Il lavoro privato di produttori separati diventa sociale solo nella equiparazione. L’equiparazione dei prodotti è una equiparazione delle forme concrete del lavoro. Il lavoro concreto non acquista valore nella produzione, lo acquista solo nello scambio, scambio che rappresenta una astrazione dalle proprietà concrete dei produttori individuali.
Ma già nella produzione, aggiunge Rubin, la merce è destinata allo scambio, già a livello di produzione diretta, prima dell’atto dello scambio, il produttore equipara il suo prodotto con una determinata somma di valore (denaro), e il suo lavoro concreto a una determinata quantità di lavoro astratto. Questa equiparazione, dice, deve preliminarmente avvenire “nella coscienza”, per potersi poi realizzare nello scambio effettivo. Il lavoro astratto è il «contenuto o la «sostanza» che si esprime nel valore dei prodotti.
Se il lavoro astratto è il contenuto del lavoro concreto, e questo contenuto si forma, preventivamente nella coscienza, il contenuto del lavoro concreto è l’idea.
Mi pare una posizione abbastanza tradizionale. Da una parte c’è il terrestre, il concreto, il mutevole, il misurato, l’esteriore, il falso, dall’altra c’è la sostanza, l’invariante, la misura, la legge, l’interiore, il vero, eccetera.
L’economia è composta da attori autonomi, da soggetti tra loro separati, da forze che oscillano intorno al proprio asse; da forze che non sono collegate in forma stabile; forze anarchiche, indipendenti, autonome; che registrano deviazioni, espansioni e contrazioni; che tendono a svilupparsi in maniera continua e unilaterale, tale da rendere impossibile lo svolgimento stesso del processo produttivo, portando l’economia al collasso.
L’autonomia dei produttori, che si sviluppa nella divisione sociale del lavoro, divisone che non segue un piano, non segue una distribuzione razionale secondo una metrica dettata dalle domande complessive della società; l’autonomia e la separazione dei produttori si ricompone nel mercato, azzerando le oscillazione e portando i prezzi in prossimità dei valori.
Rubin ci tiene a distinguere tra prezzi e valori. Il prezzo è la forma reificata del valore. Nella società pianificata, dice, non ci sono prezzi, tutto è regolato dai valori. Nella società capitalista i valori non si esprimono se non attraverso le cose. I produttori (e i compratori) non parlano tra di loro, se non attraverso le cose che producono. Non si incontrano sul terreno di valori comuni, ma si scontrano sul mercato, e l’equilibrio (l’intesa) è raggiunto attraverso le spinte e le contro-spinte che regolano alla cieca i rapporti reciproci.
In rapporti di scambio casuali e sempre oscillanti l’equilibrio si impone con forza imperiosa, così come la legge di gravità si impone con forza imperiosa quando la casa ci precipita addosso. A decidere della distribuzione del capitale nei vari rami della produzione, e dunque a decidere della distribuzione del lavoro tra i vari settori e della divisione sociale del lavoro è questa forza bruta, anonima, che si esprime nel mercato attraverso l’equiparazione degli oggetti, delle merci. L’equilibrio economico, ovvero la giusta e razionale ripartizione delle risorse, è imposto dal mercato ai produttori, attraverso la mediazione del capitale.
Nella società socialista, invece, tutto è regolato dal piano. Nella dimostrazione di Rubin il riferimento all’economia pianificata non svolge un ruolo meramente esemplificativo o retorico. L’impianto socialista, in cui l’equilibrio è raggiunto a monte della produzione, fornisce a Rubin l’idea stessa di equilibrio. Che cos’è l’equilibrio? Rubin non risponde direttamente a questa domanda. Indirettamente dice che l’equilibrio è l’eliminazione – l’appianamento – della differenza tra prezzo e valore. Il prezzo oscilla intorno al valore, se questa oscillazione si amplifica, e registra archi sempre più ampi, la distribuzione del capitale e delle forze di lavoro non raggiunge uno stato ottimale, mettendo a repentaglio la tenuta del sistema stesso del valore. Quando il mercato non riesce a domare i prezzi, i valori collassano, crollano, di essi non rimane più niente – il nichilismo. Le legge del valore si abbatte sull’economia come una legge naturale.
Ora, siccome il valore si esprime nel prezzo, abbiamo questa conturbante situazione. Se il valore si esprime, esprimendosi può portare alla catastrofe, ma se non si esprime, rimane serrato nella sua interiorità. A meno che – a meno che non ci sia un’apprensione immediata del voler dire altrui, o, come nel socialismo di Rubin, una coincidenza perfetta tra il piano e la realtà di tutti gli agenti economici – non una previsione, ma una dittatura (dettatura) estrema, assoluta, senza divergenze, senza differenze, senza incomprensioni, senza scostamenti, senza errori, senza papere, senza balbettio, senza tremori, senza patimenti, senza corpo – anima imperturbata.
