Eugenio Donnici: Against the day

copertina libro

Rimanere paralizzati, incapaci di alzarsi dal letto, schiacciati dalla vergogna. Oppure lasciarsi catturare dall’avversario, come nel bel libro di Carrère, e indossare l’abito che sarebbe stato il nostro, sole se le cose fossero andate per il verso giusto. Oppure cominciare a chiedere, a interrogare, a questionare, a imparare che le domande sono ganci ai quali appendiamo le nostre angosce.
È così che abbiamo trascorso gli ultimi trent’anni, a porci le domande giuste, quelle che allungano l’agonia del giorno, quelle che garantiscono la continuità del quotidiano.
È contro queste domande, contro il presente, contro i tempi moderni e tutte le rotative che ne garantiscono la continuità, che Eugenio Donnici ha scritto un libro sulla divisione del lavoro.
Che cos’è la precarietà?
Quanto tempo si è sprecato intorno a questa domanda, quante varianti abbiamo ascoltato, quanto inchiostro è stato versato, quanta televisione è stata prodotta sillogizzando a manetta, quanta polarizzazione ha garantito!
Donnici spazza via la domanda con un gesto semplice e elegante. Da dovunque la si guardi appare evidente che “la precarietà è una forma mascherata di disoccupazione”.[E. Donnici, Il movimento…,94]
La precarietà, comunque la si consideri, è ancora disoccupazione.
È la disoccupazione che si affaccia nelle nostre vite in punta di piedi, e che ci stende al tappeto con un carico di vergogna insopportabile. Che questa vergogna sia avvertita come la misura delle nostre aspettative deluse perché eccessive, o del confronto impossibile con i cosiddetti garantiti, oppure che sia un sintomo della sfiga personale, o il frutto di una legislazione crudele, il quadro generale non cambia.
Se tutto il mondo si coalizza per dimostrare che la disoccupazione non è generata da un problema strutturale, che tutto è causa di una crisi passeggera, di una crisi pesante, forse anche epocale, ma tuttavia di tipo congiunturale, e che prima o poi passerà, allora il pensiero di essere persi per davvero si affaccia nelle nostre teste. Se poi vengono a dire che tutto passerà se ci si affretta a rimboccarsi le maniche, a stringere i denti, a rinunciare a qualche privilegio, ad accontentarsi, a non sprecare niente, a massimizzare gli sforzi, a centellinare le risorse, perché non siamo poi così ricchi come credevamo di essere, che, anzi, a guardar bene i fattori e a incolonnare correttamente i numeri e a rifare i calcoli si scopre che siamo poveri, che le risorse scarseggiano, che i risparmi sono stati bruciati e che ci siamo perfino mangiati il futuro, allora il terrore diventa panico. Se anche la statistica e la matematica si alleano e ci schiacciano con l’evidenza del numero, allora vuol dire che siamo persi per davvero, e non solo uscire di casa diventa impossibile, ma anche il suicidio appare una soluzione ragionevole alle domande che ci assillano.
Ma siamo davvero così poveri come dicono i numeri, davvero i nostri problemi sono causati dalla povertà?
Anche in questo caso la risposta di Donnici è semplice e puntuale. “L’immiserimento sociale al quale assistiamo è una conseguenza della ricchezza”.
Siamo poveri perché siamo ricchi. Se la frase vi suona illogica, è la logica ad essere nei guai, non voi.
E però i capannoni sono vuoti, le macchine sono ferme, gli operai sono a casa, i poveri aumentano. Anche la produttività e il PIL languono, rallentano, arretrano inesorabilmente.
Siamo davvero alla canna del gas, davvero siamo così poveri?
