A Firenze i salari, anche se pagati in moneta aurea, erano contrattati in moneta piccola (o piccioli), così come in moneta picciola erano, perlopiù, espressi tutti i prezzi interni.
In una città-stato come era Firenze nel Duecento la maggior parte della produzione era destinata al commercio internazionale, e in questo commercio non erano certo i piccioli a essere accettati come corrispettivo.
L’espressione dei prezzi mediante due differenti circuiti monetari aveva delle importanti implicazioni economiche e sociali. E ciò in virtù di due circostanze concorrenti. In primo luogo, i due circuiti monetari erano separati. Se non era escluso che il popolo minuto si trovasse per le mani qualche Fiorino, in genere usava la moneta picciola per tutti gli scambi quotidiani. In secondo luogo, il rapporto tra le due monete era fluttuante. Il rapporto di cambio dell’una con l’altra non era fisso, ma variava al variare di alcune evenienze, per così dire, esterne.
Queste due circostanze di natura sociale e geografica produssero non poche conseguenze. In particolare, i loro effetti si apprezzarono sulla contrattazione delle paghe di operai e artigiani. Sebbene i lavoratori venissero pagati in Fiorini, il loro compenso era contrattato e fissato in moneta Picciola.
Bisogna subito chiarire che la moneta, nella sua idealità perfetta di sistema di denominazione della ricchezza, ha sempre bisogno di esprimersi in un supporto empirico. Anche per le monete attuali, in cui il supporto empirico è ridotto quasi a un niente, questo quasi-niente esprime la sua influenza. Se è vero che senza idealità nominale non ci sarebbe possibilità di commisurazione delle merci da scambiare, è parimenti vero che ogni idealità nominale ha bisogno di accedere al mondo per esprimere la sua funzione, e che questo accesso deve misurarsi con un «salto mortale» che non sempre riporta nella posizione che ci si aspettava.
Pare che per una moneta metallica (il Dinaro, il Quattrino, il Fiorino, il Picciolo, il Genovino) questo problema sia aggravato dal suo valore intrinseco, valore determinato dal metallo con il quale essa è coniata (Oro, Argento, Rame), e ciò perché il valore nominale, oltre a fornire la nomenclatura per tutte le altre merci, fornisce il nome-valore anche alla materia nella quale la moneta è coniata. Tuttavia, sin tanto che si rimane nei termini nominali nei quali un valore si rapporta all’altro, ovvero una quantità di metallo si rapporta ad una quantità di moneta, non c’è alcuno scarto, e l’equazione si mostra nella sua perfezione matematica: x grammi di oro sono uguali a y moneta (valore facciale). Quando si esce da questo rapporto matematico, e si esce perché si ha necessità di fissare in un supporto il valore facciale, il rapporto si espone alla corruzione. Il che non vuol dire che esso necessariamente si corrompe, ma che la corruzione è la possibilità che assilla continuamente il rapporto tra valore facciale e materia – il ritorno (ROI) e l’Aufhebung non sono mai garantiti.
Nel 1338, alla vigilia dei grandi tracolli, il sistema monetario fiorentino era composto da diverse monete, tutte derivanti dalla riforma attuata in Francia, Italia e Germania da Carlo Magno tra il 781 e il 794, riforma che introdusse un’unica moneta d’argento chiamata Denaro, dal peso di 1,7 grammi a lega di 950 millesimi. Questa moneta rozza, priva di multipli e sottomultipli, per varie vicissitudini, compreso lo svilimento, col tempo si mostrò incapace di assolvere alle sue funzioni, soprattutto negli scambi internazionali, dove si richiedeva una moneta con un valore intrinseco stabile. La mancanza di multipli e sottomultipli costrinse la gente ad inventare multipli astratti, usando il termine lira per dire 240 denari piccioli e il termini soldo per dire 12 denari piccioli.
