’essenza e ogni porsi dell’essenza sono insondabili, dice Heidegger, (non perché sia impossibile trovare il fondamento, ma perché la fondazione in generale e in quanto tale non è sufficiente per la giustificazione del porsi delle essenze), se la concezione dell’essenza respinge ogni fondazione intesa nel senso consolidato, allora neanche la verità appartenente alla concezione dell’essenza e ad essa connaturata può essere la correttezza. Alla concezione dell’essenza deve quindi appartenere un’altra specie di verità. La meditazione sulla verità dell’essenza, su quel che sono la concezione essenziale e la giustificazione di essa, è meditazione sull’essenza della verità.
La concezione dell’essenza è pro-duzione, dice Heidegger, produzione nel senso greco di portar-fuori. Da dove? Da quel che è nascosto. Verso dove? Verso il non-nascondimento, perché l’essenza si ponga come quel che non è nascosto. Vedere l’essenza vedendo significa: il porsi del non-nascosto dell’ente, il porsi dell’ente nel suo non-nascondimento, portare l’ente alla parola che lo nomina, portandolo così alla stabilità e dandogli un posto nella visibilità della conoscenza essenziale.
Il non-nascondimento, dice Heidegger, si chiama in greco το ᾰ̓ληθής e il non nascondimento si dice in greco vἀλήθεια. Da lungo tempo, traduciamo questa parola con veritas, verità. La «verità» della concezione essenziale è, pensandola in maniera greca, il non-nascondimento del che-cos’è dell’ente. Il non-nascondimento, l’esser-veduto dell’ente, però, è, in senso platonico, l’ἰδέα.
La verità come correttezza (ομοίωσις) ha il suo fondamento nella verità come non-nascondimento (ἀλήθεια), intesa come venir fuori dell’esser-essente (dell’essenza) dell’ente e come suo essere già sguardo.
 

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