Se si guarda alla ricchezza in termini di valori – scrive Donnici – bisogna convenire con le rilevazioni statistiche, e riconoscere una diminuzione del prodotto interno lordo, e un calo della produttività. Tuttavia, se si considerano “gli standard fisici”, la realtà appare completamente capovolta. Si scopre che in tutti i paesi OCSE, Italia inclusa, la produttività non ha fatto altro che aumentare. “Nel 1970, a Mirafiori, la produttività media di un operaio era intorno a 10 macchine all’anno, mentre alla fine del secolo scorso, a Melfi, la produttività media era intorno a 60 autovettura. In un breve arco di tempo c’è stato un incremento produttivo di sei volte”67.
Rispetto agli anni Settanta siamo 6 volte più ricchi. Potremmo andare al cinema 6 volte di più,  studiare 6 volte di più, curarci 6 volte di più, viaggiare 6 volte di più, festeggiare, innamorarci, sposarci, fare figli e divorziare 6 volte di più. Oppure potremmo lavorare 6 volte di meno. Sarebbe un sogno. Un paradiso in terra. Sarebbe la fine del problema economico. Per tutti.
E invece, ci tocca soffrire. E soffrire perché non siamo in grado di cogliere questa evidenza, e soprattutto, perché non abbiamo il potere per mettere in moto il processo che condurrebbe nel regno della cosiddetta libertà.
Qualcuno penserà che versiamo in questa condizione pietosa perché siamo governati da mascalzoni, perché abbiamo delegato il governo delle nostre vite a truffatori di professione, a marioli  incompetenti. Non è vero, anzi, forse sì.
Il fatto vero è che il mondo là fuori, uscito dalle nostre mani e dalle nostre teste, ha preso il sopravvento sulle nostre vite. Non siamo più noi a comandare. Sono le cose, sono le macchine, sono il mercato e il denaro. Siamo diventati un’appendice di una mega-macchina, siamo attaccati ad essa, come nel film Matrix, e come in Matrix la macchina ci nutre e ci spreme, mentre combatte e sopprime ogni resistenza. Anche se, a dirla tutta, di resistenza, gli umani, soprattutto quando si sono coalizzati in formazioni di sinistra, di resistenza ne hanno fatta ben poca.
Uscito dai nostri corpi, lo spirito si è incarnato nella cosa, nel prodotto, nella merce. La merce ha iniziato ad avere una propria volontà, ad apparire come una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici, come una cosa sensibile e sovrasensibile. E ha cominciato a ballare, a mettersi a testa in giù, come se fosse dotata di vita propria. Se n’è andata in giro rivolgendosi a tutti, tanto a chi l’intendeva quanto a chi non aveva nulla da fare con essa. Ha preso su di sé e dentro di sé quel valore, quel senso, quel segno che il denaro si è fatto carico di rappresentare, di significare, di dire e voler manifestare.
Quello che l’uomo doveva tenere per sé e presso di sé, quel valore, che non è un valore, ma la puntualità non cristallizzata di un’unicità irripetibile, non è più suo. Quel bene che avrebbe dovuto tenere in sé, tenere più caro di sé stesso, quello di cui è stato derubato sin da quando è caduto lontano dall’Orifizio, diventando esso stesso, in virtù di questa caduta, lavoro-merce, forza-lavoro, potenza che genera potenza alienata, lavoro vivo che genera lavoro morto, lavoro della morte, lavoro in perdita che controlla e mette all’opera lavoro vivo, opera alienata che diventa mera mortificazione, quel bene gli sta di fronte come un potere estraneo, come un sovrano che ordina ed esige obbedienza, e che all’occorrenza punisce con l’espulsione dalla società civile.
Questo sovrano straniero si è incarnato nel denaro, e la sua presenza dimostra questo: che di fronte a lui tutti gli esseri sono uguali nella loro nullità.
E anche se il denaro può tutto, e, in quanto equivalente generale, è tenuto come l’essere onnipotente, se con esso posso pagarmi sei grandi gnocche, la loro bellezza non è la mia.