Per rimediare a questi difetti si giunse alla coniazione del Grosso d’argento che aveva, a seconda delle città dove veniva coniato, un peso in grammi variabile tra 1,4 di Genova e il 2,2 di Venezia. Firenze, che non possedeva una propria zecca, fece uso della moneta di Lucca, e poi di quella di Pisa. Nel 1252, approfittando di condizioni favorevoli, introdusse una propria moneta: il Fiorino d’oro.
La coniazione del Fiorino d’oro, dice Carlo M. Cipolla (Il Fiorino e il Quattrino), fu un fatto di una importanza capitale nella storia monetaria dell’intero Occidente. Questa introduzione fu preceduta dalla coniazione, in occasione della Costituzione di Melfi in Meridione, dell’Augustale d’oro.
Sino all’introduzione del Fiorino, l’Occidente cristiano era rimasto strettamente ancorato al monometallismo argenteo. Quando gli scambi lo rendevano necessario si faceva ricorso alle monete d’oro bizantine o arabe, oppure dell’Italia Meridionale.
Nel 1252, 21 anni dopo la comparsa dell’Augustale d’oro, Genova emetteva una sua moneta d’oro puro, il Genovino, di grammi 3,52. Nel novembre dello stesso anno anche Firenze emetteva una sua propria moneta d’oro puro chiamata Fiorino, dal peso di 3,53 grammi (circa). Nel 1284 al club dell’oro si unì anche Venezia. Per l’Occidente europeo finiva il monometallismo argenteo inaugurato da Carlo Magno 4 secoli e mezzo prima.
Tra la metà del Duecento e i primi del Trecento il Fiorino d’oro di Firenze si impose in tutta Europa come il mezzo di pagamento per eccellenza nel sistema degli scambi commerciali e delle transazioni finanziarie, assumendo il ruolo di moneta internazionale predominante.
Il bimetallismo non consentiva alle autorità monetarie di stabilizzare il rapporto di cambio tra le monete doro e quelle d’argento. Da un parte, per via del fatto che il valore dei due metalli variava sul mercato, e, d’altra parte, a causa della progressiva svalutazione della moneta argentea. Mentre la moneta d’oro, usata negli scambi internazionali, manteneva stabile il suo valore, la moneta d’argento continuava a svilirsi.
Il sistema a due monete diede vita a due sistemi di prezzi. I prezzi interni rimasero ancorati all’argento, e ciò per due ragioni. In primo luogo, perché la moneta d’oro era di valore unitario troppo grande per essere adoperata agevolmente come misura di valore nella miriade di piccoli scambi interni. In secondo luogo, se i prezzi interni fossero stati espressi in moneta d’oro tutte le pressioni inflazionistiche interne si sarebbero abbattute sulla moneta doro, privandola di quella stabilità richiesta negli scambi internazionali.
A Firenze, soltanto per le merci d’esportazione (lana, seta, pellicce) i prezzi potevano essere fissati in Fiorini, mentre tutte le altre merci dovevano essere prezzate in moneta argentea.
Quando il Fiorino aumentava il suo corso (rispetto alle monete d’argento) gli imprenditori manifatturieri ed esportatori guadagnavano, mentre perdevano quando il corso scendeva. I Lanaioli, ad esempio, pagavano i lavoratori con Piccoli, mentre vendevano i panni in cambio di Fiorini. Quando il corso del Fiorino aumentava, avevano tutto da guadagnare, mentre avevano da perdere quando scendeva. Idem per quelli che vivevano di rendita.
È evidente che in una città-stato, votata all’esportazione, dove i prezzi interni erano espressi in moneta argentea e i prezzi d’esportazione in Fiorini, ogni aumento del corso del Fiorino significava una riduzione dei costi di produzione, e in primis del costo del lavoro, in termini del Fiorino stesso. Poiché il livello dei prezzi interni non si adeguava con la dovuta velocità all’aumento del corso del Fiorino, ciò si trasformava in uno stimolo alle esportazioni, dato che i compratori esteri effettuavano i pagamenti in Fiorini. Allo stesso modo, da un aumento del corso del Fiorino, profittava anche la rendita, visto e considerato che essa era fissata in Fiorini, e un aumento del corso significava che con lo stesso valore nominale fissato da contratto si aveva, perlomeno internamente, un aumentato potere d’acquisto, visto che i prezzi correnti interni erano fissati in moneta piccola.
