Edward William Lane, orientalista, traduttore delle Mille e una notte, può imitare l’Oriente, scrive Edward Said. Vestito alla turca, arabo tra gli arabi, mentre loro parlavano e agivano, osservava e prendeva appunti, dice Said. La sua forza consisteva nello stare tra loro come un nativo parlante la loro stessa lingua, e nel contempo come uno scrittore che segretamente annota tutto ciò che osserva. Ciò che scriveva era inteso come una conoscenza utile, ma non per i nativi, bensì per l’Europa e le sue varie istituzioni colonizzatrici. Perché questo è un punto che la prosa di Lane non ci permette mai di dimenticare: quell’io, quel pronome di prima persona singolare che si muove tra costumi, riti, feste, vita adulta e infantile, onoranze funebri dell’Egitto, è insieme un camuffamento orientale e uno strumento orientalista per catturare e trasmettere informazioni altrimenti inaccessibili. Come narratore, Lane esibisce e insieme si esibisce, ottenendo in un sol colpo una duplice fiducia, rivelando una doppia tendenza: come orientale, cerca e ottiene la fiducia degli orientali (o così pare); come occidentale, vuole un sapere utile e autorevole.
Mentre Lane si avvicina, la vita attiva fugge, e di principio sfugge, e nel fondo del retino di orientalista restano pronomi, aggettivi e verbi che restituiscono l’immagine arabescata di un occidentale.
Lane, dice Said, è la quintessenza della malafede, soprattutto perché egli stesso è consapevole dell’inganno. Così, quel che sembra la mera descrizione empirica di ciò che un particolare, e piuttosto eccentrico, musulmano fa e dice, è presentato da Lane come l’essenza candidamente esposta della fede di tutti i musulmani.
Da qui in poi il discorso di Said comincia lentamente a franare. Come può un singolo arabo – quest’arabo qui – diventare l’esempio (l’esemplare) di ogni arabo? Con questa operazione non si nega – cancella – proprio ciò che si vuole rappresentare? Non si nega nel concetto la vita attiva che tocchiamo con mano – il fatto empirico?
Non è giusto, dice Said, presentare un singolo musulmano, e per giunta eccentrico, come esempio o esemplare o esemplificazione di una genere – non esiste il genere dell’arabo, ogni arabo è a modo suo.
Lane presenta i suoi arabi danzanti e felici come uomini e donne veramente vissuti, ma sono tutte controfigure prese dal Tom Jones di Fielding, dice Said. Lane redige un’enciclopedia dell’esotico, una riserva di caccia per le brame orientaliste di conoscenza e classificazione. Il suo libro Modern Egyptians è un archivio del folklore egiziano subordinato all’epistemologia classificatoria dell’orientalismo accademico. La subordinazione dell’io del narratore all’autorevolezza dell’erudizione corrisponde esattamente all’accresciuta specializzazione e istituzionalizzazione del sapere intorno all’Oriente rappresentato dalle varie società di orientalistica europee, tipo La Royal Asiatic Society. Ogni pagina di questo libro, ogni personaggio, ogni storia raccontata, strappa a Said un grido di dolore, gli strappa un brandello di carne viva. Non sopporta che un cittadino di Londra, acculturato da fare schifo, piombi in una città araba, travestito e confuso tra gli arabi, arabo lui stesso, forse più arabo degli arabi, e rubi alle vite veramente vissute in loco, gli rubi delle confessioni, dei segreti, racconti queste vite uniche, irrappresentabili, le renda modello o esempio di un’arabità che esiste solo per lo studioso, e solo per le accademie arabe delle città metropolitane europee.
La professione di ricercatore specializzato conferiva a Lane particolari privilegi, dice Said. Lane poteva sembrare un orientale, eppure mantenere il suo distacco di studioso. Poteva fare il Flâneur per i mercati e le casbe, assaggiare il cibo e indossare i vestiti locali, poteva accoppiarsi alla araba e dormire alla araba, poteva sorbire tutto, farsi attraversare da ogni cosa, come un gran turista o un turista contemporaneo, e i suoi arabi, gli orientali che studiò, dice Said, divennero in effetti i suoi orientali, perché nel descriverli li vide non solo come persone vere e proprie, ma anche come qualcosa di simile a un monumento storico. Tale duplice prospettiva generò una sorta di ironia – dice Said. Da un lato vi erano persone che vivevano nel presente, dall’altro le medesime persone – come oggetto di studio – divenivano “gli egiziani”, “i musulmani” o “gli orientali”; e soltanto lo studioso poteva vedere la discrepanza tra i due livelli e agire su di essa. Il primo livello tendeva sempre verso una maggiore varietà, ma la varietà era poi confinata, ridotta al suo nucleo radicale attraverso la generalizzazione. Ogni esempio moderno, autoctono, di comportamento diventava un’espressione da ricondurre a quel nucleo originario, che così veniva rafforzato; tale genere di processo costituiva la disciplina dell’orientalismo.