Se è vero che il denaro è onnipotente, la sua circolazione svuota l’anima, ci deruba di ciò che abbiamo di più proprio. Le sei grandi gnocche non si accoppiano con noi, si accoppiano con il nostro denaro. Le prostitute – scrive Mishima nel Padiglione d’oro – si accoppiano con tutti, con i vecchi e con i deformi, con i brutti e con i belli, persino con i malati e i lebbrosi. Purché gli si dia denaro a sufficienza sorvolano su tutto. Persino sul fatto che lì davanti a loro ci siamo noi, in carne e ossa. Ciò che esse vedono non sono le nostre differenze. Esse vedono soltanto ciò che abbiamo di uguale, di standard, di ripetitivo, in noi vedono solo il potere del denaro. L’idea di essere trattati come gli altri, trattati, per così dire, in modo democratico, incute terrore, il terrore di cessare di esistere.
“La riproduzione degli individui mediante le relazioni mercantili praticate nel mercato – scrive Donnici – ha attribuito al denaro un potere oggettivo, al punto tale che quelle stesse relazioni si sono cristallizzate in un potere esterno”48.
Il nemico non è la politica, non sono gli sprechi, non è il parlamento che non funziona, non è la scuola piena di professori fannulloni incompetenti ciucci instabili, il nemico non sono i partiti, non è il populismo, non sono le panzane che ci tocca leggere sui giornali o ascoltare alla televisione nei mille format parla-parla-e-stona-il-cervello. Il nemico non è il sindacato, anche quando non ce la mette tutta, e nel piano del lavoro parla ancora di valore (aggiunto), ignaro che esso è diventato già da tempo una misura miserabile per computare il prodotto del lavoro collettivo. Il vero nemico è il denaro.
Il nemico è il denaro, quando non entra in circolazione, perché non trova occasioni profittevoli. È il denaro quando misura la propria potenza, e contemporaneamente la propria disfatta, davanti alle distese di prodotti invenduti che giacciono nei magazzini di tutto il mondo.
Il vero nemico è questo potere esterno.
Se ancora siamo qui a lavorare e produrre beni, non lo dobbiamo ad una scelta deliberata di collaborazione. Non siamo più in grado di collaborare. Tuttalpiù ci facciamo ordinare dal denaro quello che dobbiamo produrre. La “cooperazione non è il presupposto dello svolgimento dell’attività produttiva – scrive Donnici -, essa è il risultato della mediazione del denaro e in particolare del suo potere esteriore”50.
E se anche lo Stato Sociale è fallito, se è fallito quel progetto grandioso, al cospetto del quale le piramidi appaiono come la meraviglia messa in piedi da un lattante, è perché ci si è ostinati a porre il lavoro, in quanto risorsa socialmente utile, solo e soltanto mediante lo scambio, mediante il mercato, ovvero mediante il denaro. L’ostinata monetizzazione del lavoro ha segnato la fine dello Stato Sociale.
“Lo Stato – scrive Donnici – non può emancipare i singoli dalla condizione di salariati”. Esso si ostina a “comprare sul mercato la forza-lavoro, sebbene il prodotto dell’attività dei singoli non è una merce”49.
Lo Stato continua a trattare come separati destini che invece sono uniti. L’impiegato delle ferrovie dello Stato continua a considerare indifferente, per sé e per la sua opera, la destinazione del passeggero. Il medico è cieco davanti al decorso della malattia del paziente che ha davanti.
È sempre il denaro ad incaricarsi di congiungere, di marcare, di segnalare la destinazione.
E nella scuola è ancora e sempre il denaro a rendere possibile il movimento della conoscenza, e pensabile e trasmissibile il sapere.
Fuori da ogni controllo, stampato in quantità eccessive, il denaro ha finito per “disgregare i pilastri delle relazioni mercantili, cioè crediti e debiti.”52.