Pertanto, dice Cipolla, a favore di una politica di sostegno del corso del Fiorino non premevano soltanto i manifatturieri, gli esportatori e i banchieri, ma anche i grossi proprietari fondiari, i quali fissavano gli affitti in fiorini, mentre pagavano le maestranze in moneta piccola. In più, aggiunge Cipolla, la maggior parte dei mutui, anche quelli di importi ridotti ed effettuati nel contado, era fissata in Fiorini.
Insomma, quando il disgraziato si presentava come creditore il contratto veniva fissato nella moneta piccola (che si svalutava), mentre quando si presentava come debitore il contratto veniva fissato in Fiorini (che si rivalutavano).
Anche medici e giuristi chiedevano il compenso in Fiorini, dice Cipolla, trovandosi in ciò alleati con i banchieri, i mercanti e i rentier. Insomma, dice Cipolla, dietro la politica di sostegno del Fiorino non c’erano solo i lanaiuoli, i banchieri e i grandi mercanti, c’erano pure gli usurai, i medici, i giurisperisti, i grandi proprietari fondiari. C’erano, insomma, il patriziato e il gruppo sociale che faceva capo alle Arti Maggiori.
Essenzialmente, dice Cipolla, i movimenti del corso del Fiorino praticavano una redistribuzione del reddito e della ricchezza dai membri delle Arti Minori – solitamente i produttori manuali della ricchezza – verso i membri delle Arti Maggiori. Beninteso, non si trattava di creazione di nuova ricchezza, ma di trasferimento di ricchezza dalle tasche degli uni alle tasche degli altri. Coloro che si consideravano danneggiati da un rialzo del corso del Fiorino, dice Cipolla, erano salariati e stipendiati, ma anche bottegai e artigiani, che nella gran maggioranza facevano parte delle Arti Minori. Al contrario degli esportatori, i bottegai compravano a Fiorini e vendeva a piccioli.
Non mancarono le proteste e le resistenze. A Bologna, nel 1352, quando il corso del Fiorino aumentò, i dipendenti comunali si rifiutarono di accettare il pagamento degli stipendi in moneta piccola. Mentre a Bergamo, nel 1371, in condizioni analoghe, gli operai si opposero ad un imprenditore che «volebat dare denarios minutos et laboratores non volebant».
Il bimetallismo contribuì all’espansione dell’economia fiorentina. Nel 1252 il rapporto tra Fiorino e Piccioli era di 1 a 240, e ai primi del Trecento era sui 780 Piccioli. Le monete d’argento che circolavano in questo periodo erano il Denaro Picciolo, il Quattrino da 4 Denari, il Grosso da soldi 2 ½ (= 30 Denari). Per quanto riguarda il contenuto d’argento delle monete il Denaro corrispondeva a gr. 0,0524, il Quattrino (= 4 Denari) gr. 0,217, il Grosso (= 30 Denari) gr. 1,96. Come si evince facilmente, il contenuto in argento delle monete non era proporzionale al loro valore nominale.
Convertita in argento fino (1000 millesimi) la Lira restituiva quantità differenti, a seconda che fosse rapportata alle differenti specie monetali.
Tutta questa ben strutturata architettura monetaria iniziò a scricchiolare negli anni 1345-47, quando si verificò un aumento del prezzo dell’argento. Ciò condusse ad una fuga dalla moneta (fuga di capitali) e a una demonetizzazione, in quanto il valore intrinseco (valore del metallo) era superiore al valore nominale (valore facciale). La demonetizzazione e l’esportazione di argento (di capitali) produsse una forte pressione sul Fiorino. Questa pressione si scaricò anche sui prezzi, producendo una forte Deflazione.