L’elemento più sorprendete di questa trasparenza socialista di Rubin (e, per inciso, di tutti i sistemi binari) è che i differenti si contagiano, si allargano nel campo avverso; che, nello specifico, il meccanismo socialista per cui il valore – che regola tutto – deve precedere il prezzo, agisce anche nella società capitalista, ma con questa differenza, che mentre nel socialismo il valore marcia compatto senza reificarsi – materializzarsi – e senza incontrare resistenze, nel capitalismo il valore ha bisogno di fissarsi, di presentarsi nelle cose, di scriversi, di mandare avanti le cose, e attraverso le cose, cercare di trovare un equilibrio, un’accomandazione, una ragionevole distribuzione delle risorse.
La vita economica è come un mare in continuo movimento – dice Rubin. Non è possibile, a un dato momento, osservare lo stato di equilibrio nella distribuzione del lavoro tra i diversi settori. Non c’è modo di afferrare delle regolarità e tirare le somme. Se non si ammette – si costruisce – per via teorica – uno stato di equilibrio, non è possibile riconoscere e spiegare il carattere e la direzione del movimento. Nell’economia di mercato, questo stato teorico si forma nella coscienza del produttore, prima che esso avvii il processo di produzione. Più precisamente, Rubin dice: l’equivalenza deve avvenire preliminarmente nell’idea.
Per il produttore, la merce non-è – è non-uso. Il produttore nega la cosa come uso – come utilità – per ritrovarla – positivamente – come valore; come valore, e poi come valore di scambio materializzato in denaro. Il produttore non vuole la cosa. Vuole il valore della cosa. Ma, anziché il valore, ottiene la sua presentazione empirica, il denaro. Ma anche il denaro, come tutte le cose empiriche, brucia tra le mani. Preso nella catena delle determinazioni, può trasformarsi in niente, e in effetti è niente, se non viene re-investito, eccetera.
Questo strano ibrido costruito da Rubin – questo socialismo di mercato – è comune, in tutto e per tutto, al sistema costruito dalla scuola austriaca e formalizzato, tra gli altri, da Alfred Marshall, con quest’unica differenza. Mentre gli austriaci subordinano il valore alla psicologia – utilità – Rubin lo subordina alla coscienza – idea.
In entrambi i casi la società capitalista è composta da un insieme di soggetti autonomi e indifferenti gli uni agli altri. I produttori producono senza conoscere le quantità che i compratori compreranno e i compratori elaborano domande indipendentemente delle offerte possibili. Le attività non sono collegate preventivamente, come avverrebbe in una società guidata da un piano. Domande e offerte si compongono a posteriori sul mercato. È il mercato che distribuisce – equilibra – le offerte e le domande e alloca i capitali e le forze-lavoro nei settori giusti e nelle giuste proporzioni. Questa è la teoria austriaca. Rubin conosce questa teoria. Ne mostra i difetti, dice che essa è fondata sulla psicologia, e non sulla sociologia. È fondata sulle intenzioni – i sentimenti degli attori – e non sulla struttura sociale, eccetera. Tolta questa differenza, le due teorie sono pressoché identiche. Entrambe considerano il mercato come il momento di equilibrio economico. Il momento in cui le forze – autonome – nello scontro, trovano un accomodamento – stabiliscono una tregua.
Se c’è una divergenza tra le due teorie è questa. Come fanno due soggetti perfettamente autonomi a trovare una misura comune? – chiede Rubin. O questa misura esiste già, allora non sono autonomi, oppure questa misura si esprime a cose fatte, a scambio avvenuto. Ma se si esprime a scambio avvenuto, come è possibile prezzare le merci, dato che esse devono essere prezzate prima di essere portate al mercato? La scuola austriaca – e con essa Marshall – cade in un circolo. La moderna scuola matematica, dice Rubin, sostiene che il volume della domanda e dell’offerta dipende dal prezzo. In tal modo l’affermazione di un nesso causale tra domanda e offerta da un lato, e prezzo dall’altro, cade in un circolo vizioso, a meno che non si rimandi a una equazione indefinitamente lunga, dunque inconcludente, di una serie sterminata di merci. Rinunciando a spiegare la causa dei fenomeni dei prezzi, e limitandosi a esprimere in forma matematica la dipendenza funzionale tra prezzi e volume della domanda e dell’offerta, essa non si chiede perché il prezzo si trasformi. Si limita a descrivere come avvengano mutamenti simultanei nel prezzo e nella domanda (o nell’offerta).
Saggi sulla teoria del valore, scritto da Rubin nel 1928, è un libro straordinario – impareggiabile. Chiaro, rigoroso, di una sottigliezza filologica inarrivabile. Rubin confronta tutti i testi (noti all’epoca) di Marx. Confronta la seconda edizione del Capitale con la prima edizione tedesca, nota le differenze e le chiarisce e le confronta con l’edizione francese. Chiarisce passi oscuri dei testi principali appoggiandosi alle lettere. Legge il Capitale alla luce delle Teorie sul plusvalore, e viceversa. Non mancano i riferimenti ai testi minori e a quel Miseria della filosofia che (giustamente) pone come inizio di un cammino che si conclude con la pubblicazione del Terzo e del Quarto libro del Capitale. Si confronta, senza subalternità, con la scuola austriaca e inglese. È un peccato che sia stato usato, soprattutto in Italia, per giustificare un marxismo polemologico dalle corte vedute, fortemente imparentato con quel pensiero della differenza che emerge e si afferma proprio nella scuola economica austriaca, scuola che Rubin rispettava ma avversava.