La perdita del valore – la svalorizzazione -, la perdita del valore come unità di misura, e la perdita dei valori come unità tesaurizzate, la svalutazione dei crediti, sono state generate dell’inflazione. Inflazione di denaro, inflazione di merci, inflazione di forza-lavoro, inflazione di medici, di insegnanti, di ferrovieri, di postini, di venditori di polizze, di abbonamenti tv, di contratti di gas e luce, di telefonia mobile e fissa, di internet eccetera, inflazione, soprattutto, di produttività. L’inflazione è apparsa come un effetto del tentativo maldestro di voler unire col denaro ciò che il mercato aveva diviso, ciò che nel mercato rimane, e deve rimanere, separato.
La fonte di tutti i guai risiede proprio in questa separazione. Nel tenere separato ciò che non può più esserlo, e nel credere che il denaro possa rimediare a questa separazione.
Si tratta invece di cambiare rotta, e smettere di delegare al denaro il compito di decidere, sempre a cose fatte, l’utilità dell’opera degli individui. E iniziare ad attribuire preventivamente alla comunità il compito di mediare le differenze disponibili e dispiegate al suo interno.
Tolto di mezzo il mercato, “una mediazione deve ovviamente avere luogo”.
Ora, può darsi che l’illusione sia quella di realizzare una mediazione senza alienazione, in una sorta di circolazione, per così dire, interna, trasparente, immediata, istantanea, senza spazio né tempo, e perciò stesso immune dalle crisi che affettano e affliggono l’economia di mercato.
Il denaro, lo si è ormai capito, spazializzando e temporizzando l’intenzione di scambiare la cosa, non può non reificare il valore e far correre il rischio, un rischio preventivo (a priori), di fallire lo scopo e rendere vano lo scambio.
Spiazzando il presente il denaro si presta alla crisi, alla perdita, alla disseminazione.
Perché allora non si abbandona il denaro, e ci si incammina su un’altra strada?
Perché il denaro è lo strumento migliore per far parlare soggetti chiusi nei propri recinti privati.
E fintanto che ci si rappresenta la collettività come composta da soggetti isolati, il denaro non può che apparire come lo strumento migliore.
Ma la collettività non è isolata. Nel mondo di oggi nessuno produce per intero ciò che consuma. Persino il più banale degli oggetti quotidiani richiede l’intervento di una massa di individui sparsi per il mondo.
Come comunicano questi individui, come si mettono d’accordo su ciò che bisogna produrre e sulle quantità da produrre?
Lo fanno per mezzo del denaro. Se il denaro affluisce si produce, se il denaro cessa di affluire non si produce più.
Fintanto che la persona si rappresenta la soddisfazione dei propri bisogni come un fatto privato, e la soddisfazione dei bisogni altrui come un fatto che cade al di là dei suoi interessi, le cose non potranno che continuare a scivolare verso il baratro.
Questo è il quadro fornito da Donnici.
Non si può chiudere senza rispondere, sommariamente, a un’altra domanda.
La cooperazione può davvero sostituire il denaro? Può davvero risolvere il problema del potere e della reificazione?
Davvero c’è un modo per entrare in possesso di tutto il potere, del potere sovrano, illimitato, trasparente?
Come deve essere l’anticipazione cooperante, affinché, in essa, nulla sfugga al potere, e niente si trasmetta alla cosa?
Oppure, si deve, a malincuore (o per fortuna, direi io), riconoscere che anche nella struttura dell’anticipazione si producono, e non possono che prodursi, effetti alienanti? Anche se qui, prossimi al campo dove domanda e offerta fanno a gara ad anticiparsi, parlare di effetti e di cause non ha più alcun senso. 
Ma cos’è l’anticipazione?
Nell’anticipazione si attribuisce un valore ad una cosa che non è presente. Per esempio il bisogno dell’altro. Che questo valore sia misurato con un metro anziché con un altro, che sia misurato col metro 1,2,3,…, o il metro €1,€2,€3,…, o il codice A,B,C,…, o che gli venga semplicemente attribuito un senso Y, non cambia nulla. Si tratta sempre di valore.