Le autorità comunali, che tenevano ad un corso stabile del Fiorino d’oro, e che nel frattempo avevano dichiarato Default, adottarono una politica monetaria spregiudicata, dimostrando, dice Cipolla, di rendersi pienamente conto dell’importanza del fattore psicologico nelle faccende monetarie. Da un lato decisero di coniare un nuovo Grosso dal valore nominale notevolmente superiore al valore nominale del Grosso precedente. Il vecchio Grosso valeva 30 Denari, mentre il nuovo ne valeva 48. Tuttavia, il contenuto di argento fino non fu aumentato in proporzione. Mentre si aumentò il valore nominale de 60%, si aumentò il fino soltanto del 25%.
Il nuovo Grosso – qui stava il trucco psicologico – usciva dalla Zecca più bello e pensante di prima, mentre si attuava una sua svalutazione del 20%. Era un gioco da prestigiatore, dice Cipolla, ma riuscì. La gente ritornò a portare l’argento alla zecca, in quanto il valore nominale del nuovo Grosso era superiore al suo intrinseco di circa l’11%.
Tra il 12 e il 31 ottobre 1345 furono coniati 116.138 nuovi Grossi. Intanto, alla chetichella, il Comune impose alla zecca di aumentare i diritti di conio – signoraggio – diritti che finivano nelle casse del Comune.
Una ulteriore svalutazione fu ripetuta con successo nel 1347. A profittarne furono ovviamente quei possessori privati (grandi mercanti, banchieri,userai) di ingenti quantità di Grossi o di metallo d’argento. A perderci furono tutti coloro che avevano, prima della svalutazione, contratto obbligazioni in Grossi d’argento. Anche in questo caso la politica monetaria determinò un redistribuzione della ricchezza.
L’aumento del prezzo dell’argento causò una forte compressione dell’economia e dei consumi, soprattutto per il popolo minuto. Per effetto della deflazione i prezzi erano diminuiti, ma allo stesso tempo i finanziamenti erano calati notevolmente, non circolava contante e l’economia languiva. La casse del Comune erano vuote, il corso del debito pubblico era crollato, e molte aziende risultarono parzialmente o totalmente insolventi. Anche il prestigio del Fiorino risultò scosso sui mercati internazionali.
Mentre il sistema mercantile-bancario era stretto in una morsa asfittica, il debito pubblico e la disoccupazione salivano paurosamente. A dare il colpo di grazia, nel 1348, arrivò la peste, che si abbatté su Firenze con una violenza mai conosciuta prima. In pochi mesi la popolazione della città fu dimezzata. Si passò da 80-85 mila abitati a poco più di 40 mila. Stessa sorte toccò alla campagna.
Per l’economia il disastro della peste rappresentò un punto di svolta. Siccome il numero degli abitanti si era dimezzo, il contante in circolazione tornò a essere abbondante. Inoltre, la peste spinse i cittadini a spendere le poche risorse tesaurizzate, spingendo in alto i consumi interni, favorendo i bottegai e gli appartenenti alle Arti minori. Di conseguenza, prezzi e salari tornarono ad aumentare, anche se nell’insieme crebbero meno dei salari. La gente era tornata a spendere, gli operai avevano alzato la testa, e i salari reali erano aumentati.
La deflazione aveva ceduto il posto all’inflazione, e nel ventennio 1350-69 prevalsero salari alti. Gli operai si sentivano più forti, e persino alla zecca un certo Simon Dante da Maiano si presentava ogni mattina per invitare gli operai allo sciopero e alla protesta.
In buona sostanza, dice Cipolla, si trattò di un periodo di vacche grasse, non solo per gli operai, ma anche per i bottegai. La nuova struttura dei prezzi e la nuova gerarchia della profittabilità avevano favorito le Arti Minori a danno delle Arti Maggiori.