Ogni periferia del mondo – ogni meridione; ogni meridionale di questo mondo, conosce bene la differenza tra la cadenza del suo passo e quella generica del meridionale; ogni abitante di Platì o Africo o Eboli o Longobucco sa che i battiti del suo cuore non sono traducibili o trasmissibili – non sono negoziabili. E tuttavia, questa geografia, che permette, nel disconoscimento più assoluto, di riconoscere differenze cardinali; questa geografia, dice Said, la più cosmopolita di tutte le scienze, traduceva fedelmente la nuova e diffusa vocazione planetaria dell’Occidente. In quanto ancella dell’economia e della politica, avanzava esplorando, disboscando, catalogando, e dalla botanica alla zoologia, dalla biologia all’etologia, ricavava i cluster epistemologici dove infilare, ad uno ad uno, il bambino, la donna, il vecchio, il contadino maturo, lo straccione, il perdigiorno, il napoletano, creando le categorie psico-geografico-sociali del meridionale, del medio-orientale, eccetera, per esorcizzare il fatto che il meridionale è tra di noi, è ovunque si pieghi lo sguardo, tra di noi, dietro, affianco – anche qui.
L’esigenza di questo empirismo estremo, che rifiuta ogni genere e ogni generalizzazione, fino a togliersi dalla bocca le classi con cui si esprime; l’aberrazione del racconto, l’esigenza di dire la verità, la volontà di verità che, ancora tra i denti, si tramuta nel suo contrario, non sembra impedire a Said di andare per la sua strada. Ogni visione dell’Oriente, dice Said, finisce per basare la sua forza e la sua coerenza sulla persona, l’istituzione o il discorso che l’ha generata. L’arabo, il mediorientale, il meridionale, non esistono, non esistono fuori dall’Ordine del discorso in cui funzionano come relais. Si può sostenere, dice Said, che tale Discorso produce i dati empirici a sostegno della loro stessa validità. Non c’è Mediorientale, non c’è Meridionale, non c’è Napoletano, c’è solo il meridionalismo, il mediorientalismo, eccetera. Il vero problema, dice Said, è se possa mai esistere qualcosa come una rappresentazione veritiera, o se piuttosto ogni rappresentazione, proprio in quanto tale, sia immersa in primo luogo nel linguaggio e poi nella cultura, nelle istituzioni e nell’ambiente politico dell’artefice o degli artefici della rappresentazione. Se, dice, quest’ultima alternativa è quella giusta (come io credo), allora dobbiamo essere pronti ad accettare il fatto che ogni rappresentazione è eo ipso intrecciata, avvolta, compresa in molti altri fattori oltre che nella “verità”, senza contare che quest’ultima è a propria volta una rappresentazione. Saremo insomma indotti, dice, dal punto di vista metodologico, a pensare le rappresentazioni (esatte o inesatte, la distinzione è, al più, una questione di grado) come comprese in un comune spazio scenico definito non solo dall’argomento della rappresentazione, ma da comuni tradizioni, retaggi storici, universi di discorso. Entro tale spazio – che non viene creato, ma è preesistente allo studioso, che in esso deve trovare una posizione – ogni ricercatore offre i propri contributi. Detti contributi, per quanto geniali ed eccezionali, sono in primo luogo strategie per la ridisposizione del materiale nello spazio scenico; persino lo studioso che rintraccia un manoscritto smarrito da tempo immemorabile introduce il testo “trovato” in un contesto pronto ad accoglierlo, perché questo è il vero significato del trovare un nuovo testo. Così ogni contributo individuale causa dapprima mutamenti all’interno dello spazio scenico, e poi il costituirsi di una nuova stabilità, proprio come in una superficie su cui si trovano venti bussole, l’aggiunta della ventunesima causa dapprima oscillazioni generalizzate, e poi l’emergere di una nuova configurazione.
Se la differenza tra Arabo e Europeo non regge, come non regge, allora tutto il discorso si sbriciola, tutte le differenze devono essere revocate. Tutto l’impianto messo in scena da Said finisce nel nulla. Se ogni discorso è potere, e ogni opposizione è costruita, cosa ci sta raccontando Said se non favole e miti? E queste favole e questi miti sono davvero immuni da quelle differenze che critica e rinnega, o non sono, essi stessi, costruiti a partire da quegli stessi cliché? Quando Said dice che ci furono (e ci sono) in tal modo un Oriente filologico, un Oriente psicoanalitico, un Oriente spengleriano, un Oriente darwiniano, un Oriente razzista e così via, e che qualcosa come un Oriente oggettivo, in sé e per sé, non è mai esistito, così come non è mai esistito un orientalismo puramente scientifico e poetico, del tutto innocente e disinteressato, fa segno a un Oriente oggettivo, sapendo che non può parlare di un oriente Costruito (storico) senza alludere a un Oriente oggettivo (naturale), presente a sé, integro, intatto. Combattendo contro i cliché o i concetti che hanno costruito o istituito l’orientale in quanto tale o il meridionale stesso, Said si trascina dietro, e non può essere altrimenti, tutta la pappardella che combatte, che contrasta, e senza la quale il suo discorso non perderebbe il mordente, perderebbe il senso.