Anche quando si dice che un altro avrà bisogno di 1,2,3 X, oppure di 1,2,3 sedie, il riferimento alla cosa non rende l’anticipazione più presente, più alla mano, più sotto controllo.
La mia rappresentazione deve sempre contenere, come elemento imprescindibile, la marca dell’altro. Il mio potere è sempre affettato dal potere dall’altro.
Se c’è scambio non c’è potere assoluto, non c’è sovranità – a qualsiasi livello, sia che si tratti di scambio di merci (M-D-M), di scambio di moneta ad interesse (D-D’), di scambio di capitale con lavoro (D-M-D’), di baratto (M-M), di Potlatch (M-M’), sia che si tratti di scambio interiore, per esempio di comunione, oppure di comunitarismo. Lo spirito non può transitare senza incarnarsi nella cosa, per esempio nel pane o nella pecora, nel vitello d’oro o nel bit.
Senza alienazione non si dà comunione, né tanto meno comunitarismo.
La valorizzazione ha bisogno di un luogo, e questo luogo è la cosa-merce, che perciò si presta a diventare porta-valuta.
Il valore non si appiccica alla merce come un cartellino del prezzo, non è frutto di una contrattazione che avviene a cose fatte, come presume la teoria dei bisogni, e con essa tutta la microeconomia. Il valore deriva da uno stato di comparazione preventiva, tale che l’offerta sia già da sempre una domanda. Nella merce offerta, se è offerta (persino nella merce spesa nel Potlatch, come evidenzia Donnici), vi sono sempre, preventivamente, la marca della domanda e le trecce della legge.
La marca della merce è il riferimento all’altro nel medesimo, che fa delle cose prodotte il luogo del valore e della valorizzazione.
Senza un supporto dove spazializzarsi l’anticipazione non può darsi, non può avere luogo, senza  reificazione, senza alienazione, senza ex-propriazione, l’anticipazione non ha luogo. Senza ripetizione non c’è valorizzazione, e senza valorizzazione non c’è luogo, non c’è geografia, non c’è terra, nemmeno terra promessa.
L’anticipazione, dunque, non ha nulla di originale o di originario, o di arcaico. Ripete una legge, che non è, e non può essere, una legge empirica, risultato di una condotta più o meno collettiva o comunitaria, anche se questa legge non può nulla senza inscriversi (reificarsi) in questa o quella cosa, non fass’altro che la tabula mnemonica.
Nella considerazione della struttura dell’anticipazione come valore (o senso, o misura) emergente magicamente dalla collettività, si manifesta un forte attaccamento al mito di una comunità come presenza a sé del presente, come status quo, se non fosse che anche nella difesa dello status quo non si può non venir trascinati dal movimento dell’alienazione, della reificazione, dell’ex-propriazione.
Vivere senza alienazione diventa impossibile, a meno che non si creda che ci si possa ritirare in qualcosa come un passato precedente ogni enumerazione, ogni serie, ogni alienazione, a meno che non si creda (conquistando un potere sul lavoro morto, e sulla morte stessa) di poter essere sovrani della propria vita, anche a costo di regredire, di sparire nel passato, di morire o di scoppiare ritenendo presso di sé ciò che non può non essere lasciato andare (lo sterco-moneta) – suicidarsi per prendere pieno potere sulla vita.
Non stiamo assistendo ad una fine del valore di scambio che restaurerebbe (o instaurerebbe), secondo una rappresentazione logo-teo-centrica molto diffusa, una trasparenza o un’immediatezza dei rapporti sociali. Anzi, stiamo assistendo ad una proliferazione, ad un dispiegamento storico sempre più potente di una valorizzazione della quale il sistema di mercato e il denaro non sono che un effetto tra gli altri.[Cfr. Derrida, Firma, evento, contesto.]

 

Eugenio Donnici, Il movimento per la condivisione del lavoro, Fuoco Edizioni, €12

http://www.fuoco-edizioni.it/il-movimento-per-la-condivisione-del-lavoro.html

 

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