Le finanze pubbliche fortemente dissestate, anche per gli aiuti che il Comune dovette dare ai molti sciagurati che arrivavano dal contado, erano sempre bisognose di denaro, denaro che non veniva raccolto con nuove tasse, ma con l’emissione di debito.
Chiedere denaro in un periodo di alti tassi di interesse costringeva il Comune a non poche acrobazie finanziarie. Una ordinanza del 1345 vietava, per i titoli pubblici, di corrispondere un interesse superiore al 5%. Ma in questo periodo il tasso di mercato era del 15%. Ciò impedita al Comune di raccogliere risorse sul mercato. Per aggirare tale difficoltà, dice Cipolla, si arrivò ad autorizzare prestiti sottoscritti per somme triple a quelle effettivamente versate.
Questo peridio di vacche grasse, che durò per circa una ventina di anni, giunse al termine per la concorrenza di diverse cause.
Sul fronte monetario ciò che desta interesse sono due episodi ragguardevoli. Il primo interessò il Quattrino, il secondo riguardò una misura eccezionale nell’intera storia monetaria, e che ebbe come protagonista il Grosso.
Il sistema monetario fiorentino non era controllato dall’autorità pubblica. La zecca era indipendente dal Comune. L’unica relazione riguardava il versamento al Comune di una tassa – diritto di conio o signoraggio – trattenuta ai privati che portavano metallo alla zecca. Per il resto essa era gestita privatamente, e non aveva alcun controllo sulla emissione di nuova moneta. Pertanto, il Comune non aveva possibilità di finanziare il suo debito con l’inflazione, ovvero con l’emissione di nuovo contante. Le nuove emissioni erano appannaggio dei privati. Tutto funzionava all’incirca come nel sistema di banche di emissione private e ordinarie vagheggiato da Hayek. L’unica – e importante – prerogativa pubblica si limitava a fissare la quantità di fino corrispondente al valore nominale di ogni tipo di moneta. Questa importante prerogativa veniva usata dal Comune per indirizzare la politica monetaria, in particolare era adoperata per controllare, nei limiti del possibile, il corso delle monete in circolazione.
Le svalutazioni del 1345-47 avevano riguardato solo il Grosso. Il Picciolo e il Quattrino erano rimasti indenni.
La sovranità relativa che il Comune di Firenze poteva vantare sul suo territorio non impediva che si svolgessero commerci con le città vicine, soprattutto con Pisa, e che questi commerci venissero conclusi con moneta coniata dalle zecche di queste città. Spesso le monete delle diverse città avevano una faccia, un valore nominale e un valore intrinseco pressoché simili. Nel caso del Quattrino di Pisa, città con la quale i commerci erano intensi, a parità di valore nominale, il contenuto di fino era inferiore. Ciò portò i contraenti di Firenze a trattenere e ritirare dalla circolazione i Quattrini fiorentini, e a usare negli scambi, anche interni, i Quattrini pisani. I Quattrini fiorentini potevano essere fusi e portati alla zecca pisana e monetizzati, ottenendo un guadagno sfruttando lo spread tra le due monete.
Nel 1367 gli artigiani fiorentini protestarono contro l’invasione dei Quattrini pisani, i quali, seppur di valore intrinseco inferiore a quelli fiorentini, venivano scambiati allo stesso valore nominale. Gli artigiani chiedevano alle autorità che la «mala moneta» pisana venisse, d’imperio, quotata a tre Denari, anziché quattro. La protesta non registrò alcuna conseguenza. Ciò che si doveva fare era una svalutazione del 15-20% della moneta fiorentina, in quanto il fino contenuto nel Quattrino pisano era inferiore del 18% circa.
Sotto l’incalzare degli avvenimento, nel 1371, dice Cipolla, si procedette alla nomina di una commissione per studiare l’afflusso della «mala moneta» straniera e suggerire una nuova parità metallica per i Quattrini fiorentini, tale da metterli al riparo dai corrispondenti stranieri. Ci si era evidentemente convinti che l’unico rimedio fosse la svalutazione del Quattrino, cosa che si realizzò nel 1371, quando finalmente i due sistemi monetali fiorentino e pisano tornarono in equilibrio.
La svalutazione del Quattrino, per i motivi già delucidati, portò ad un diluvio di emissioni. I detentori di questa moneta fusero il metallo e lo portarono alla zecca per una nuova monetizzazione. Nei ventuno mesi intercorsi tra il febbraio del 1372 e l’aprile del 1375 furono coniati più di 23 milioni di nuovi Quattrini. E c’è da ritenere, dice Cipolla, che sino alla primavera del 1375 siano stati coniati qualcosa come 40 milioni di quattrini – calcolo che non tiene conto dei Quattrini defluiti da Firenze verso Pisa.
La svalutazione del Quattrino, accompagnata alla svalutazione del Picciolo, portò ad un aumento del corso del Fiorino, che passò dai 68 soldi del 1371-72 ai 75 del 1375, segnando un aumento del 10% nell’arco di tre anni. L’apprezzamento coincise con condizioni economiche generali avverse, le quali stavano provocando un aumento della disoccupazione, un ribasso dei salari e un rialzo dei prezzi dei beni di prima necessità. Il periodo della vacche grasse era finito, e la questione della valuta del Forino tornò a imporsi nella dialettica dei rapporti di classe.
L’aumento del Fiorino non andava giù né ai salariati né e ai membri delle Arti Minori. Ad esso si attribuiva l’aumento dei prezzi. Il disaggio sociale si trasformò in tumulto (tumulto dei Ciompi) tra il 1378 e il 1380. L’intenzione dei bottegai e del popolo minuto era di riportare il Fiorino alla quotazione del periodo delle vacche grasse – 68 soldi – realizzando una rivalutazione della moneta Picciola. Ma ciò non avvenne. Allora si chiese di ridurre il valore nominale del Quattrino a 3 Piccioli e mezzo, tale che le paghe contrattate in questa valuta venissero pagate con un numero maggiore di pezzi. Anche in questo caso non se ne fece nulla, dice Cipolla, in quanto la proposta aveva dell’assurdo.
Nel 1380 i fautori della deflazione tornarono all’attacco con una proposta, dice Cipolla, che merita un posto di rilievo nella storia del pensiero e della politica monetaria.
Il Fiorino, dice, si trovava allora sui 75 soldi, l’aspirazione era di ridurlo a 70 soldi. Le operazioni possibili erano due: 1) svilire l’intrinseco del Fiorino, 2) ritirare la moneta argentea ed emetterne di nuova con un intrinseco più elevato. Queste due misure erano però impraticabili. A questo punto i fautori della deflazione avanzarono una proposta fuori dall’ordinario. Proposero il ritiro dalla circolazione e la fusione di Quattrini, ogni due mesi, e per otto anni, per un valore pari a 2.000 Fiorini.
I fautori della proposta, dice Cipolla, erano pienamente consapevoli dell’esistenza di una relazione tra il valore di scambio della moneta e la quantità in circolazione della stessa (un’idea che si fa normalmente risalire agli «economisti» spagnoli e francesi del secolo XVI). Operando sulla quantità i fiorentini miravano a portare il valore di scambio del Quattrino al di sopra del suo valore intrinseco, facendolo circolare come una moneta-segno.
In conclusione bisogna accennare alla scoperta tardiva presso gli economisti della spinosa questione del rapporto tra il segno e ciò che il segno denomina, ovvero al rapporto tra infinito e finito, e alle complicazioni che il salto dall’uno all’altro implica. Ciò entro cui gli economisti si sono barcamenati è, da una parte, la mera assunzione di una moneta-segno, utile (in apparenza) per redigere sfilze di conti, e, dall’altra, la resa a un empirismo inconcludente.
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CARLO M. CIPOLLA
Il fiorino e il quattrino.
La politica monetaria a Firenze nel Trecento – Il Mulino, Bologna.